Serrati, il Massimalismo e la nascita del Partito Comunista d'Italia

La guerra, la crisi rivoluzionaria che questa produrrà in Italia e la conquista del potere dei bolscevichi in Russia avranno un impatto gigantesco sul Partito socialista italiano (Psi).


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Sull’onda degli eventi, e dentro un processo di crisi e radicalizzazione delle masse senza precedenti, la sinistra si ritroverà alla testa del partito. Emergerà una corrente peculiare che ben rappresenta quest’epoca turbolenta: il massimalismo, e con esso l’uomo che lo personificò, Giacinto Menotti Serrati. Il massimalismo rivendica l’attuazione del programma massimo, ovvero la rivoluzione socialista. La rivoluzione però è solo evocata o tutt’al più proclamata per l’avvenire, senza che questo implichi l’adozione di una politica rivoluzionaria. Come è possibile che questa corrente divenga maggioritaria nella più importante organizzazione della classe operaia? E perché coloro che si considerano dei rivoluzionari mancano completamente all’appuntamento col “biennio rosso” del 1919-1920? Quale è la traiettoria del massimalismo, il cui andamento contraddittorio è decisivo per la stessa nascita del PCdI? Per rispondere a queste domande dobbiamo in primo luogo fare un passo indietro e ricostruire l’evoluzione del dibattito dentro il Psi nei decenni che precedono la scissione di Livorno.

L’egemonia riformista nel Psi

Turati e il suo gruppo, raccolti attorno alla rivista Critica Sociale, giocano un ruolo di primo piano già a partire dalla fondazione del Partito socialista nel 1892. Il marxismo turatiano è fortemente influenzato dalla cultura positivista e illuminista, ed è pregno di una visione gradualista dello sviluppo sociale. L’avanzata del movimento operaio può avvenire con metodi pacifici nel flusso di un generale progresso economico e sociale.

Sul finire del secolo la classe dominante, tutt’altro che illuminata, e impaurita dal protagonismo crescente delle masse, è tesa ad affrontare con la forza tanto le richieste operaie quanto il tradizionale fermento delle campagne. Turati legge nella crisi di fine secolo lo scontro tra due Italie: una rappresenta da Crispi, ancora carica di residui feudali e parassitari, l’altra politicamente liberale, espressione della borghesia industriale in ascesa. Il compito dei socialisti è quello di affiancare le forze democratiche, repubblicane e progressiste, e contrastare l’autoritarismo in modo da costruire i presupposti per il socialismo.

Ancora più significative per l’emergere del riformismo sono le lotte del 1898 e le rivolte contro l’aumento del prezzo del pane. I moti hanno il loro punto più alto nella Milano industriale, dove i dimostranti sono presi a cannonate, i morti sono decine e gli arresti centinaia. Tra questi, diversi capi socialisti e lo stesso Turati. A partire dal movimento che si produrrà contro la reazione, i socialisti danno vita ad una campagna a tutela dei diritti democratici con i partiti che difendono le libertà costituzionali1. La grande novità che si produce nel campo socialista all’inizio del novecento, che sancisce l’inizio del riformismo, è proprio la fine dell’intransigenza che il partito professa nel campo delle alleanze con le forze politiche borghesi. Sperimentata nelle elezioni amministrative, la tattica delle alleanze con i partiti “affini” approda nel 1901 nella politica nazionale del Psi, quando il gruppo parlamentare, per contrastare il ritorno della destra, vota a favore del governo Zanardelli (con Giolitti agli interni), inaugurando la linea della collaborazione di classe. Nonostante i margini per una vera politica riformista in Italia siano risicati, il riformismo si fa strada grazie alla crescita economica che si registra a partire dagli ultimi anni del diciannovesimo secolo e alla, seppur circoscritta, industrializzazione del paese.

Giolitti capisce che lo sviluppo del proletariato e la crescita delle sue organizzazioni sono un processo irreversibile e si pone coscientemente l’obiettivo di integrare i socialisti nell’agone politico borghese e usarli per frenare la spinta delle masse. Il Partito socialista sviluppa la propria linea di collaborazione con la borghesia mentre vi è un crescendo di agitazioni operaie. Tra il 1901 e il 1902 gli scioperi coinvolgono centinaia di migliaia di lavoratori. Il beneficiario principale di questa stagione è ovviamente il Partito socialista; le sue file si ingrossano mentre inanella una serie di successi elettorali. Nel giro di pochi anni ottiene l’approvazione di alcuni provvedimenti legislativi in difesa dei lavoratori (lavoro festivo e notturno, contratti, ecc.) e pur con tutti i suoi punti di debolezza, nel primo decennio del ‘900 rappresenta già una forza di tutto rispetto nel panorama politico italiano. Il partito ha infatti costruito un proprio insediamento tra la classe, specie nelle città industriali del nord, ha attirato un settore significativo della piccola borghesia e ottiene un grande successo nelle campagne, particolarmente in Emilia, dove si sviluppa un fortissimo movimento di leghe e cooperative. Nel 1901 nasce Federterra, seguita nel 1906 dalla CGL. In alcune aree del paese le sedi legate al movimento socialista diventano il centro della vita sociale popolare, mentre il partito ha come primo obiettivo la conquista del municipio. Sono altresì diffusissime le case del popolo, le associazioni di mutuo soccorso e gli altri istituti autonomi della classe.

Il Gruppo parlamentare socialista (Gps) cresce e diviene negli anni sempre più autonomo dal partito. Per i riformisti il parlamento non è solo una tribuna ma il luogo deve si concretizza la trasformazione dei rapporti sociali e l’erosione del potere della borghesia. Il “socialismo” sarà il risultato di un processo graduale di riforme rese possibili dalla politica dei blocchi elettorali e dalle comuni battaglie in parlamento: è la pratica opportunista del ministerialismo socialista che prevede l’abbandono di ogni logica rivoluzionaria e il completo adattamento allo Stato liberale e all’ordine capitalista. L’egemonia riformista nel decennio giolittiano si esercita proprio a partire dal controllo del Gps.

Una sinistra intransigente contrasta fin da subito il ministerialismo; l’intransigenza si limita al punto, decisivo, della collaborazione di classe, a cui si contrappone una proposta genericamente classista e rivoluzionaria senza però che questa sia sorretta da una vera visione strategica.

La vittoria dei riformisti, sarà completa solo nel 1908, ma l’organizzazione è avvitata in una crisi: gli iscritti diminuiscono, tra la base c’è apatia, l’elettoralismo sembra l’unica prerogativa del partito. Anche se all’apparenza la corrente riformista è unita, si sono già delineate delle differenziazioni, con un settore che più apertamente invoca un abbandono del marxismo e propone la fondazione di un partito del lavoro. Tra questi c’è Bonomi, che utilizzando le tesi di Bernstein2 caratterizza l’Italia giolittiana come un paese dal regime democratico solido e un movimento operaio in grado di incidere sulla legislazione sociale; lo Stato non è più uno strumento di oppressione nelle mani della borghesia ma interviene per regolare l’economia. Il suo Le vie nuove del socialismo (1907) descrive la via italiana al revisionismo. La prospettiva politica è quella di governi di coalizione democratica, con tanto di ministri socialisti. Cade l’ultimo argine: l’adattamento è totale e senza infingimenti. La spaccatura nel campo riformista a dire il vero rappresenta una crisi più generale di tutte le componenti del Partito socialista, ma dopo un periodo di estrema debolezza la sinistra del partito arriva al congresso di Milano del 1910 con i primi segnali di una propria riorganizzazione e la costituzione di una “frazione rivoluzionaria intransigente”. La frazione è estremamente eterogenea e il suo collante è la lotta al riformismo, ma ben presto dovrà misurarsi con problemi più ampi.

La guerra di Libia e l’ascesa della sinistra alla direzione del partito

Nel 1911 Giolitti annuncia che tra gli impegni del suo nuovo ministero c’è il rilancio dell’impresa coloniale libica. Per disinnescare le proteste socialiste, la guerra è accompagnata alla promessa del suffragio universale (maschile): una battaglia storica del partito. Dopo un decennio di politiche riformiste i socialisti difficilmente si distinguono da una qualsiasi forza democratica, anche il solo richiamo al socialismo è in gran parte svanito. Come dirà lo stesso Giolitti: “Carlo Marx è stato mandato in soffitta”.

Leonida Bissolati, uno degli uomini di punta del Gps e direttore dell’Avanti! accetta di salire le scale del Quirinale per andare al colloquio col re. Non entrerà nel governo ma il gesto rompe un tabù. Il caso Bissolati produce un terremoto nel partito: l’interlocuzione con un governo guerrafondaio è veramente troppo.

Il dibattito sul sostegno al governo – che il gruppo parlamentare darà – spacca il campo riformista e fa emergere due tendenze. Da un lato Bonomi, Bissolati e Cabrini traggono le estreme conseguenze dalla impostazione riformista. Accettando la proposta giolittiana si possono contenere i danni e ottenere il suffragio, l’alternativa è rinunciare completamente alla politica di condizionamento che è alla base di tutto il riformismo. Anche se gli stessi ultrariformisti si dichiarano contro la guerra, di fronte ad essa non resta che sperare in un esito positivo. Cabrini augurerà la vittoria “alle bandiere della nostra gente”. Bissolati si dirà socialista non anticoloniale e la loro traiettoria sarà nel segno del nazionalismo e del sostegno all’imperialismo italiano.

Ad essere spiazzato dalla svolta colonialista è Turati, il cui schema di graduale e armonico sviluppo pacifico non prevede conquiste coloniali, meno che mai ad opera di Giolitti. La sua linea nello scontro interno al partito è quella di difendere il riformismo, pur considerando la situazione non matura per una politica di collaborazione (Turati è perché il partito passi all’opposizione). Una posizione debole, tant’è che nello stesso fronte riformista c’è chi comincia ad intravedere la fine di una intera stagione politica.

Lo scontro tra le due aree del riformismo paralizza l’azione dei socialisti. Come accadrà spesso, la discussione avverrà prima nel Gps: è qui che si prende atto che la spaccatura è insanabile.

Contro l’invio delle truppe si sviluppano significative mobilitazioni popolari. La stessa CGL riformista dovrà organizzare la mobilitazione. Il contesto aiuta gli intransigentiche possono per di più cavalcare la rabbia della base del partito. La frazione intransigente pubblica un giornale dal titolo provocatorio: La Soffitta, e si pone l’obiettivo di scalzare i riformisti dalla direzione del partito avversando la commistione giolittiano-riformista. Per lo scopo si dà una propria organizzazione, una rete di fiduciari regionali e un fitto calendario di iniziative.

Sarà Il congresso di Reggio Emilia del 1912, con l’espulsione dei riformisti di destra di Bissolati (daranno vita al Partito socialista riformista), a segnare la fine del riformismo come corrente maggioritaria istituzionalizzata. I riformisti rimasti nel Partito socialista con Turati resteranno, come vedremo, in una posizione di minoranza ma non di subalternità.

Tra il 1910 e il 1912 la sinistra conquista la Direzione del partito nel contesto della guerra coloniale e della radicalizzazione delle masse. Al congresso di Reggio Emilia si presenterà come un coacervo di tendenze ma il processo di rivitalizzazione e di attivismo è evidente. Il partito ritorna a crescere: dal 1912 al 1914 con 20.000 iscritti in più, il numero dei tesserati al partito è quasi raddoppiato3. La vittoria della sinistra va vista anche come l’effetto di un processo di estrema radicalizzazione che terminerà nella settimana rossa dal 7 al 14 giugno del 1914: una mobilitazione a carattere insurrezionale che partita da Ancona, dove in una manifestazione contro la guerra vengono uccisi tre manifestanti, si allarga a diverse città d’Italia. In crescita è anche la Federazione giovanile socialista, che sviluppa una tenace campagna antimilitarista e supera in questi anni per la prima volta i 10.000 iscritti. Anche la radicalizzazione delle giovani generazioni sarà una costante di questi anni e avrà l’effetto di fornire nuove forze e nuovi quadri alle tendenze di sinistra.La sinistra ha un compito arduo: quello di costruire un’alternativa effettiva alla direzione riformista, ma se ne cura poco. Nessuno tenta di rendere concreta la centralità del partito che da più parti si rivendica per arginare l’autonomia del Gps. Saranno piuttosto i riformisti ad influenzare alcuni degli intransigenti in nome della continuità del partito. La sinistra non ha dirigenti illustri tra le sue fila, lo scontro con i riformisti è combattuto all’insegna del richiamo alla disciplina.

Nel giro di qualche anno la lotta tra le tendenze è assopita e tutti, convintamente o meno, uniti dall’opposizione al governo e alla guerra libica, si riconoscono intransigenti. La nuova direzione socialista non porta grandi rinnovamenti e in generale è incerta. Gli intransigenti, seppur in maggioranza, non sono in grado di costruire una propria egemonia nel partito. Manca un rafforzamento organizzativo e ideologico capace di far diventare il partito una guida per un’offensiva operaia e popolare.

In realtà, la corrente di sinistra, pur costituendo il terreno unico di cultura dei diversi germi di rivoluzionarismo, più o meno responsabile, ha dei propri caratteri che restano immutati nei decenni. Con formula sintetica si potrebbe dire che essa è intransigente ma non rivoluzionaria”4.

È anche lontanissima dal concepirsi come una frazione organica; Il capo riconosciuto della sinistra, Lazzari, prova a dare la direzione dell’Avanti! a Salvemini, battitore libero, espressione della protesta contadina e meridionalista, intriso di una visione altrettanto gradualista dei riformisti. Col suo rifiuto e dopo la breve parentesi di Bacci, la direzione del giornale sarà di Mussolini, che potrà godere del sostanziale immobilismo del partito per propagandare la propria demagogia estremista, che niente ha a che vedere col marxismo e creerà non poche contraddizioni alla componente massimalista. La direzione spregiudicata e chiassosa dell’Avanti! sarà infatti il principale bersaglio delle critiche dei riformisti alla Direzione del partito. L’abbandono di Mussolini, col suo passaggio all’interventismo, eliminerà l’ostacolo e i riformisti potranno via via costruire un centro saldandosi con un pezzo degli intransigenti, a partire da Lazzari.

Né aderire né sabotare”: il Psi e la grande guerra

La direzione del Psi è inizialmente titubante di fronte alla guerra e teme in primo luogo la partecipazione dell’Italia a fianco della Triplice Alleanza (Impero tedesco e austro-ungarico), considerata dai settori progressisti come il simbolo del conservatorismo. La possibilità di un intervento a favore dell’Intesa (Francia e Gran Bretagna) viene invece lasciata aperta.

La guerra produrrà come è noto il crollo della II Internazionale e l’adattamento della stragrande maggioranza dei partiti socialisti, a partire da quello tedesco, alle borghesie nazionali. L’eccezione del Psi è parziale, perché esiste un ampio fronte contrario all’entrata in guerra dell’Italia, che comprende alcuni settori della borghesia, tra cui lo stesso Giolitti. Il ritardo con cui l’Italia entra in guerra e la scissione sulla guerra di Libia avvenuta poco prima facilitano il compito dei socialisti italiani, che pur non avendo una posizione rivoluzionaria come quella dei bolscevichi, evitano il tradimento aperto e la votazione dei crediti di guerra. Il Partito socialista oscillerà quindi tra una posizione a favore dell’Intesa e la neutralità assoluta. Nel clima sempre più polarizzato della guerra, Serrati prende sulle proprie spalle la direzione dell’Avanti! diventando uno dei più prestigiosi dirigenti socialisti. Sarà sua la lotta per difendere il partito dagli attacchi di Mussolini dopo il suo passaggio nel campo degli interventisti, garantendo che la voce del partito arrivi alle masse negli anni della guerra. Come avrebbe scritto Gramsci nel commemorarlo in occasione della sua morte:

La popolarità di Serrati non si formò nelle facile arene dei grandiosi comizi dei tempi normali, quando era facile con le smaglianti orazioni o con la bassa demagogia sommuovere il sangue delle folle e farsi coreograficamente portare in trionfo, quando le grandi fame si costruivano in quindici giorni per diventare infamie nei quindici giorni successivi. Essa si formò lentamente, a mano a mano che fino nei più profondi strati della vita popolare, nella trincea del fronte o nel villaggio siciliano, nonostante l’Avanti! fosse ridotto a pochissime decine di migliaia di copie, arrivava la notizia che un giornale diretto da un uomo che si chiamava Serrati non si piegava né alle blandizie né alle minacce della classe dominante e che esso testardamente e intrepidamente rispondeva “no” in nome dei lavoratori a chiunque volesse in un modo o nell’altro, conquistare alla guerra la coscienza delle grandi folle. È certo che Serrati fu allora amato come mai nessun capo di partito è stato amato nel nostro paese5.

Serrati ha sicuramente la capacità di relazionarsi all’umore dei settori proletari vicini al partito, a cui fa arrivare la linea intransigente del giornale contro le ambiguità di Turati. Nonostante le polemiche con i riformisti la linea della direzione del Psi è però rinunciataria e non prepara nessuna mobilitazione nel caso di un’entrata dell’Italia in guerra. La mancanza di determinazione dei socialisti invita alla repressione, e lo stesso Serrati è arrestato con oltre duecento compagni il 31 marzo a Milano mentre si oppone ad una dimostrazione interventista di Mussolini; i cortei e i comizi in vista del primo maggio sono vietati.

Il 13 maggio, in piena offensiva interventista, l’ «Avanti!» pubblicò una comunicazione del Lazzari, che incitava le sezioni del partito affinché «ai comizi si contrappongano comizi, alle dimostrazioni dimostrazioni» e non si attendesse «in una mussulmana remissività la risoluzione dell’aggrovigliata situazione».”6

Il 15 maggio la Direzione si riunisce a Bologna col Gps e la CGL per ribadire le posizioni neutralistiche. La formulazione ideata da Lazzari è: “né aderire né sabotare”. È evidentemente una mediazione tra una tendenza social patriottica presente nel Gps e nella CGL e le posizioni neutraliste appartenenti alla sinistra intransigente e alla Federazione giovanile socialista. L’ambiguità dello slogan dà mano libera ai riformisti. Anche sul terreno della mobilitazione la proposta è debole: non viene proclamato lo sciopero generale ma solo una serie di comizi.

Di fatto, l’agitazione socialista, nonostante l’enfasi del linguaggio, è condotta con i metodi classici della pacifica mobilitazione di opinione pubblica, assomiglia assai più a una magari accesa campagna elettorale che non a una leva di forze rivoluzionarie pronte a un’azione energica e decisa. I pochissimi episodi di turbolenza e di intolleranza di cui i socialisti sono protagonisti hanno tutti carattere di assoluta spontaneità, si collocano fuori e contro le direttive del partito.”7

A Torino il 17 e 18 maggio lo sciopero generale viene proclamato lo stesso: è imponente, viene caricato più volte dalla cavalleria e finisce in una battaglia di strada. Anche a Milano la situazione è tesa e invano si aspetta un segnale dalla Direzione.

La possibile opposizione rivoluzionaria alla guerra è ridotta ad una sorta di resistenza passiva. Tra i dirigenti socialisti prevale l’idea di aver fatto quello che si poteva; ci si accontenta di aver conservato le forze per momenti migliori e evitato una rottura con i riformisti. Su questa base si creerà un sentimento di unitarietà e di patriottismo di partito che avrà grande peso negli anni a venire.

In realtà i riformisti nel clima di unità nazionale prodotto dalla guerra possono ricostruire un dialogo con la borghesia, interrotto dalla divergenza sull’impresa libica. La collaborazione con i governi per la vittoria dell’Italia viene man mano resa pubblica. Turati si pronuncia contro i crediti di guerra ma subito dopo incontra Salandra per proporgli un piano di collaborazione per il successo dell’Italia. I riformisti propongono un blocco attorno ad un comitato d’azione socialista per la collaborazione civile che dà vita ad atti di vero e proprio patriottismo. La parola d’ordine “né aderire né sabotare” vene ad essere violata nella pratica. A Serrati resta la polemica contro gli aspetti più evidenti della collaborazione ma è già prigioniero dell’unità de partito.

Come a Lenin era chiaro, dalla guerra erano emerse diverse sfumature di opportunismo e, specie dopo la conferenza di Zimmerwald che aveva riunito tutti i socialisti contrari alla guerra, intensifica la sua lotta non solo contro il “socialpatriottismo”, il sostegno aperto alla guerra degli Scheidemann, Sembat, Vandervelde8 ecc., ma anche contro il “socialpacifismo” di quei socialisti che volevano la pace entro i confini del capitalismo, come Kautsky9, Longuet10, Martov11 e lo stesso Turati. Nel socialismo italiano questa chiarezza non c’è: l’espulsione degli ultrariformisti nel 1912 e la linea di Turati, più vicina a quella del socialpacifismo di Kautsky che non a quella socialsciovinista di altri riformisti europei, creerà non poca confusione nel processo di chiarificazione che porterà alla nascita del PCdI.Il risultato è che formalmente in Italia non si produce la spaccatura che avviene negli altri paesi. Il Partito socialista può considerarsi unito contro la guerra e aderisce alla conferenza di Zimmerwald nel settembre del 1915 (e a quella succcessiva di Kienthal nell’aprile 1916) con delegazioni in cui sono rappresentate le diverse correnti. La posizione dei socialisti italiani è quella del pacifismo che caratterizza il centro zimmerwaldiano, dal quale si distacca la sinistra di Lenin, che propone apertamente una politica rivoluzionaria contro i governi borghesi che hanno scatenato la guerra. Il pacifismo degli italiani è carico di accenti etici e umanitari, distante dalla consapevolezza di Lenin, che a partire dalla caratterizzazione della guerra come guerra imperialista, arrivava alla conclusione di trasformare la guerra in guerra civile. Come è noto la conferenza finì con un compromesso in cui accanto alla caratterizzazione della guerra come imperialista veniva rivendicata la “pace senza annessione e senza indennità”.

La conferenza ha l’effetto di rompere almeno parzialmente l’isolamento e il provincialismo dei socialisti italiani e di far conoscere ad alcuni massimalisti i rivoluzionari russi; in più di un’occasione Serrati e Angelica Balabanoff12 si schierano con le posizioni della sinistra guidata da Lenin e a Kienthal Serrati sarà il solo della delegazione italiana ad appoggiare la proposta della formazione di una III Internazionale13. Il risultato a stretto giro è una radicalizzazione della linea dell’Avanti! che fa da contraltare alla piena integrazione dei turatiani nella sacra unione, resa possibile col governo democratico Boselli (con agli interni Orlando). Intanto, nel convegno nazionale di Roma del febbraio del ‘17 si delinea una nuova sinistra, che critica il centrismo di Lazzari e la collaborazione dei riformisti. Un ordine del giorno presentato da Bordiga che propone di intensificare l’attività socialista in senso rivoluzionario per la fine della guerra ottiene 14.000 voti contro i 17.000 di quello ufficiale di Lazzari. È La dimostrazione che le cose sono in rapido movimento e la novità più importante arriva dalla Russia.

La rivoluzione russa e il Partito socialista

Di fronte alla rivoluzione di febbraio del 1917, mentre l’Avanti!, anche se non sempre in modo fermo, si schiera per una visione classista, i riformisti sono completamente a rimorchio della classe dominante. La rivoluzione, dirà Turati in parlamento, è utile “ai fini della guerra e ai fini della pace”. L’idea è che la Russia liberata dall’oppressione zarista possa continuare la guerra, rafforzando la lotta democratica degli alleati. Treves elogia il trionfo del nuovo idealismo rappresentato dalla rivoluzione in Russia e dall’intervento dell’America in Europa che dimostrerebbero il crollo delle finalità capitalistiche e imperialistiche dell’Intesa.

Serrati, in particolare, comprende che l’esito della rivoluzione sarà decisivo per il socialismo, tanto in Italia quanto a livello internazionale. Il direttore dell’Avanti! evolverà fino a solidarizzare completamente con i bolscevichi e a dichiararsi leninista. Il giornale è l’alfiere di un Lenin – più mitizzato che studiato – decisamente “intransigente” e “massimalista” che susciterà grande ammirazione nel partito, contribuendo non poco al processo di radicalizzazione di alcune posizioni del Psi.

Nei primi mesi del ’17 la posizione del partito sui caratteri assunti dalla guerra è quella dei riformisti14 mentre passano in sordina i movimenti contro il carovita scoppiati a Milano e nei centri vicini che rappresentano le più importanti manifestazioni dall’inizio della guerra e dimostrano un cambio di clima radicale nella società. Ancora, è Turati a stendere un ampio programma dal titolo Per la pace e pel dopo guerra. Le rivendicazioni immediate del Partito Socialista sull’ Avanti! del 16 maggio, in cui difende il gradualismo riformista. Serrati minimizza l’importanza dell’accaduto e questa volta sarà Bordiga a polemizzare.Dal 5 al 14 agosto arriva in Italia una delegazione russa, con l’obiettivo di rafforzare le simpatie per il governo provvisorio e caldeggiare l’adesione del Psi alla conferenza di Stoccolma della II Internazionale (che alla fine non si farà). La visita dei delegati fa emergere un diffuso e istintivo filo-bolscevismo; in tutti i centri toccati i russi vengono accolti al grido di “Viva Lenin!” Sarà questo il clima in cui prende forma il massimalismo, alla cui origine c’è una base socialista che si scopre più a sinistra rispetto alla direzione reale del partito di Lazzari e Turati.

Serrati trova il coraggio, per opporsi a quei compagni che sistematicamente hanno accettato la compromissione, che inizialmente, come lui stesso dirà, gli era mancato. L’acquisizione non è e non sarà solida perché Serrati, come dicono i suoi avversari, è “fermissimo nel tentennare15”. La presa di posizione filobolscevica dell’Avanti! allarma la borghesia e i riformisti che agitano una campagna contro il sabotaggio proletario della guerra e i pericoli di un leninismo italiano. La paura viene direttamente dalle mobilitazioni della classe: a Torino dal 22 al 25 agosto avviene un grandioso moto di ribellione operaia e popolare che finisce con più di 50 morti. Innescato dalla mancanza di pane, la mobilitazione assume carattere politico e nasce la parola d’ordine spontanea: “fare come in Russia!”.

I moti torinesi dell’agosto 1917, non promossi dalle organizzazioni di partito ma pur partoriti dall’ambiente socialista, dimostrano come nelle masse si vada delineando la tendenza a rompere con la propria rappresentanza parlamentare, a scavalcare i propri dirigenti, a partire per proprio spontaneo impulso all’attacco frontale.16

Negli stessi mesi, a Firenze, delegati di alcune delle più importanti federazioni del partito danno vita ad una “frazione intransigente rivoluzionaria”, riprendendo nei fatti la denominazione della frazione di sinistra del 1910, in polemica con la direzione lazzariana. I massimalisti e la nuova sinistra che ormai sta emergendo contestano l’ambiguità della definizione di Lazzari, considerata ormai vuota e priva di significato17.

Lo spostamento a sinistra di Serrati e il suo filo-bolscevismo lo portano ad inimicarsi i riformisti. Il direttore dell’Avanti! polemizza frontalmente con Treves quando il parlamentare avanza la proposta di un governo ragionevole. La critica al riformismo è netta: l’adattamento alla società capitalistica e all’ambiente borghese hanno dato solo l’illusione di portare miglioramenti mentre il risultato è stato la guerra; la penetrazione pacifica ha fallito, ora serve una svolta politica rivoluzionaria.

Dopo la sconfitta dell’esercito italiano nella battaglia di Caporetto, il clima nazionalista dilagante nella società penetra nel partito a diversi livelli. L’opportunismo socialpatriottico dei riformisti raggiunge un’altra vetta: Turati e Treves con loro famoso scritto Proletariato e resistenza prendono apertamente posizione per la difesa della patria. Qualche mese dopo un discorso di Turati intriso di unità nazionale verrà diffuso per iniziativa del governo tra i combattenti.

Per arginare il clima di unità nazionale praticato dai riformisti, la Direzione del partito in vista dell’imminente congresso si appoggia alla frazione di sinistra, che stempera le critiche alla direzione ed entra in un fronte col centro contro i riformisti. Il risultato sarà che anche quelli che come Bordiga hanno già più chiara la necessità di una rottura netta con i riformisti, vengono al pari di tutti i massimalisti e per tutta una fase ingabbiati nell’unitarismo.

Tra le file della sinistra, la presa del potere bolscevico e la sua portata avranno bisogno di tempo per essere assimilate, mentre i riformisti utilizzeranno la lettera di Martov del 16 dicembre, in cui condanna il carattere utopistico dei bolscevichi che introducono il collettivismo in un paese arretrato. L’ostilità alla rivoluzione d’ottobre ed una strategia impostata coscientemente contro il pericolo della rivoluzione in Italia saranno i tratti distintivi della politica dei riformisti per tutto il dopoguerra.

Al congresso di Roma del 1918, il partito è diviso tra due differenti visioni, eppure il congresso si chiuderà con una linea unitaria. L’ordine del giorno finale approvato a larga maggioranza rinnova la fiducia nella Direzione e critica parzialmente l’operato del Gps, richiamato per l’ennesima volta alla disciplina di partito.

All’apparenza il massimalismo è trionfante ma lascia il riformismo al proprio posto. Anche se Turati è stato il principale accusato per la linea autonoma e differente da quella del partito, nel dibattito sono lui e Modigliani ad andare all’attacco accusando la direzione di massimalismo e incalzandola: se la direzione è d’accordo con i deliberati di Basilea del 191218 perché non ha sabotato la guerra? Perché non ha provato a intervenire nelle rivolte che sono avvenute? Si inizia a intravedere il problema di fondo della maggioranza del Partito socialista e del massimalismo, che in questo congresso assume i tratti che consoliderà negli anni successivi. Mentre nessuno dei nodi politico-teorici è stato sciolto, il congresso è stato impegnato in uno scambio di accuse e controaccuse. La Direzione del partito, pur contrastando la prospettiva turatiana di un Psi inserito nella ricostruzione post bellica in senso riformista, non ha una vera proposta da contrapporgli e con cui affrontare il problema della rivoluzione e del potere in Italia.

Il massimalismo nel biennio rosso

Nel settembre del 1918 il Partito socialista sottoscrive un patto d’alleanza con la CGL che prevede, nell’autonomia delle rispettive organizzazioni, distinti campi di intervento: al partito spettano le decisioni sugli scioperi politici e alla Confederazione quelle sugli scioperi economici. Gli effetti nefasti di questo accordo non tarderanno ad emergere. Intanto, nell’immediato dopoguerra le due organizzazioni si dividono sul dibattito che si svilupperà sulla Assemblea Costituente; mentre la CGL, al pari di altre forze, la mette al primo posto del proprio programma di riforme immediate, la Direzione del Psi vi si oppone e rivendica la Repubblica dei soviet e la dittatura del proletariato. A prendere una sbandata è Serrati, che dal carcere – è stato arrestato per i moti torinesi dell’agosto del ‘17 – scrive che in Italia si creerà una situazione democratico-rifomista. Bisognerà quindi passare per la Costituente e ottenere il massimo delle concessioni dalla borghesia.

Si verifica, invece, al pari di quanto accade in altri paesi d’Europa, una situazione rivoluzionaria senza precedenti. L’Italia, passata l’euforia della vittoria, si scopre un paese profondamente in crisi. La difficoltà a riconvertire la produzione post bellica mette estremamente sotto pressione una classe operaia che, pur essendo cresciuta negli anni precedenti, parte da condizioni di lavoro peggiori rispetto a quella di altri paesi e per di più deve affrontare un padronato aggressivo e arrogante. Questa pressione si esercita profondamente sulle organizzazione della classe, specie nelle sue ali più estreme e nei suoi settori proletari.

Dai primi mesi del ’19 si assiste ad un’offensiva imponente della classe operaia. Diversi settori (metallurgici, ferrovieri, tranvieri, tessili, ecc.,) ottengono le otto ore e in numerose categorie si apre una battaglia sui salari e i contratti di lavoro. Gli scioperi generali si susseguono l’un l’altro, rendendo estremamente difficile l’incanalamento delle lotte in senso prettamente riformistico, come vorrebbe la CGL, che passa da 249.039 iscritti nel 1918 a 1.159.042 nel 191919.

Le campagne vanno in ebollizione e il problema della terra riesplode: nel Mezzogiorno e nell’Agro Pontino vi è un movimento di occupazione delle terre che coinvolge 27.000 ettari. Federterra passa da 93.131 iscritti nel 1918 a 300.000 nella metà del 191920. A crescere esponenzialmente è anche il Partito socialista che alla fine del 1918 ha 23.765 iscritti, nel 1919 saranno 87.58921.

La spinta inflazionistica rende la situazione insostenibile; a partire dal mese di giugno si sviluppa un movimento di massa contro il carovita con assalti a magazzini, saccheggi e requisizioni di generi alimentari che viene represso nel sangue con decine di morti in tutta Italia. Avrà, senza una direzione e un coordinamento, il proprio punto massimo nel mese successivo.

Da più parti si osserva la mancanza di una strategia della Direzione socialista. I comunicati del partito si limitano ad una generica solidarietà per poi aggiungere che solo le soluzioni massime socialiste risolveranno i problemi in tutti i paesi. Mancano completamente obiettivi e programmi transitori in grado di legare le mobilitazioni ad una prospettiva rivoluzionaria generale.

Il partito proclama per il 20 e 21 luglio uno sciopero in solidarietà con la rivoluzione russa e quella ungherese. Si teme che possa dare vita a disordini ma il partito rassicura che lo sciopero è dimostrativo. L’iniziativa ha un alto valore politico, il cui rischio però è quello di scadere in un omaggio formale alla rivoluzione senza che ci si preoccupi di seguirne l’esempio. Come si vedrà già nei mesi successivi, il momento di maggiore spinta delle masse è passato senza che il partito sia stato in grado di incanalarne l’energia.

In vista del congresso di Bologna i massimalisti lavorano ad un nuovo programma che superi la generica lotta per la “conquista dei poteri pubblici” risalente al programma di Genova del 1892. Il nuovo programma rivendica l’abbattimento violento del dominio della borghesia e l’organizzazione del proletariato in classe dominante.

Dal 1 ottobre esce sotto la direzione di Serrati una nuova pubblicazione: Comunismo. Rivista della Terza Internazionale. Insieme agli articoli dei principali esponenti massimalisti, vi compaiono scritti di Lenin, Trotskij e dei più importanti dirigenti della III Internazionale.

Il congresso di Bologna si apre mentre nel paese nessuno dei problemi del dopoguerra è stato risolto. La spinta operaia prosegue ed è per certi versi rafforzata dalle conquiste ottenute. Un’attenzione particolare è rivolta allo sviluppo dei processi rivoluzionari in corso negli altri paesi e nella sala giganteggia un’immagine di Karl Liebknecht. Il cuore della discussione è l’indirizzo del partito rispetto alla situazione nazionale e internazionale. Nel dibattito i riformisti si soffermano sulla difesa del programma di Genova, difendono la tradizione del socialismo italiano e l’impossibilità di una rivoluzione violenta in Italia. Turati rilancerà la proposta delle riforme di struttura e attaccherà l’astrattezza delle formulazioni rivoluzionarie dei massimalisti, che sono stati incapaci di fornire una direzione alle rivolte e parlano di rivoluzione violenta, il cui unico effetto è quello di scatenare la reazione: “il massimalismo è il nullismo!”

Dai massimalisti si è staccato Bordiga, che ha dato vita ad una frazione astensionista, cioè contraria alla partecipazione del PSI alle elezioni parlamentari borghesi. Rispetto al dibattito sull’espulsione dei riformisti, invocata dagli astensionisti, il massimalista Gennari ripete la formulazione più diffusa: “le forze convergenti rimangano dunque tutte nel Partito, le forze divergenti si distacchino”. Nei fatti la speranza è quella che i riformisti possano lasciare da soli il partito e “Quando Serrati interviene nel dibattito dice: «La responsabilità della scissura noi non ce la assumiamo». Lo sentiamo ripetere, con accanimento, la stessa cosa a Bologna, come l’anno dopo a Mosca, e nel 1921 a Livorno.”22

Dal congresso l’autorità di Serrati come dirigente del partito esce notevolmente rafforzata; è l’uomo di punta del massimalismo. La sua mozione al congresso stravince; il suo discorso tiene insieme gli attacchi ai riformisti e il richiamo all’unità del partito, la difesa della violenza rivoluzionaria e la critica all’infantilismo di Bordiga, apparendo come il rivoluzionario capace di ereditare la tradizione della sinistra socialista e proiettarla nella nuova epoca. Come si vedrà da lì a breve, è un’illusione ottica, un grande equivoco. Per ora basti dire che l’ordine del giorno finale non pone condizioni ai riformisti, né solleva problemi di incompatibilità.

La direzione eletta è tutta della maggioranza e, fatto che avrà un impatto decisivo sulla storia del massimalismo negli anni successivi, il partito ratifica, per acclamazione, la decisione già presa in precedenza dalla Direzione di aderire alla III Internazionale.

Alle elezioni politiche del novembre del 1919 i socialisti si presentano sotto lo stemma della Repubblica socialista dei soviet e con un programma elettorale massimalista: eleggono 156 parlamentari, con 1 milione e ottocentomila voti pari al 30%, il Partito socialista è il primo partito.

Mentre una tale pattuglia parlamentare amplifica il problema del rapporto tra la Direzione del partito e il Gps, le novità decisive dovevano venire ancora una volta dalle mobilitazioni operaie.

Torino è tra le città dove lo scontro di classe assume una forma particolarmente radicale e determinata. Tra il 1919 e il 1920 si sviluppa un importante movimento di Consigli di fabbrica che tiene altissima la conflittualità operaia nelle officine.

Alla Industrie Metallurgiche di Torino vengono licenziati tre operai membri della Commissione interna. Il licenziamento è dovuto a un dissenso sull’adozione dell’ora legale; la lotta passerà alla storia come “sciopero delle lancette”. Gli industriali trasformano la vicenda in un braccio di ferro contro il peso delle Commissioni interne e dei Consigli. La questione decisiva è quella del potere in fabbrica. La mobilitazione si protrae per settimane, dal 15 aprile viene proclamato uno sciopero generale di 10 giorni che arriva a coinvolgere 500.000 lavoratori piemontesi nonostante la contrarietà della CGL. A Torino arrivano 50.000 soldati, la città e la lotta resteranno isolate e saranno sconfitte. Il partito socialista non è stato capace di giocare nessun ruolo, anzi sposta a Milano il convegno che doveva svolgersi inizialmente proprio a Torino e non raccoglie l’appello dei torinesi ad estendere la lotta.

Serrati interviene nella polemica che si era sviluppata sui Consigli senza nessuna capacità di coglierne gli elementi di novità23, tant’è che inizialmente lo fa solo per esprimere il proprio disappunto per organismi che contengono anche gli operai non iscritti al sindacato. La posizione definitiva sarà quella di distinguere tra gli strumenti che servono per la lotta economica (in cui ci sono anche i consigli o i comitati operai) e lo strumento per la lotta politica, ovvero il partito. Accanto a questo la rivoluzione farà sorgere i soviet, “organi aventi funzioni ed attività politiche in senso decisamente comunista24”. La lotta dei torinesi è ridotta a sindacalismo ed è così liquidata.

Mentre il partito è assolutamente incapace di delineare una prospettiva in grado di trasformare la battaglia torinese in un’offensiva generale della classe, Bombacci in qualità di segretario del partito, presenta un progetto provvisorio per la costituzione dei soviet. La discussione sullo Stato e sul potere è posta in astratto e senza nessun rapporto con le esigenze dello scontro di classe, diventando quasi caricaturale. La Direzione nazionale riunita a Milano dal 18 al 22 aprile non produrrà passi in avanti nel legare il radicalismo verbale del partito alle mobilitazione concrete che si vanno sviluppando.

Ancora di più al partito manca una proposta verso gli altri settori della società; non c’è un programma che attiri la piccola borghesia e men che mai il mondo contadino, che in Italia ha un peso importante (le agitazioni al sud in parecchi casi saranno dirette dal Partito popolare o da ex combattenti più che da organizzazioni socialiste).

Scarsissima è la capacità di relazionarsi a settori dell’esercito. Anche su questo ultimo terreno il biennio rosso esprime alcune potenzialità importanti, come quando nel giungo del 1920 ad Ancona le truppe ammassate in partenza per l’Albania si ammutinano.

La vicenda più incredibile si produrrà nell’occupazione delle fabbriche del settembre del 1920. La direzione del Psi il 6 settembre lancia un manifesto ai contadini e ai soldati che ben rappresenta lo stile massimalista:

se domani suonasse l’ora decisiva della battaglia contro tutti i padroni, contro tutti gli sfruttatori, accorrete anche voi. Impadronitevi dei municipi, delle terre, disarmate i carabinieri, formate i vostri battaglioni insieme con gli operai, marciate verso le grandi città per aiutare il popolo che si batterà contro gli sbirri assoldati dalla borghesia. Perché, forse, il giorno della libertà e della giustizia è vicino.”25

La proclamazione della rivoluzione nel giro di pochi giorni si trasformerà nell’ennesima rinuncia a prendere in mano la direzione del movimento. Il 9 settembre si riunisce il Consiglio direttivo della CGL.

Il partito propone senza nessuna preparazione una lotta politica estrema. In una riunione congiunta tra Psi e CGL, D’Aragona e gli altri dirigenti della Confederazione rimettono le loro cariche nelle mani del partito: se i dirigenti socialisti pensano che sia il momento per un’azione rivoluzionaria se ne assumano le responsabilità. Di fronte a questo atteggiamento la Direzione del partito porta il proprio dissenso dentro il Consiglio nazionale della Confederazione. La rivoluzione verrà messa ai voti un una riunione di sindacalisti!

“La votazione dà questo risultato: o.d.g D’Aragona, voti 591.245; o.d.g. Bucco, voti 409.569. Astenuti (molte sezioni FIOM). La rivoluzione è respinta a maggioranza.”26 Il partito in base al patto con la CGL potrebbe reclamare la competenza politica della vicenda ma non lo farà. Del resto, al di là delle parole, la preparazione politica alla rivoluzione non esiste, quella militare meno che mai. Il partito tirerà un sospiro di sollievo e accetterà il risultato: è la dimostrazione di tutta l’impotenza del massimalismo.

Prima e dopo Livorno: Serrati, l’Internazionale e l’equivoco massimalista

Subito dopo il congresso di Bologna del 1919, Lenin invia una lettera “al compagno Serrati e ai comunisti italiani” le cui prime righe sono le seguenti: “le notizie che riceviamo dall’Italia sono scarsissime. Solo dai giornali esteri – non comunisti – abbiamo saputo del vostro Congresso e della splendida vittoria del comunismo”27. Lenin spera, come dice nella lettera, che la scelta contro l’astensionismo emersa a Bologna possa essere un buon esempio per i comunisti tedeschi, divisi sulla partecipazione alle elezioni. E poi aggiunge:

non vi è dubbio che gli opportunisti palesi e nascosti – e ve ne sono tanti nel Gruppo socialista parlamentare italiano! – procureranno di annullare le decisioni di Bologna. La lotta con queste tendenze non è ancora terminata, ma la vittoria di Bologna vi faciliterà altre vittorie”28.

Nei mesi successivi al congresso, Serrati si sposta a destra e ribadisce la necessità dell’unità del partito come presupposto per la rivoluzione in Italia. ll suo è un socialismo di vecchio stampo che, non scostandosi dal tradizionale intransigentismo, vuole il partito non più scisso ma compatto e disciplinato. Utilizza quindi la lettera (e l’autorità) di Lenin per respingere le critiche che gli vengono da sinistra. Nei primi mesi del 1920 infatti le polemiche all’interno dei massimalisti aumentano: la frazione comunista astensionista di Bordiga ormai pone l’enfasi sulla rottura con i riformisti e la necessità di un partito nuovo che adotti una concezione politica rivoluzionaria in linea con quella dell’Internazionale Comunista (IC) e Gramsci dopo le mobilitazioni di aprile arriverà gradualmente a conclusioni simili.

La questione Serrati doveva cominciare ad emergere con chiarezza nel secondo congresso dell’IC, che si tiene tra il luglio e l’agosto del ‘20. Al congresso, l’Internazionale si dà un’ organizzazione più definita; i 21 punti per l’adesione prevedono tra le altre cose che i partiti aderenti all’Internazionale sviluppino un partito centralizzato, rompano con i riformisti e assumano la denominazione di partito comunista.

La delegazione ufficiale del Partito socialista è composta da Serrati, Bombacci, Graziadei e Polano per la Federazione giovanile, ma la rappresentanza va da Bordiga ai sindacalisti D’Aragona e Colombino, accolti dagli operai calorosamente come i capi del proletariato rivoluzionario italiano.

Quando la delegazione italiana giunse a Mosca – ricorderà più avanti Zinoviev – le nostre relazioni con gli altri paesi erano ancora così cattive che noi non sapevamo che fossero arrivati dei riformisti. Avevamo la fiducia più completa in Serrati, come in tutte le persone che egli aveva condotto seco. Li ritenevamo elementi ancora confusionari, ma la cui devozione alla causa proletaria fosse veramente sincera”29.

A Mosca i bolscevichi sono intenzionati a dar battaglia: l’atmosfera è amichevole ma fortemente polemica. La discussioni sull’Italia, che vede al centro il dibattito sull’espulsione dei riformisti, porta alla luce la vera consistenza del massimalismo italiano e del Partito socialista.

Insieme agli altri dirigenti dell’Internazionale è lo stesso Lenin a polemizzare con Serrati. Nel suo intervento dirà: “mi spiace che Serrati abbia parlato senza dire niente di nuovo. Il suo discorso è di quelli che noi sentivamo nella Seconda Internazionale”30.

A Mosca, Serrati difende l’indirizzo del Psi e replica che non è questione di parlare in continuazione di Turati o di Modigliani ma di preparare la rivoluzione in Italia, dove “la situazione è veramente rivoluzionaria, tanto dal punto di vista economico quanto dal punto di vista psicologico”. Il socialista italiano minimizza il peso di Critica sociale e dei turatiani, che data la loro debolezza al congresso hanno dovuto sostenere la mozione di Lazzari e parlare di dittatura del proletariato. Serrati sostiene che “Turati ha sempre mantenuto le promesse, e ha anche rispettato la disciplina di partito”. Va bene l’epurazione ma Turati non deve essere cacciato, deve essere lui ad andarsene, e, soprattutto, vanno bene tutte le condizioni poste dell’Internazionale per l’adesione ma i singoli paesi devono decidere tempi e modi. Quest’ultima posizione rischia di essere deflagrante e di fare in modo, come ad un certo punto nei mesi successivi sembrerà accadere, che Serrati possa essere il riferimento internazionale per tutti i refrattari alla disciplina bolscevica.

L’intervento illumina le divergenze fondamentali tra il leader massimalista e il bolscevismo. In primo luogo un’assoluta subalternità ai dirigenti riformisti e alla loro influenza sulle masse ma anche una visione formalistica della disciplina, infranta sistematicamente da Turati e dai riformisti.

Turati non è, come dirà Trotskij, un‘arrivista banale, ed è abbastanza intelligente da capire che entrando nel governo verrebbe espulso dal partito, perdendo ogni peso. Per anni resiste all’idea di entrare al governo, e “noskeggiare”31 il popolo, preferendo stare all’opposizione per influenzare il governo. Quando accetterà di salire anche lui le scale del Quirinale, sarà ormai troppo tardi.

In Serrati c’è anche una visione della rivoluzione puramente quantitativa, basata sull’accumulo graduale: la situazione è rivoluzionaria e bisogna tenere assieme tutte le forze in vista dell’evoluzione degli eventi che maturano.

I bolscevichi russi – scrive Arfé – avevano affrontati tutti i problemi della rivoluzione un buon decennio prima di tradurla in atto, e continuando, sia pure polemicamente, una tradizione nazionale già ricca di esperienze teoriche e pratiche. I massimalisti italiani, improvvisatisi rivoluzionari, non hanno tradizioni di lotta extralegale e ancor meno ne hanno gli strumenti. La loro incrollabile fiducia riposa tutta sulla convinzione che la situazione è rivoluzionaria, e che quindi non può aver sbocco diverso da quello voluto dai fati.”32

Lenin ha ragione: Serrati è ancora fermo alla Seconda Internazionale, le sue posizioni sono un riflesso della radicalizzazione delle masse, dell’autorevolezza dell’Internazionale e della rivoluzione russa ma non c’è nessuna lezione appresa dall’esperienza bolscevica.

Di fronte alle richieste dell’Internazionale, il 28 settembre la Direzione del Psi si divide su due ordini del giorno: uno, presentato da Terracini, che risulterà maggioritario, stabilisce l’adesione alle condizioni dell’Internazionale e una radicale epurazione del partito; il secondo, presentato da Baratono e sostenuto da Serrati, proclama la piena corrispondenza tra i 21 punti e la politica del Psi e circoscrive il problema delle epurazioni a casi singoli di membri del partito che non rispettino il principio e la disciplina dell’Internazionale. È l’inizio della scissione che si produrrà a Livorno.

Lenin riprende la polemica con Serrati attaccando frontalmente la mancanza di chiarezza della mozione Baratono e sottolinea come nonostante i riformisti non si siano sottomessi alla disciplina del partito, non si sia rotto con loro. Per Lenin i riformisti non possono far altro che sabotare la rivoluzione, così come hanno già fatto nel recente movimento di occupazione delle fabbriche ed è impossibile prepararsi alle battaglie decisive se si ha nel partito chi quelle battaglie le saboterà. Né il problema poteva essere, come sosteneva Serrati, l’espulsione del solo Turati, perché la riunione preparatoria in vista del congresso dei riformisti a Reggio Emilia aveva mostrato un gruppo ben definito.

“A Mosca, col suo tipico sarcasmo, Zinoviev dirà che Serrati preferisce rischiare l’insuccesso della rivoluzione, tenendosi i controrivoluzionari in casa, che la perdita del sindaco di Milano”33 e Lenin ora spiega che in una situazione di transizione come quella dell’Italia non solo bisogna allontanare i riformisti ma anche coloro che tentennano dai posti di responsabilità; coloro che sono in buona fede ritorneranno più avanti. La necessità di sostituire i capi riformisti o centristi esperti con uomini nuovi più audaci non è un problema italiano ma in generale di ogni rivoluzione proletaria. La dittatura del proletariato prevede inevitabilmente la designazione di simili operai inesperti alle funzioni statali di maggior responsabilità, altrimenti il potere proletario sarà impotente e non sarà appoggiato dalle masse. Lenin propone che la propaganda – differentemente da quanto fa Serrati, la cui condotta produce disgregazione – sia improntata alla volontà di condurre la lotta alla vittoria, con una direzione centralizzata e compatta. E propone, ovviamente, l’espulsione di quelli che hanno partecipato al convegno di Reggio Emilia.

Serrati risponderà ribadendo le sue posizioni: i riformisti alla Scheidemann e Noske sono già stati espulsi dal partito nel ’12; Turati, Treves e Modigliani non sono un problema. Il problema della rivoluzione in Italia non riguarda i capi ma la mancanza, se si esclude Ancona, di un’insurrezione; la stessa occupazione delle fabbriche, per quanto imponente, è stata comunque un largo e profondo movimento sindacale diretto dai riformisti. Serrati qua dimostra di non comprendere la natura delle mobilitazioni del dopoguerra (che in diversi casi in realtà assumono tratti insurrezionali) ed esprime più chiaramente lo scetticismo verso la rivoluzione in Italia “qui ed ora”. Ribadisce, poi, la maggiore arretratezza politica degli altri paesi europei che deve portare a preservare quanto costruito in Italia.

Fra ottobre e novembre gli schieramenti si delineano: i riformisti, che ormai vengono da un periodo di ripresa, si riuniscono a Reggio Emilia il 10 e l’11 ottobre. I serratiani preparano la loro corrente dei Comunisti unitari in un convegno a Firenze il 20 e 21 novembre, dove sono ribadite le posizioni del massimalismo. La frazione comunista si riunirà ad Imola il 28 e il 29 novembre. Verso il congresso emerge come nonostante i comunisti possano godere dell’appoggio dell’Internazionale Comunista, ad essere maggioritari siano i massimalisti, con il loro unitarismo e il patriottismo di partito.

Prima che i giochi si chiudano del tutto c’è un ultimo tentativo di incontro tra Serrati e Zinoviev che non va in porto. Zinoviev ribadisce l’appoggio alla sola frazione comunista, invitando Serrati a scegliere tra i riformisti e i comunisti. Al congresso dei socialisti francesi a Tours è stata la destra a scindersi e dopo il congresso di Halle i centristi dell’ USPD (Partito socialdemocratico indipendente di Germania) hanno deciso in maggioranza di unirsi ai comunisti ma in Italia l’esito sarà diverso.

Intanto l’equivoco è, almeno in parte, chiarito: “A noi – dice il messaggio dell’esecutivo dell’Internazionale Comunista – di giorno in giorno appare più chiaramente che la frazione costituita dal compagno Serrati è, il realtà, una frazione centrista a cui soltanto le circostanze rivoluzionarie danno l’apparenza esteriore di essere più a sinistra dei centristi degli altri paesi34.”

Su 172.487 votanti, la mozione dei Comunisti unitari risulta maggioritaria, con 98.028 voti, quella riformista ottiene 14.695 e quella comunista “pura” 58.78335. Questi ultimi abbandoneranno il teatro e fonderanno il Partito Comunista d’Italia – sezione italiana dell’Internazionale Comunista.

La frazione terzina e l’ approdo di Serrati al PCdI

A Livorno, dopo la scissione, il Partito socialista ribadisce all’unanimità la piena adesione ai principi dell’Internazionale e spera che il prossimo congresso li riammetta. È il forte ascendente che l’Internazionale esercita sulle masse socialiste a spingere il Psi in questa direzione. Quando i tre delegati, Lazzari, Maffi e Riboldi, arrivano a Mosca per il terzo congresso dell’IC, Zinoviev ha già tenuto una dura requisitoria contro Serrati, difendendo la scelta della scissione comunista. La devozione e la sincera volontà con cui il vecchio leader pacifista dell’intransigentismo italiano, Costantino Lazzari, si appella all’Internazionale servirà però a riaprire un nuovo percorso. Durante il congresso Lenin rigetterà tutte le sue proposte, compresa quella, particolarmente cara a Lazzari, del mantenimento del nome del partito. La posizione dell’Internazionale resta la stessa: i riformisti devono essere espulsi; questa scelta, differentemente da quanto sostengono i massimalisti, non è rinviabile. Un partito che ha i riformisti al proprio interno non può far parte dell’Internazionale. “Avete preferito – dirà Lenin – l’unione con 14.000 riformisti e la rottura con 58.000 comunisti, e questa è la migliore dimostrazione del fatto che la politica di Serrati è stata una disgrazia per l’Italia.”36. Trotskij chiede ai delegati di trarre un bilancio della condotta del partito nel contesto rivoluzionario italiano del settembre del ’20. Gli operai che occupavano le fabbriche avevano preso sul serio la propaganda socialista per la rivoluzione, senza che il partito tenesse minimamente conto delle conseguenze.

Da questa contraddizione – dirà Trotskij – si possono trarre due conclusioni: o respingete quella parte del vostro passato che era soltanto verbalmente rivoluzionaria, e diventate rivoluzionari, ossia vi separate dai riformisti che ostacolano l’azione rivoluzionaria, o dovete dire: « Poiché non volevamo gli avvenimenti di settembre, dobbiamo respingere i metodi che li hanno provocati». 37 E ancora: “Le azioni di massa ci sono state, ma è mancata la preparazione. Questo è ciò che i compagni si rifiutano di capire”38.

I tre pellegrini, come verranno chiamati i tre delegati, tornano in Italia con la promessa di lottare affinché il partito italiano adotti la risoluzione dell’Internazionale.

La loro battaglia vede inizialmente l’ostilità di Serrati, che dopo Livorno riprende la polemica con l’IC, ribadendo di essere nel giusto e facendosi forza del buon risultato ottenuto dai socialisti nelle elezioni politiche di maggio. La sua ostinazione si trasformerà in vera e propria ostilità quando l’IC nel suo appello al proletariato italiano, lo criticherà duramente per aver sabotato le decisioni dell’Internazionale, unendosi ai diffamatori del comunismo e separando i lavoratori italiani dalla III Internazionale.

Col suo appello l’Internazionale chiede ai lavoratori italiani di esigere un congresso del partito che voti immediatamente l’esclusione dei riformisti, in modo da rispettare i mandati della III internazionale e l’unificazione con i comunisti.

L’appello imbarazzerà i pellegrini, che sperano di recuperare all’Internazionale lo stesso Serrati e solo gradualmente e tra mille titubanze scioglieranno le riserve, dando vita alla frazione terzinternazionalista (o terzina) in vista dell’imminente congresso.

Venendo meno la spinta rivoluzionaria, attorno a Serrati si cristallizzeranno le correnti di centro, mentre un settore della sinistra massimalista comincia a trarre un bilancio degli eventi dell’ultimo periodo (l’ascesa della reazione, gli effetti della crisi economica, il recupero del peso dei riformisti nel partito dopo Livorno) e prova ad opporsi all’immobilismo e alla passività della Direzione del Psi, che pare semplicemente aspettare che passi la bufera. A farsi portatori della battaglia per la III Internazionale saranno un settore di quadri intermedi, costretti a misurare l’inadeguatezza della Direzione nel corpo a corpo col fascismo e la sua aggressività crescente.

Al congresso, che si tiene a Milano nell’ottobre del ’21, la frazione, il cui nome ufficiale è “Gruppo massimalista per la III internazionale”, nonostante i tentennamenti dà battaglia sulla necessità della rottura con i riformisti e critica la politica disgregante della direzione massimalista; contesteranno inoltre la presenza di Adler39, in rappresentanza dell’Internazionale di Vienna40.

La nuova minoranza di sinistra è piccola41 ma può godere delle indicazioni e dell’autorità dell‘IC, sotto la cui direzione opera. Questo rapporto sarà alla base dell’evoluzione dei terzini e della loro emancipazione dal massimalismo, sia dal punto di vista politico che organizzativo. Particolarmente importante è la composizione proletaria del gruppo e presto la frazione costruirà anche un proprio insediamento tra i giovani.

La presenza di un’altra forza legata all‘IC crea non poche ostilità da parte del PCdI, particolarmente preoccupato per il rapporto che l’Internazionale continua ad avere con i socialisti. L’atteggiamento verso i terzini è parte integrante dello scontro più generale tra la linea dell’Internazionale e quella del gruppo dirigente del PCdI, che non condivide le proposte che l’Internazionale elabora per orientare i giovani partiti comunisti verso le masse. La frazione terzina, ad esempio, promuoverà più convintamente di quanto non farà il PCdI la tattica del fronte unico. Il PCdI è tra i principali avversari di questa politica e lo circoscrive al terreno sindacale e alla polemica interna alla CGL. Le debolezze organizzative della frazione rendono però difficile un’iniziativa efficace per un’unità d’azione sul terreno politico e per tutta una fase l’unità sarà praticabile solo parzialmente e solo sul fronte sindacale.

Serrati prova a riattivarsi sul terreno internazionale e dopo il fallimento della conferenza delle tre Internazionali a Berlino42, scrive ad Adler e a Levi43 per rilanciare almeno un “comitato d’azione”, un organismo intermedio tra Vienna e Mosca. La cosa rimane lettera morta anche perché l’Internazionale di Vienna e lo stesso Levi di lì a poco sarebbero ritornati nelle file della socialdemocrazia. Serrati, invece, già nei mesi successivi, si riavvicina alla III Internazionale.

È l’evoluzione degli eventi nel ’22 a far scricchiolare l’unitarismo di Serrati, quando il tema della collaborazione di classe riemerge in grande stile e sarà alla base della politica dei riformisti. Dopo che il Gps vota l’ordine del giorno Zirardini, dando la disponibilità ad appoggiare un ministero che assicuri la legalità contro il fascismo, la spaccatura diventa insanabile e ci si avvia al congresso.

Il tentativo di tenere assieme l’intero partito è già naufragato prima della scissione: il fascismo sta spazzando via le tradizionali roccaforti socialiste (cooperative, leghe, municipi, ecc.,) e i riformisti hanno sviluppato una politica indipendente basata sulla collaborazione di classe la cui testa d’ariete è la CGL, che va verso l’abbandono del patto col partito.

Verso il congresso di Roma l’Internazionale dà indicazioni ai terzini di andare incontro agli elementi proletari della frazione massimalista, sostenendoli, se necessario, per arrivare a rompere con i riformisti. Se la scissione si produrrà, la frazione dovrà restare nel partito. L’obiettivo dell’IC è quello di provare a recuperare l’intero Psi epurato dai destri. Il partito si spacca a metà: dei circa 70.000 membri rappresentati al congresso, 32.106 votano per i massimalisti (e i terzini) e 29.119 per i riformisti44. Questi ultimi daranno vita al Partito socialista unitario italiano.

Il PSI dopo la scissione vota di nuovo l’adesione all’Internazionale e l’IC propone che una delegazione socialista sia presente al IV congresso per discutere della fusione con il PCdI. La direzione comunista è fortemente contraria, Bordiga è per l’adesione individuale, Gramsci per la fusione con i soli terzini. Il PCdI alla fine accetterà la proposta solo per disciplina. Incertezze sulla fusione immediata ci sono anche nel Psi, dove non tutta la delegazione è d’accordo. È evidente che la frattura di Livorno è ancora per tutti un problema; a questa si somma una sfiducia particolare verso Serrati, che ancora mantiene il punto sulla sua condotta a Livorno ed è cauto sul superamento del Partito socialista.

Le discussioni nella commissione interpartitica sotto la direzione dell’Internazionale producono una risoluzione in 14 punti che stabilisce tempi e modi per la nascita del “Partito comunista unificato d’Italia”, ma nel giro di tre mesi salta tutto!

I delegati socialisti non hanno il mandato per discutere della fusione, su cui già sono state espresse delle contrarietà nel partito. Una parte della delegazione torna quindi in Italia mentre Serrati e Maffi restano a Mosca. Anche se tra mille titubanze la Direzione socialista autorizza a procedere, nel partito vi è un colpo di mano, capeggiato da Nenni, il caporedattore dell’Avanti! a cui Serrati ha lasciato in mano il giornale prima di partire, che pubblica un articolo contro la liquidazione “sottocosto del partito” e impegna il giornale in una campagna contro le posizioni fusioniste. A difendere la “storia gloriosa” del Psi c’è anche Lazzari, che propone che siano i comunisti ad entrare nel Partito socialista. Si crea in poco tempo un Comitato nazionale di difesa socialista che grazie ai temporeggiamenti della Direzione guadagna terreno, dimostrando di essere maggioritario. La frazione fusionista si costituisce poco dopo su spinta dell’Internazionale e Serrati, tornato da Mosca, riesce a riprendere in mano il giornale, ma a breve sarà arrestato. L’episodio si inserisce in un’azione cosciente del fascismo contro le forze fusioniste e il PCdI. Appena vengono pubblicati i 14 punti dell’Internazionale sulla fusione, i firmatari italiani vengono denunciati alla magistratura. Con ogni evidenza c’è grande timore di un processo di ricomposizione delle forze della classe operaia.

Sfumata l’occasione, l’IC propone un mutamento di tattica che prevede di mettere in secondo piano la parola d’ordine della fusione e di concentrarsi su una politica di blocco tra i due partiti.

Il congresso socialista si tiene ad aprile e gli iscritti ormai sono appena 10.250. I massimalisti del “comitato di difesa socialista” ottengono la maggioranza con 5.361 voti, la nuova Direzione è tutta loro, contro 3.968 voti che vanno ai fusionisti, con questi ultimi che riescono a staccare Lazzari da Nenni e Vella45.

La nuova maggioranza del Psi, almeno per ora, si mantiene su una posizione intransigente e ancora si considera vicina alla III Internazionale, tanto da accogliere la proposta del fronte unico e del governo operaio. I fatti però evolveranno in direzione diversa, perché nel processo di disgregazione del Psi questa posizione non potrà durare.

All’Esecutivo allargato del giugno del ’23 la distanza tra l’IC e l’esecutivo del PCdI, che arriva dimissionario, è massima. La direzione italiana viene accusata di non rispettare i deliberati dell’Internazionale e di aver, con un approccio settario, nei fatti remato contro la fusione. L’Internazionale considera il Psi ancora recuperabile e lo propone come membro simpatizzante, suscitando l’ira dei comunisti. Critiche vengono sollevate anche ai terzini da parte del PCdI, che li accusa di aver gestito male la fusione per incapacità. Alla fine l’Internazionale nominerà d’imperio un nuovo esecutivo del PCdI. A quell’epoca, infatti, con Lenin gravemente ammalato e Trotskij marginalizzato all’interno del gruppo dirigente bolscevico, l’IC è dominata da Zinovev, che per risolvere problemi politici non esita ad adottare misure organizzative, compresa la rimozione dei gruppi dirigenti nazionali che non condividono la sua linea.

Le trattative col Psi sulla politica di blocco e sul riconoscimento come partito simpatizzante riprendono, ma tra i socialisti vi è ormai una polarizzazione avanzata. La Direzione ha una base che si è assottigliata, specie per il distacco di Lazzari, e il suo interesse ora è di schiacciare i terzini, tant’è che il lavoro dentro il partito diventa sempre più complicato. La maggioranza vieta giornali e riviste senza il suo consenso e scioglie la Federazione giovanile socialista fusionista.

Al centro dello scontro con i terzini la maggioranza pone la pubblicazione del loro quindicinale, Pagine Rosse, nato il 20 giugno, intimandone la sospensione. La frazione si impegna in una battaglia per richiedere il congresso del partito mentre le trattative tra Mosca e il Psi riguardano sia la questione della rivista che il riconoscimento del partito come sezione simpatizzante.

Non ci sarà un accordo, i redattori vengono radiati e le federazioni fusioniste sciolte. A fine agosto i rapporti tra il Partito socialista e l’Internazionale si rompono.

Per la frazione comincia una fase nuova in cui acquisisce maggiore autonomia politica rispetto al Psi, verso cui continua ad indirizzare il proprio lavoro politico. Il campo di intervento privilegiato è quello sindacale, dove la frazione può intervenire direttamente nel movimento operaio, utilizzando le parole d’ordine dell’Internazionale Comunista per una lotta unitaria contro il fascismo. In questo modo può diventare un riferimento per settori delle masse socialiste e intercettare la base del Psi frustrata dalla passività dei vertici del partito. Il lavoro, pur con qualche dissidio, è fatto di concerto con il PCdI, che propone al Psi una linea di blocco tra i due partiti.

L’espulsione di militanti terzini dalle fila del Psi pone il problema della loro collocazione: tra alcuni terzini si fa avanti la proposta di costituirsi in formazione autonoma, mentre i comunisti propongono l’adesione al PCdI. Nel novembre è l’Internazionale a produrre un manifesto indirizzato agli operai socialisti in cui denuncia il tradimento dei loro dirigenti e nel dicembre arrivano le direttive dell’IC in cui si propone la prosecuzione della lotta dei terzini nel Psi, l’unione delle organizzazioni giovanili e la creazione di un quotidiano privo di etichette di partito in vista della fusione dei terzini col PCdI (sarà L’Unità che uscirà dal 12 febbraio del ’24).

I terzini intensificheranno ulteriormente la loro battaglia contro la direzione massimalista così come richiesto dall’Internazionale. Il 23 dicembre a Milano gli espulsi, tra cui Serrati, interrompono il congresso regionale, chiedendo di affrontare il tema della collocazione internazionale del partito.

In vista delle elezioni politiche il PCdI si fa promotore di una lista comune di unità proletaria da proporre alle altre organizzazioni proletarie. Di fronte al rifiuto del Psi i terzini scrivono un manifesto che fa appello all’insubordinazione. Nel febbraio la frazione passa nel campo comunista mentre si pone l’obiettivo di ampliare il più possibile la scissione. Serrati, rimasto in posizione più defilata, è l’unico ad essere ancora tentennante perché ritiene ancora possibile un recupero del Psi. La lista ottiene un risultato al di sopra delle aspettative e subito dopo la frazione si riorganizza in vista della fusione col PCdI, che avverrà tra l’agosto e l’ottobre del ’24, portando al partito 2.000 militanti secondo Togliatti e 3.500 secondo Maffi e Humbert-Droz (responsabile dell’Italia per l’Internazionale). Il loro ingresso migliorerà il radicamento operaio del partito e la sua presenza in alcune aree del Mezzogiorno, con un lavoro anche tra i contadini.

La loro integrazione avviene contemporaneamente al cambio di direzione del partito imposto dall’Internazionale, che verrà affidato a Gramsci e alla frazione di centro.

Con i terzini entrava nel PCdI anche Serrati, in posizione subordinata e non più a capo di un partito di massa. Si occuperà prevalentemente del lavoro sindacale; ormai pienamente riabilitato, lo troveremo nel ’26, poco prima di morire a soli 53 anni, al congresso di Lione a difendere strenuamente e acriticamente la “bolscevizzazione” del partito comunista imposta da Zinovev: un ciclo politico si è definitivamente chiuso.

Note

1 Sul tema della difesa delle libertà democratiche il dibattito si era aperto nelle file del partito già nel 1894, in conseguenza della repressione cruenta dei Fasci siciliani e dei moti della Lunigiana, a cui era seguita ad opera di Crispi una politica repressiva nei confronti dello stesso Partito socialista. Turati sul tema ebbe anche la famosa corrispondenza con Engels. La risposta di quest’ultimo è in appendice a Lenin, Sul movimento operaio italiano, Roma, 1962, pp. 249-252. Per il dibattito nel Partito socialista al riguardo si veda L. Cortesi, Il socialismo italiano tra riforme e rivoluzione. Dibattiti congressuali del Psi 1892-1921, Bari, 1969, pp. 42-53 e pp. 93-135.

2 Bernstein E. (1850-1932), dirigente del Partito socialdemocratico tedesco e principale teorico del revisionismo del marxismo.

3Vedi L. Cortesi, Le origini del PCI, Bari, 1972, p. 27.

4G. Arfé, Storia del socialismo italiano (1892-1926), Torino, 1965, p. 166.

5 A. Gramsci, La costruzione del partito comunista, 1923-1926, Torino, 1971, p. 111.

6L. Cortesi, Le origini del PCI, cit., pp. 98-99.

7 G. Arfé, Storia del socialismo italiano, cit., p. 205.

8 Rispettivamente dirigenti dei partiti socialdemocratici e socialisti in Germania, Francia e Belgio che assunsero posizioni a favore della guerra imperialista.

9 Kautsky K. (1854 – 1938), dirigente di primo piano della socialdemocrazia tedesca e tra i principali teorici della II Internazionale. Pacifista durante la prima guerra mondiale, si schierò contro la rivoluzione d’ottobre.

10 Longuet J. (1876 – 1938), socialista francese, difensore estremo del parlamentarismo e pacifista.

11 Martov J. O. (1873 – 1923), leader menscevico, assunse posizioni centriste durante la guerra.

12 Balabanoff A. (1878 – 1965), militante socialista di origine russa attiva nel Partito socialista italiano e vicina a Serrati.

13 Si veda P. Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano. Vol 1: Da Bordiga a Gramsci, Torino, 1967, p. 17.

14 Scrive Cortesi: “Il documento uscito dalla prima riunione (9-10 aprile) in forma di appello Ai socialisti di tutti i paesi rifletteva esattamente l’interpretazione riformista dei nuovi caratteri assunti dalla guerra: «Al posto di due raggruppamenti imperialisti in contrasto, noi troviamo oramai un’alleanza di Stati, dominati dallo spirito rinnovatore e democratico russo-americano, contro un’Autocrazia indebolita e vuotata, cui dovrebbe bastare un urto interiore risoluto – se solo si osasse – per mandarla in frantumi […] ».” (L. Cortesi, Le origini del PCI, cit, p. 115).

15 G. Arfé, Storia del socialismo italiano, cit., p. 286.

16 Ivi, p. 251.

17Come dirà ai riformisti Salvatori, rappresentante della sinistra al congresso di Roma qualche mese più avanti: “ Voi dovevate aderire alla guerra; noi dovevamo sabotarla fin dal principio” (Storia della sinistra comunista, vol. 1, Milano, 1964, p. 118).

18 Al congresso di Basilea della II Internazionale, così come a quello di Stoccarda del 1907, i partiti socialdemocratici prendono una posizione contraria ad ogni guerra in quanto guerra tra capitalisti.

19 Vedi L. Cortesi, Le origini del PCI, cit., p. 163.

20 Ibidem

21 Ivi, p. 138.

22 Vedi P. Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano. Vol 1: Da Bordiga a Gramsci, cit., p. 30.

23 Nella lettera con cui Serrati risponde a Lenin dopo il congresso di Bologna (la citeremo più avanti) si trova il seguente passaggio: “Si discute qui da noi della istituzione dei Consigli di fabbrica che taluni elementi sindacalisti ed anche qualche socialista vogliono sostituire alla opera delle organizzazioni operaie ed al partito. Si pretende che da essi e solo da essi debba nascere l’ordine nuovo. Noi pensiamo che, preparandoci alla istituzione di tutti gli organismi della dittatura del proletariato, non dobbiamo svalutare fin da ora le istituzioni che ci hanno servito fin qui e possono ancora esserci di valido aiuto nel prossimo futuro: così le cooperative ed i sindacati di mestiere ed i comuni che sono nelle nostre mani. (P. Spriano, Sulla rivoluzione italiana, Torino, 1978, p. 45).

24 T. Detti, Serrati e la formazione del Partito comunista italiano, Roma 1972, p. 31.

25 P. Spriano, L’occupazione delle fabbriche, Torino, 1964, p. 86.

26 Ivi, p. 112.

27 L Cortesi, Le origini del PCI, vol 2, cit., p. 202.

28Ibidem.

29 P. Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano. Vol 1: Da Bordiga a Gramsci, cit., p. 66.

30 Lenin, Sul movimento operaio italiano, cit., p 196.

31 Il termine è utilizzato dallo stesso Turati e deriva da Noske G. (1868 – 1946), socialdemocratico tedesco di destra e sostenitore degli interessi imperialisti della Germania durante la prima guerra mondiale. Fu tra i responsabili della repressione contro gli spartachisti tedeschi.

32 G. Arfé, Storia del socialismo italiano, cit., p. 274.

33 P. Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano. Vol 1: Da Bordiga a Gramsci, cit., p. 30.

34 L. Cortesi, Le origini del PCI, cit., p. 284.

35 Vedi L. Cortesi, Le origini del PCI, cit., p. 299.

36 Lenin, Sul movimento operaio italiano, cit., pp. 223-224.

37 L. Trotsky, Scritti sull’Italia, Viterbo, 2001, p. 31.

38 Ivi, p. 44.

39 Adler F. (1879 – 1960), segretario del Partito socialdemocratico austriaco dal 1911 al 1916 e tra i fondatori e capi dell’Internazionale di Vienna (o due e mezzo).

40 L’Internazionale di Vienna (o due mezzo), fondata nel febbraio del ’21, si collocava politicamente tra la II e la III Internazionale e si poneva l’obiettivo di superare la frattura tra le due internazionali.

41“La frazione massimalista ebbe 47.628 voti, quella di concentrazione 19.916, quella di unità socialista 8.080 e il Gruppo per la III Internazionale 3.765. Risultavano in quel momento iscritti al PSI 106.845 soci, dei quali 84.019 rappresentati al congresso” (T. Detti, Serrati e la formazione del PCI, cit., p. 116). I luoghi di maggiore insediamento dei terzini sono: Milano, Napoli, Brescia, Novara e Ravenna.

42 La conferenza di Berlino si tenne nell’aprile del ’22 con l’obiettivo di avvicinare le tre internazionali ma fallì per i contrasti emersi.

43 Levi P., (1886-1930), dirigente del Partito comunista unificato di Germania, da cui viene espulso nel 1921, aderì poi all’Uspd, per poi tornare nella socialdemocrazia.

44 P. Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano. Vol 1: Da Bordiga a Gramsci, cit., p. 223.

45 Vedi P. Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano. Vol 1: Da Bordiga a Gramsci, cit., p. 274.

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