Tunisia: rivoluzione fino alla vittoria!

È certamente difficile seguire il rincorrersi degli eventi in Tunisia, dove la protesta contro il carovita e per il diritto al lavoro, si è trasformata in un tentativo di rivoluzione: è un mese ormai, dal 17 dicembre che il popolo tunisino continua a scendere in piazza nonostante la dura repressione messa in atto dal governo di Ben Ali (stime delle organizzazioni umanitarie parlano di 66 morti).

Ieri sera Ben Ali, presidente tunisino dal 1987, salito al potere con un golpe, destituendo per “senilità” l’allora presidente Bourghiba, ha parlato per la terza volta dagli inizi degli scontri, promettendo un abbassamento dei prezzi di pane, latte e zucchero, la fine della censura (alcuni siti oscurati da tempo, come Youtube, sarebbero già visibili), la sua non candidatura alle prossime elezioni del 2014, una stagione di riforme diffuse nella società e una commissione d’inchiesta per indagare sull’uccisione dei manifestanti durante gli scontri. Il suo ministro degli esteri, subito dopo, apriva le porte ad un possibile governo di unità nazionale. Durante il discorso Ben Ali ha anche ordinato alla polizia di interrompere gli spari contro i manifestanti: “mi rifiuto di vedere aumentare le vittime”, c’è da aggiungere però che, secondo Al Jazeera, dopo il discorso di Ben Ali 2 ragazzi sarebbero stati uccisi dalle forze di sicurezza.

Dopo questo discorso il popolo tunisino è di nuovo tornato in piazza, nonostante il coprifuoco, per festeggiare come una vittoria le promesse di Ben Ali, anche se non si sa sino a che punto queste manifestazioni siano state pilotate dal regime. L’umore è naturalmente contrastante: da una parte la felicità, come quella di Ismail Smida, un attivista sindacale di Tataouine, 500 km a sud di Tunisi, che ha dichiarato alla Reuters che “tutto è cambiato” e “ora si deve solo festeggiare”; dall’altra scetticismo verso quelle parole che potrebbero essere solo vane promesse, come racconta un attivista ad Al Jazeera “ La gente è ancora cauta e dubita di queste parole, passare dalle parole ai fatti sarà un’impresa molto difficile.”

“Il discorso apre molte possibilità” ha dichiarato Mustapha Ben Ja’afar, capo del Forum democratico per il lavoro e le libertà,”[ma] queste intenzioni devono ancora essere messe in pratica”.

Il discorso di Ben Ali è soprattutto un tentativo disperato di portare la calma, volto a cercare di prevenire dall'alto la rivoluzione dal basso. Allo stesso tempo mostra con chiarezza la debolezza di un regime che non è stato in grado di fermare le proteste nemmeno mettendo in atto una durissima repressione che ha portato alla morte, come si diceva di 66 persone ( 23 nelle stime ufficiali) e in galera un numero altissimo di manifestanti tra cui un famoso cantante che si era permesso di cantare un testo dal titolo “ Presidente, il tuo popolo è morto” a sostegno delle manifestazioni e il leader del Partito Comunista Tunisino dei Lavoratori.

Le proteste sono iniziate il 17 dicembre scorso quando un giovane, Muhammad Bouazizi, di 26 anni, laureato e disoccupato, si è dato fuoco a Sidi Bouzid (nella zona centro-occidentale del paese), dopo che la polizia gli ha requisito la merce che vendeva senza la licenza necessaria. La solidarietà della popolazione tunisina a questo gesto disperato di chi si vede negato il proprio futuro ha dato il via alle proteste che dalle zone centro meridionali del Paese hanno incendiato l’intera Tunisia. La protesta è stata come un fiume in piena: abbiamo visto incendiati uffici governativi (il 12 gennaio è stato dato alle fiamme il tribunale di Tozeur), sedi del partito di governo e stazioni di polizia, sono stati assaltati vari esercizi commerciali di proprietà della famiglia della first Lady, Leilah Trabelsi. Il movimento vede al proprio interno molte componenti scontente dell’attuale regime: disoccupati, militanti politici, attivisti per i diritti umani, studenti, professori (di ieri una loro grande manifestazione all’università di Tunisi), avvocati, e, aspetto importante, a partire dal 22 dicembre il sindacato è ufficialmente nel movimento, con una riunione nella sede di Bizerte, per esprimere solidarietà al movimento di Sidi Bouzid. La pressione sul sindacato (UGTT) è stata tale, che dopo alcuni tentennamenti ha proclamato vari scioperi generali in diverse città del Paese: Sfax, Kassirne e per oggi (14 gennaio) è previsto uno sciopero generale a Tunisi di due ore.

Le cause della protesta e l’imperialismo

Per capire ciò che sta dietro la protesta occorre comprendere le condizioni di vita e di lavoro del popolo tunisino. La Tunisia, dal punto di vista dell’imperialismo, è stata considerata un paradiso per gli investimenti privati nel turismo e nei servizi, oltre che un’ottima regione dove delocalizzare le proprie industrie per sfruttare manodopera a basso costo (vi sono anche numerose imprese italiane, ad esempio Benetton), ed essendo considerato un paese stabile dal punto di vista politico, ha attirato investimenti, non solo occidentali, ma anche dalle regioni del Golfo. Il settore turistico è un vero affare per i capitalisti: il paese ospita circa 7 milioni di turisti in un anno, e i profitti annuali del settore sono stimati intorno ai 5.2 miliardi di dollari, occupando circa 350 mila persone. Nonostante ciò, la crisi attuale ha espulso dal mercato del lavoro una grande quantità di forze produttive, nonostante il regime e gli imperialisti abbiamo sempre preso a modello economico il paese considerando gli ottimi risultati e i relativamente alti tassi di crescita, assestati intorno al 5% annui negli ultimi 10 anni, diminuiti al 3% dalla fine del 2009.

Questo periodo di crescita economica, come quasi sempre avviene nel sistema capitalista, non ha prodotto effetti positivi sulla qualità di vita della popolazione e sulle condizioni di lavoro: nel 2004 il tasso di disoccupazione era del 13.9% e alla fine del 2009 era schizzato al 22% della forza lavoro, in più spesso si riesce a trovare lavoro solo in forme precarie e temporanee. I più colpiti dalla disoccupazione e dalle condizioni di vita precarie, sono tra l’altro i giovani, veri protagonisti della rivolta. Per rendere l’industria tunisina competitiva sono state attuate politiche che hanno imposto salari da fame ai lavoratori che non permettono un standard di vita decente (si consideri che in Tunisia il minimo salariale è di 250 dinari, ossia 130 euro al mese). A ciò si aggiunga che circa l’80% delle esportazioni tunisine sono dirette alla Comunità Europea, e hanno subito una forte battuta d’arresto nell’ultimo periodo a causa della crisi economica che ha colpito duramente i paesi occidentali.

A queste condizioni di vita precarie va aggiunta la totale mancanza di diritti politici, di qualsiasi forma di libertà, la brutale repressione messa in atto da un regime dittatoriale e corrotto.

Da questo breve quadro si capisce bene l’atteggiamento piuttosto ipocrita del mondo occidentale di fronte alla dura repressione delle proteste e in generale al modo di gestione del potere in Tunisia. D. Walsh, assistente del Segretario di Stato americano per gli Affari nel vicino Oriente durante l’amministrazione Bush, definì la Tunisia “un modello per la regione”. Sappiamo bene che le potenze occidentali sono sempre pronte a gridare allo scandalo quando chi viola i diritti umani non è allineato alle loro politiche, ossia pone ostacoli ai loro profitti (ad esempio l’Iran), salvo poi bendarsi gli occhi quando chi viola i diritti gonfia i loro portafogli. La protesta tunisina infatti è scoppiata nel silenzio più totale dei media occidentali, salvo poi salire agli onori della cronaca quando le manifestazioni di protesta contro il carovita sono esplose anche nella vicina Algeria, nei primi di gennaio. Algeria, che è ancora più importante per l’Unione Europea, date le sue riserve di petrolio e gas.

Durante le rivolte arriveranno solo blande condanne di fronte al numero crescente dei morti. Naturalmente il ministro degli esteri italiano Frattini, non ha smentito se stesso, e superando a destra chiunque, si è schierato totalmente a favore di Ben Ali, che lotterebbe contro il terrorismo islamico(!!!). Qualcuno dovrebbe informare il ministro che in Tunisia non c’è fondamentalismo islamico, o che la rivolta nulla ha a che vedere con una qualche componente religiosa.

Un vento di rivolta soffia in tutto il mondo arabo

Abbiamo già accennato alle lotte divampate in Algeria agli inizi di gennaio, contro il caro vita iniziato nel 2007 con la speculazione sui generi alimentari, che hanno visto anche qui protagonisti i giovani, la maggioranza della popolazione algerina, colpiti duramente dalla disoccupazione: circa il 75% dei giovani sotto il 30 anni è disoccupato. E’ probabile che presto le lotte “contagino” anche il Marocco, dove la popolazione condivide la sorte degli altri abitanti del Maghreb.

Anche in Giordania per oggi è prevista, a quanto riporta la versione on line del quotidiano egiziano Al- Wafd, una manifestazione contro il caro-vita, dopo che a inizio settimana c’è stata un’altra manifestazione per l’uccisione di 2 ragazzi da parte della polizia. A seguito di questa protesta ci sono stati 95 arrestati (al-Choukroun.tn). Mercoledì anche a Ramallah ci sono state proteste contro l’aumento dei prezzi.

In Egitto, che ha visto una lotta molto dura nel 2008 che ha visto il suo epicentro nella regione industrializzata di Mahalla el Kubra, contro l’aumento di prezzi del pane, la tensione è sempre alta: ci sono state proteste dopo le elezione della Shura’ (il parlamento egiziano) tenutesi a dicembre, in cui si sono registrati pesanti brogli elettorali, e sempre nel 2010, forti proteste contro la tortura praticata sistematicamente dal regime, dopo che la polizia ha ucciso di botte ad Alessandria un giovane, Khaled Said. Le lotte operaie inoltre continuano i più parti del paese.

Un salto di qualità di queste lotte sarebbe unirsi, con l’ambizione di creare una federazione araba socialista, unico progetto che può garantire libertà e standard di vita dignitosi alle popolazioni arabe.

I limiti e le prospettive di questo movimento

Il movimento tunisino mostra con quanto coraggio le masse possano essere travolgenti quando decidono di prendere in mano il proprio destino. Dopo anni di calma apparente il malcontento che covava sotto la superficie, è esploso con una forza straordinaria dalla combinazione di numerosi fattori. Questo è chiaramente un movimento spontaneo, con tutta la forza che ciò comporta, ma anche con tutti i limiti: in primis l’assenza di una guida che dia una prospettiva rivoluzionaria alla lotta. I manifestanti sono scesi in piazza contro le condizioni di vita precarie e contro la brutalità del regime, ma se hanno chiaro contro cosa lottare, non hanno realizzato ancora per cosa lottare: una rivoluzione che porti all’abbattimento di un sistema oppressivo come quello capitalista, di cui il governo di Ben Ali è servo. Il limite più grande sta proprio qui: l’assenza di un partito rivoluzionario e di massa che porti avanti un programma di lotta che guidi le masse tunisine alla vittoria e che preveda: il diritto al lavoro per tutti (uomini e donne), condizioni di lavoro accettabili, lavoro stabile. Non più precarietà e contratti temporanei. Riduzione della settimana di lavoro a 35 ore, senza diminuzione salariale. Occorre lottare per un sussidio di disoccupazione equivalente al minimo salariale, sanità e trasporti gratis per i disoccupati, per l’aumento del salario minimo, per l’imposizione di una scala mobile, e per l’eliminazione della disparità salariale oggi praticata in base al sesso e all’età, e inoltre lottare per la fine del regime dittatoriale servo dell’imperialismo e la realizzazione di un sistema basato sulla democrazia operaia, che preveda la nazionalizzazione sotto controllo operaio delle attività economiche. Solo avendo chiaro un programma di lotta, il sacrificio dei giovani, dei lavoratori, delle masse tunisine, non sarà vano.

Oggi più che mai è indispensabile per i comunisti in tutto il mondo sostenere la straordinaria lotta tunisina. Tanto più oggi, con la crisi economica che avanza e il divampare delle lotte in diversi paesi (abbiamo visto nella sola Europa: le lotte degli studenti in Italia e Inghilterra, quelle in Grecia, Francia, Portogallo) è indispensabile creare una rete di solidarietà di classe a livello internazionale che crei un’ unità nella lotta contro un sistema capitalista che non è più in grado di garantire nulla a nessuno. Discorso ancora più attuale in Italia oggi, in cui i lavoratori sono impegnati, da Pomigliano a Mirafiori, nel difendere i diritti duramente conquistati e messi sotto attacco da Marchionne e dalla Fiat.

Mai come oggi: proletari di tutto il mondo unitevi!

Visita il sito www.marxy.com (in lingua araba)

Source: FalceMartello (Italy)