No all’unità nazionale

“È l’ora della pacificazione nazionale”. L’auspicio di Renato brunetta è divenuto l’augurio con cui vari commentatori hanno salutato il varo del governo Letta. In effetti, lo scenario che si apre sembra il migliore possibile per la classe dominante italiana e internazionale. Il governo Letta-Alfano (dato il ruolo del delfino del Cavaliere) in realtà è un governo del Presidente Giorgio Napolitano, rieletto per superare lo stallo totale in cui il sistema politico si era trovato dopo le elezioni del 24-25 febbraio. Al desiderio di cambiamento espresso da milioni e giovani per mezzo di quel voto, la classe dominante italiana ha fornito la risposta più sprezzante si potesse concepire.

Con un atto di imperio Napolitano ha riproposto la stessa maggioranza su cui si reggeva Monti, ne ha ribadito le stesse basi programmatiche e ha imposto l’entrata nel governo, con i propri ministri, alle forze che lo sostengono.

Il discorso con cui Enrico Letta ha chiesto la fiducia alle Camere è stato paradigmatico in quanto a retorica, e a promesse rivolte a destra e a manca tipiche di ogni governo di unità nazionale. Levando la patina di ipocrisia, si possono facilmente scoprire gli assi portanti della politica del nuovo esecutivo.

L’austerità non è in discussione. Nel breve tour delle capitali europee compiuto dal neo Presidente del consiglio, Merkel, Hollande e Barroso lo hanno chiarito nettamente. Eventualmente  si potrà fare come per la Spagna, cioè concedere un lieve dilazionamento delle scadenze per il rientro del deficit.

Letta-Alfano devono restare sul sentiero tracciato nel Documento di economia e finanza per il 2013 scritto dal governo Monti. Entro il 2016 bisogna tagliare almeno 15 miliardi di spesa pubblica e dismettere almeno 30 miliardi di immobili dello stato.

Come rispettare questi impegni, lo spiega bene l’unico ministro “ex comunista” della compagine, Flavio Zanonato. “Si deve cominciare da una cosa molto importante: la riduzione della spesa pubblica. (…) Inoltre si può agire sulle valorizzazioni del patrimonio dei beni dello Stato, con le dismissioni” (Corriere della sera, 1 maggio 2013). Zanonato fa eco alle richieste di Unimpresa, che nel giorno dell’insediamento del nuovo governo ha chiesto un “piano di privatizzazioni da 40 miliardi di euro”

Letta ha chiarito inoltre, spalleggiato dal nuovo Ministro del lavoro, Giovannini, che la riforma Fornero “è troppo rigida e va cambiata”. È necessario “liberalizzare le assunzioni a termine e ridurre la fiscalità per le imprese che assumono a tempo indeterminato”.

Infine, sul programma del nuovo esecutivo incombe come una spada di damocle la richiesta del Pdl di eliminare l’Imu. Una richiesta che, se esaudita, significherebbe una nuova sforbiciata allo stato sociale e alle spese degli enti locali.

Insomma, “l’unità nazionale” rivela ancora una volta la sua natura ingannatrice: è l’unità dei padroni contro i lavoratori. Il governo Letta-Alfano non solo si propone di continuare le politiche “lacrime e sangue” di Monti, ma di approfondirle.

Letta e Napolitano, non celando le proprie ambizioni, hanno prospettato una verifica a 18 mesi e nel frattempo una “Convenzione per le riforme istituzionali” che dovrebbe modificare la Costituzione, anche per sintonizzare la Carta fondamentale con una situazione di presidenzialismo di fatto di cui la rielezione di “Re Giorgio” è stato un sintomo piuttosto eclatante.

Tali ambizioni devono fare i conti con la realtà: la prova di forza di Napolitano è in realtà un segno della debolezza della borghesia di questo paese, della sua incapacità di trovare una solida rappresentanza politica che possa difendere in maniera compiuta i suoi interessi. È stato ricomposto un governo di larghe intese, ma a un prezzo molto alto. Il Partito democratico appoggia il nuovo governo con un ruolo totalmente subalterno, ed è entrato in una crisi insolubile di cui parliamo in altre pagine di questo mensile. Il profilo di Berlusconi ne esce indubbiamente rafforzato: ha in mano la golden share del governo e può minacciare di usarla a suo piacimento. Non è certo una prospettiva che, al di là dei sorrisi di circostanza, possa far dormire sonni tranquilli alla borghesia.

La solidità e la lunga durata dell’esecutivo Letta-Alfano è quindi tutta in discussione. Si regge sul prestigio del Presidente e sulla convergenza temporanea di interessi divergenti. In ultimo, ma non meno importante, sull’appoggio dei vertici sindacali e particolarmente della Cgil, che sono divenuti i principali alfieri dell’unità nazionale, trasportandola sul terreno sociale. La ritrovata unità tra Cgil e Cisl-Uil avviene in larga parte sullle posizioni di Bonanni (ne è la riprova il recente accordo sulla rappresentanza), e non certo su una ripresa delle lotte. Tale “pacificazione” ha raggiunto livelli paradossali in occasione del Primo maggio, dove i confederali in diverse città hanno invitato Confindustria locale a unirsi alle celebrazioni.

L’unità delle “parti sociali” e dei partiti della “coesione nazionale” è una unità del tutto ipocrita, tipica di chi è trincerato nel fortino assediato, costretto a convivere insieme per il terrore dell’inevitabile reazione di tutti quei lavoratori e quei giovani che vedono peggiorare quotidianamente le proprie condizioni di vita.

Come riuscire a stanare chi si è rinchiuso in questo fortino? A molti sembra oggi un’impresa titanica, quasi impossibile. Alle ultime elezioni politiche milioni di persone ci hanno provato dando il proprio voto al Movimento cinque stelle, visto come la forza più coerentemente antisistema. L’esperienza di questi due mesi ha chiaramente dimostrato i limiti di una strategia, quella di Grillo e soci, che puntava tramite i soli meccanismi della democrazia rappresentativa borghese, a rovesciare i rapporti di forza e a portare i “cittadini” al potere. Sono i limiti di una visione interclassista, che vuole mandare a casa la casta ma non si accorge che chi ha in mano i fili è la classe, quella dominante.

Questa prospettiva è fallita. Oggi le forze che vogliono contrapporsi al governo Letta-Alfano devono ripartire certamente dall’opposizione, ma questa non può limitarsi a una serie di mozioni o interrogazioni parlamentari.

Le porte di quel fortino si possono scardinare solo facendo irrompere sulla scena la forza del movimento operaio e del conflitto sociale. Il governissimo e la crisi irreversibile del Partito democratico aprono nuove possibilità di intervento per i rivoluzionari. La parola d’ordine “tutti uniti contro Berlusconi” ha perso ogni credibilità ma, è bene ricordarlo, è proprio con quella parola d’ordine che i dirigenti dei Ds prima e del Pd poi avevano calamitato a sé le forze alla loro sinistra.

A chi a sinistra parla di costruire un’opposizione responsabile, noi rispondiamo: responsabile verso chi? Gli unici settori verso i quali una sinistra degna di questo nome debba sentirsi responsabile sono la classe operaia, gli sfruttati, i giovani che lottano per il proprio futuro. Ed è per tale ragione che ogni proposito di unità a sinistra o tra le forze di opposizione deve basarsi sul principio di costruire una sinistra di classe con un programma che rompa con le compatibilità del sistema capitalista.

Ogni altra strada è già stata percorsa, si è rivelata un disastro ed ha portato ad avere in Italia, nel momento in cui le contraddizioni sono più acute, la sinistra più debole d’Europa, in quanto a forza organizzata.

L’urgenza di costruire un partito di classe e un’alternativa rivoluzionaria non è più eludibile. Crediamo che, come noi, tutti gli attivisti del movimento operaio e della sinistra debbano raccogliere questa sfida.

Source: No all’unità nazionale