La lunga marcia della Cina verso il capitalismo

Italian translation of China's long march to capitalism (October 2006)

La transizione verso il capitalismo portata avanti in Cina negli ultimi vent'anni è un fenomeno che merita di essere studiato con attenzione. Offriamo ai nostri lettori un documento scritto nell'aprile del 2006 ed approvato nel congresso mondiale della Tendenza Marxista Internazionale, a cui FalceMartello fa riferimento,  tenuto nell'agosto dello stesso anno.

Introduzione

Dopo la rivoluzione d’Ottobre del 1917, la rivoluzione cinese del 1949 ha rappresentato il secondo evento per importanza nella storia. Comportò l’abolizione del latifondismo e del capitalismo e, con essi, la fine della dominazione imperialista su una vasta porzione del globo. Ciononostante, se da un lato la rivoluzione russa aveva portato alla nascita di uno Stato operaio relativamente sano per mano della classe operaia guidata dal partito bolscevico, un partito rivoluzionario caratterizzato dal suo approccio internazionalista, la rivoluzione cinese comportò immediatamente la nascita di uno Stato operaio deformato di matrice stalinista. Le condizioni basilari per la democrazia operaia mancarono fin dal principio. Non erano presenti né soviet, né controllo operaio, né veri e propri sindacati indipendenti dallo Stato, né una vera direzione marxista. Ciò era dato dal fatto che la rivoluzione si sviluppò sotto la direzione degli stalinisti a capo dell’esercito contadino e non si fondava sul proletariato concentrato nelle aree urbane. L’esercito contadino è lo strumento classico del dominio bonapartista. Mao, facendo leva su questo esercito contadino, seppe manovrare tra le classi alla maniera bonapartista, usando l’Armata Rossa come una clava per spezzare le ossa dapprima ai latifondisti e, in seguito, ai capitalisti stessi.

La vittoria della rivoluzione cinese fu possibile grazie ad una serie di particolari circostanze oggettive. Innanzitutto, la ragione principale per cui la rivoluzione cinese poté assumere quelle determinate forme fu l’incapacità dell’imperialismo statunitense d’intervenire. Il secondo fattore era l’incapacità della Cina di progredire all’interno del quadro capitalista e sotto il regime borghese estremamente degenerato di Chiang Kai Shek. Ulteriore fattore fu l’esistenza di un forte stato operaio deformato, la confinante Russia stalinista.

Mao Zedong e gli stalinisti cinesi formarono in Cina uno Stato ad immagine e somiglianza della Russia stalinista, una mostruosa caricatura burocratica dello Stato operaio, così la rivoluzione cinese del 1949 si trovò ad iniziare il suo percorso dal punto in cui la rivoluzione russa era terminata.

È giusto ricordare che la rivoluzione portò all’abbattimento del capitalismo in Cina nonostante le prospettive sbagliate della direzione del Partito comunista. La prospettiva condivisa da Mao era infatti che la Cina avrebbe avuto bisogno di cento anni di sviluppo capitalista. Mao si basava sulla teoria stalinista delle “due fasi” secondo la quale in un paese arretrato la rivoluzione socialista non fosse possibile e dunque la prima fase avrebbe dovuto essere “democratica”, ovvero borghese. Solo dopo il pieno sviluppo del capitalismo sarebbe stato possibile lottare per raggiungere il socialismo. Quanto avvenne dopo la presa del potere da parte dei comunisti cinesi dimostrò in modo incontrovertibile quanto tale teoria fosse falsa.

In un primo momento, giunto al potere, Mao promosse la formazione di un “Fronte Popolare” con una serie di partiti borghesi. Questo fatto portò alcuni a credere erroneamente che Mao avrebbe “tradito” la rivoluzione, ovvero che Mao si sarebbe comportato come i partiti comunisti nella rivoluzione spagnola e in altri paesi dove il Fronte Popolare era stato usato per imbrigliare il movimento della classe operaia. Nella Cina del 1949 c’era però una differenza fondamentale: il potere statale, i “corpi di uomini armati”, non rispondevano agli ordini della borghesia. Quest’ultima aveva seguìto Chiang Kai Shek nella sua fuga a Taiwan. Sostanzialmente non esisteva più una borghesia vera e propria con cui formare un’alleanza.

In quelle condizioni il Fronte Popolare divenne uno strumento per imbrigliare gli operai delle grandi concentrazioni urbane, così da mantenerli nei limiti imposti dal regime stalinista. Non esistendo però alcuna “borghesia progressista” con cui costruire una Cina “democratica” e capitalista che potesse efficacemente guidare il paese e l’economia, ed essendo il vero potere statale nelle mani dell’Armata Rossa, gli stalinisti furono ad un certo punto costretti a prendere in mano le leve fondamentali di comando dell’economia. Questo sviluppo rappresentò in un certo senso, anche se in modo distorto, la conferma della validità della teoria della rivoluzione permanente.

Nonostante la rivoluzione cinese non avesse preso le forme di una rivoluzione proletaria, la tendenza marxista la sostenne per il fatto che essa avesse liberato le forze produttive dalla camicia di forza del capitalismo e del sistema feudale ed avesse perciò posto le basi per uno sviluppo dell’economia che altrimenti sarebbe stato impossibile. I marxisti hanno comunque spiegato che, sebbene il Partito comunista e la burocrazia statale fossero destinati a giocare un ruolo relativamente progressista nello sviluppo della Cina, queste stesse deformazioni burocratiche avrebbero inevitabilmente comportato per le masse cinesi la necessità di portare a compimento una seconda rivoluzione, politica, per potersi avvicinare al vero socialismo, al vero potere operaio.

La crescita dell’economia cinese dopo il 1949 fu spettacolare. Basta confrontare gli indici di sviluppo economico di India e Cina tra il 1949 e il 1979. I due giganti asiatici partivano grossomodo dallo stesso livello, ma la crescita dell’economia cinese è stata molto superiore. Ciò può essere spiegato solo dal fatto che la Cina poteva giovarsi di un’economia pianificata, statalizzata e centralizzata. Sotto un regime di democrazia operaia sarebbe stato possibile raggiungere anche risultati migliori, ma in ogni caso l’economia pianificata ai tempi di Mao rappresentò un gigantesco balzo in avanti e la crescita che rese possibile costituisce la base economica della Cina attuale.

La burocrazia tuttavia era affetta da molte tare. In particolare era pervasa da una ristretta mentalità nazionalista caratteristica di tutti i regimi stalinisti. Se Cina ed Urss fossero stati due Stati operai sani, si sarebbero uniti in una Federazione socialista insieme alle repubbliche sovietiche dell’Europa orientale e avrebbero sviluppato un piano di produzione internazionale che avrebbe permesso il pieno utilizzo, combinato e razionale, delle risorse materiali ed umane presenti in ciascun paese. Questo non avvenne. Al contrario - come avevano previsto i Marxisti - la deformazione nazionalista sia della burocrazia cinese sia di quella sovietica rischiò seriamente di provocare una guerra tra le due potenze.

Nel 1960 si verificò la rottura tra Cina ed Urss. La burocrazia sovietica aveva tentato di trascinare la Cina all’interno della propria “sfera d’influenza”, cosa che la burocrazia cinese non poteva tollerare. A differenza delle Repubbliche popolari sorte dall’avanzata dell’Armata Rossa nell’Europa orientale, Mao era arrivato al potere su basi indipendenti dall’Urss, così come era già avvenuto per Tito in Jugoslavia. La previsione dei marxisti all’epoca fu appunto che Stalin si sarebbe trovato tra le mani un Tito cinese. Appena scoppiò il conflitto, gli stalinisti russi ritirarono tutti i loro aiuti, i tecnici e quant’altro, sferrando un serio colpo alle prospettive di sviluppo dell’economia cinese in quel momento. Dopo questi eventi la burocrazia cinese si incamminò sul sentiero reazionario dell’autarchia, isolando la Cina dal resto dell’economia mondiale e quindi dalla divisione mondiale del lavoro.

Mao cercò di dissimulare quello che stava facendo realmente lanciando una campagna di denuncia contro il “revisionismo” della burocrazia sovietica proprio perché aveva bisogno di trovare una base ideologica per giustificare la rottura con Mosca. Nei suoi tratti fondamentali della burocrazia cinese però non era diversa da quella della controparte sovietica. Così cominciò il tentativo di costruire una propria versione del “socialismo in un solo paese”, impossibile da conseguire persino in un paese di dimensioni continentali.

In questo modo una Cina arretrata ed isolata fu costretta a sviluppare i mezzi di produzione partendo da un livello estremamente basso e senza potersi avvalere della tecnica più avanzata disponibile in Russia al momento. Lo sviluppo cinese dunque fu conseguito sostenendo costi incomparabilmente maggiori di quanto fosse necessario, in termini di risorse umane e materiali, ma nonostante ciò la Cina si trasformò, da campo di giochi delle potenze imperialiste emerse quale potenza mondiale.

Nonostante le sue mancanze la burocrazia cinese riuscì a raggiungere il risultato nel campo in cui da sempre la borghesia cinese, ormai logora, aveva platealmente fallito, quello di creare una vera unità nazionale ed uno stato moderno per la prima volta nella storia del paese. La riforma agraria fu conseguita in un balzo e la nazionalizzazione dei mezzi di produzione pose le basi per uno sviluppo dell’economia cinese ad un livello mai sperimentato.

Tra il 1949 e il 1957 il tasso medio annuo di crescita dell’economia cinese fu dell’11%, tra il 1957 e il 1970, la produzione industriale continuò a crescere al ritmo del 9% annuo, molto più velocemente che nel resto del mondo capitalista (nello stesso periodo il tasso di crescita indiano fu pari a meno della metà di quello cinese). Nel 1952 la produzione totale di trattori cinese ammontava a 1000, un indice del livello ancora primitivo della produzione agricola. Nel 1976 questa cifra era balzata a ben 190mila trattori l’anno.

Questi risultati formidabili furono conseguiti nonostante i disastri causati da scelte sconsiderate come il “grande balzo in avanti” del 1958 o la “rivoluzione culturale” del 1966. Il “grande balzo in avanti” provocò un repentino crollo della produzione agricola, una carestia che costò la vita di 15 milioni di cinesi. Tra il 1967 e il 1968 invece si registrò un crollo della produzione industriale del 15%, responsabile di un drastico ridimensionamento del livello di vita per la massa della popolazione. Dopo questi due rovinosi scivoloni nello sviluppo economico l’economia si riprese grazie alla forza della pianificazione statale.

Persino nel 1974, quando il resto del mondo sprofondava nella recessione – la prima recessione simultanea a livello mondiale dalla seconda guerra mondiale, con un calo medio della produzione mondiale dell’1% – la Cina crebbe del 10%, analogamente a quanto aveva fatto l’Urss negli anni ‘30, ad ulteriore conferma di tutti i vantaggi forniti da un’economia nazionalizzata e pianificata.

Tutto ciò trasformò la società cinese e la catapultò nel XX secolo. Prima del 1949 il tasso di analfabetismo era pari all’80%. Nel 1975 il 93% dei bambini erano inseriti nel sistema scolastico. Si ebbe uno sviluppo incredibile nel campo della sanità, dell’edilizia abitativa, ecc. La povertà desolante, endemica prima della rivoluzione, fu sradicata, con un generale miglioramento del tenore di vita e l’ottenimento di molte importanti conquiste sociali. La speranza di vita che nel 1945 era di 40 anni raggiunse nel 1970 i settant’ anni, un valore molto prossimo a quello dei paesi capitalisti avanzati. Anche la condizione della donna registrò un netto miglioramento, come testimoniato dalle numerose riforme di quegli anni, tra cui la proibizione della pratica di fasciare i piedi delle bambine.


Trotskij sulla burocrazia

Nonostante gli enormi successi conseguiti, la burocrazia non era uno strato sociale storicamente necessario per lo sviluppo dell’economia cinese. Il piano non aveva bisogno della burocrazia per funzionare, anzi si può affermare che il piano funzionasse nonostante la burocrazia. Nella raccolta di lettere e scritti di Trotskij pubblicata col titolo In difesa del marxismo, in un testo scritto nell’ottobre del 1939, troviamo quanto segue:

“Se la marmaglia bonapartista fosse una classe questo implicherebbe che essa non sarebbe un aborto, ma un figlio vitale del processo storico. Se il suo parassitismo pernicioso fosse ‘sfruttamento’ nel senso scientifico del termine, ciò vorrebbe dire che la burocrazia possiederebbe un futuro in prospettiva storica quale classe dominante necessaria a quel determinato sistema economico”. )

Trotskij spiegò che, al contrario, la burocrazia non avrebbe avuto un futuro da un punto di vista storico. Era il frutto avvelenato della degenerazione dell’Unione sovietica, in determinate condizioni di estrema arretratezza ed isolamento. Il regime cinese si era modellato sulla Russia stalinista e la burocrazia cinese avrebbe giocato lo stesso ruolo della sua controparte sovietica.

L’esistenza stessa della burocrazia provava che al di là della retorica esistessero strati sociali privilegiati e diseguaglianze all’interno della società cinese. Nel 1976, ad esempio, il salario mensile di un operaio che lavorasse 48 ore la settimana era pari al valore di 12 dollari mentre i professionisti guadagnavano 120 o più dollari, con un differenziale retributivo di 10 a 1.

Nell’Urss Lenin aveva accettato un differenziale di 4 a 1 – un “compromesso borghese”, secondo la sua definizione – un mezzo per rimettere l’economia in marcia, ma questa misura era considerata temporanea, in attesa della vittoria della rivoluzione su scala mondiale. I bolscevichi agivano in base ad una prospettiva internazionalista e capivano che la loro salvezza dipendeva dalla rivoluzione mondiale. La loro prospettiva era che, appena il proletariato dei paesi capitalisti più avanzati fosse riuscito a rovesciare il capitalismo, sarebbe stato possibile attuare uno sviluppo armonico dell’economia e le risorse tecnologiche di queste nazioni sarebbero state disponibili anche alla Russia arretrata . Sfortunatamente la rivoluzione fu sconfitta in un paese dopo l’altro e la Russia rimase sempre più isolata, determinando così anche l’esito finale del processo di degenerazione burocratica.

La burocrazia cinese non considerava la differenziazione marcata dei livelli retributivi nella stessa maniera in cui l’avevano concepita i bolscevichi. Non era ritenuta affatto temporanea, un compromesso “borghese” imposto dall’isolamento della rivoluzione e la natura sottosviluppata dell’economia. Si trattava bensì del consolidamento della ricchezza e dei privilegi della burocrazia, i cui esponenti avevano un tenore di vita ben superiore rispetto ai normali lavoratori. In un simile contesto era implicita la possibilità che ad un dato momento avvenisse una restaurazione capitalista.

La burocrazia difendeva l’economia pianificata nella misura in cui avesse garantito il mantenimento del potere, dei privilegi, del reddito e del prestigio sociale. Però, come aveva giustamente rilevato Trotskij rispetto all’Urss, i burocrati non si sarebbero accontentati semplicemente di beneficiare dei privilegi derivanti dalla loro posizione amministrativa all’interno della società, avrebbero prima o poi preteso di rendere tali privilegi ereditari per poterli assicurare alla loro discendenza. Perché ciò potesse diventare possibile sarebbe stato necessario un cambiamento nei rapporti di proprietà. Nel capitolo 9 de La rivoluzione tradita Trotskij prende in esame la questione nei seguenti termini:

“Ammettiamo una terza ipotesi, cioè che né il partito rivoluzionario, né il partito controrivoluzionario si impadroniscano del potere. La burocrazia resta alla testa dello Stato. Anche in queste condizioni l’evoluzione dei rapporti sociali non si ferma. Non si può certo immaginare che la burocrazia abdichi in favore dell’eguaglianza socialista. Se essa ha già ritenuto possibile, malgrado gli inconvenienti evidenti di questa operazione, ristabilire i gradi e le decorazioni, in seguito dovrà inevitabilmente cercare un appoggio nei rapporti di proprietà. Si potrebbe obiettare che poco importano ai grossi funzionari le forme di proprietà da cui ricavano i loro redditi, ma sarebbe ignorare il fattore della precarietà dei diritti della burocrazia e il problema della sua discendenza. Il culto del tutto recente della famiglia sovietica non cade dal cielo. I privilegi che non si possono tramandare ai figli perdono la metà del loro valore. Ma il diritto di lasciare in eredità è inseparabile da quello di proprietà. Non basta essere direttore di un trust, bisogna esserne azionista. La vittoria della burocrazia in questo settore decisivo ne farebbe una nuova classe possidente.

E continua:

“Definire transitorio o intermedio il regime sovietico significa lasciare da parte le categorie sociali compiute come capitalismo (compreso il capitalismo di Stato) e socialismo. Ma questa definizione è in se stessa del tutto insufficiente e suscettibile di suggerire l’idea falsa che la sola transizione possibile per il regime sovietico attuale conduca al socialismo. Un regresso verso il capitalismo resta, invece, perfettamente possibile. Una definizione più completa sarà necessariamente più lunga e più complessa.” ( Nostro corsivo)

“L’URSS è una società intermedia tra il capitalismo e il socialismo, nella quale: a) le forze produttive sono ancora insufficienti a conferire alla proprietà statale un carattere socialista; b) la tendenza all’accumulazione primitiva, nata dal bisogno, trasuda da tutti i pori dell’economia pianificata; c) le norme di distribuzione di natura borghese sono alla base di una nuova differenziazione sociale; d) lo sviluppo economico, pur migliorando lentamente la condizione dei lavoratori, contribuisce a formare rapidamente uno strato privilegiato; e) la burocrazia, sfruttando gli antagonismi sociali, è divenuta una casta incontrollata, estranea al socialismo; f) la rivoluzione sociale, tradita dal partito al governo, vive ancora nei rapporti di proprietà e nella coscienza dei lavoratori; g) l’evoluzione delle contraddizioni accumulatesi può condurre al socialismo o riportare la società verso il capitalismo; h) la controrivoluzione in marcia verso il capitalismo dovrà spezzare la resistenza degli operai; i) gli operai in marcia verso il socialismo dovranno rovesciare la burocrazia. La questione sarà risolta in definitiva dalla lotta delle due forze vive, sul terreno nazionale e internazionale.” (Nostro corsivo)

“I dottrinari non saranno soddisfatti da una definizione così duttile. Essi vorrebbero formule categoriche: sì, sì, no, no. Le questioni di sociologia sarebbero ben più semplici se i fenomeni sociali avessero sempre contorni netti. Ma niente è più pericoloso che eliminare, seguendo la precisione logica, gli elementi che contrastino sin da ora con i nostri schemi e possano domani confutarli. Temiamo soprattutto, nella nostra analisi, di fare violenza al dinamismo di una formazione sociale che non ha precedenti e non conosce analogie. Lo scopo scientifico e politico che perseguiamo non è di dare una definizione compiuta di un processo incompiuto, ma di osservare tutte le fasi di un fenomeno, di farne risaltare le tendenze progressiste e reazionarie, di rivelare la loro interdipendenza, di prevedere le diverse varianti dello sviluppo ulteriore e di trovare in questa previsione un punto d’appoggio per l’azione.

Come possiamo vedere, nelle prospettive di Trotskij il ritorno al capitalismo era una prossibilità concreta. Trotskij aveva preventivato che l’economia nazionalizzata e pianificata non sarebbe stata al sicuro nelle mani di tale burocrazia e che ciò avrebbe potuto implicare la minaccia di una restaurazione capitalista, ad un determinato momento.

Uno Stato operaio deformato è per definizione un regime transitorio tra capitalismo e socialismo, che potrà sia essere rovesciato da una rivoluzione politica sia scivolare indietro verso il capitalismo. Da un punto di vista storico tale regime è venuto alla luce per la prima volta sulla base della degenerazione della rivoluzione russa. Si tratta di una fase innecessaria nel processo di sviluppo delle forze produttive. Non era inevitabile, né si trattava di una forma sociale necessaria. Se la rivoluzione, iniziata in Russia, si fosse affermata nei paesi capitalisti avanzati negli anni ‘20, lo stalinismo non si sarebbe mai sviluppato.

Nonostante i propri limiti intrinseci, comunque, questi regimi riuscirono a sviluppare le forze produttive in modo mai sperimentato prima. In tale senso essi avevano un carattere progressista. Questa capacità gli veniva conferita dalla proprietà statale dei mezzi di produzione e dalla pianificazione economica. Trotskij prese in esame questo aspetto ne La rivoluzione tradita e avanzò una previsione: fintanto che il regime avesse dovuto sviluppare l’economia di un paese arretrato, esso avrebbe potuto ottenere un certo successo, ma nella misura in cui l’economia raggiungesse un livello via via più sofisticato, la burocrazia sarebbe stata sempre più d’intralcio al suo ulteriore sviluppo.

Mano a mano che l’economia si sviluppava, la burocrazia cominciò a consumare una quota crescente della ricchezza prodotta dalla classe operaia e dai contadini. Gli sprechi, la corruzione e il furto si diffusero così su vasta scala. Fatto ancora più rilevante, nella misura in cui l’economia si sviluppava e acquisiva un carattere più complesso diventava evidente che il sistema di comando burocratico di tale regime non poteva gestire fin nel minimo dettaglio un’economia così complessa. La burocrazia, già freno relativo allo sviluppo delle forze produttive, divenne in un ostacolo assoluto.

Trotskij sottolineò con forza la questione della produttività. Come vedremo questo fattore si sarebbe rivelato chiave per comprendere in che modo e perché i regimi stalinisti dell’Europa orientale e l’Urss stessa siano implosi. Trotsky lo spiegò già nel primo capitolo de La rivoluzione tradita:

“I coefficienti di crescita dell’industria sovietica sono senza precedenti, ma né oggi, né domani potranno risolvere la questione. L’URSS cresce partendo da un livello spaventosamente basso, mentre i paesi capitalisti scivolano indietro da un livello molto elevato. I rapporti di forza attuali sono determinati non dalla dinamica della crescita, ma dal confronto tra la potenza totale dei due avversari, quale si esprime nelle riserve materiali, nella tecnica, nella cultura e prima di tutto nel rendimento del lavoro umano. Non appena affrontiamo il problema dal punto di vista delle cifre assolute, il quadro cambia a netto svantaggio dell’URSS.

Un tema ulteriormente ripreso e specificato più avanti nella stessa opera:

“Nella sua intima essenza la domanda ‘Chi prevarrà?’ – non solo da un punto di vista militare, ma economico – incombe sull’Unione sovietica su scala globale. Un’invasione militare è un pericolo. L’invasione di merci a buon mercato a rimorchio di un esercito capitalista sarebbe una minaccia incomparabilmente maggiore”. (La rivoluzione tradita, Capitolo 9).

Trotskij già nell’agosto del 1925 aveva scritto una analisi lungimirante ed acuta dei problemi che doveva affrontare il giovane Stato sovietico, ( Dove va la Russia? in seguito noto con il titolo di Verso il capitalismo o verso il socialismo? ). In questo suo scritto Trotskij poneva in modo schietto la domanda: “Qual’è il nostro tasso di sviluppo se prendiamo come punto di paragone l’economia mondiale?”. Nel dare una risposta alla sua stessa domanda, precisa:“Proprio grazie ai nostri successi siamo entrati nel mercato mondiale, ovvero, siamo entrati nel sistema della divisione universale del lavoro. Allo stesso tempo continuiamo ad essere circondati dal capitalismo. In tali condizioni il tasso del nostro sviluppo economico determinerà la forza della nostra resistenza alla pressione economica del capitalismo mondiale e alla pressione militare e politica dell’imperialismo mondiale” (The Challenge of the Left Opposition - 1923-25, Pathfinder, 1975, pag. 330).Trotskij nel 1925 sottolineava con forza l’importanza decisiva del tasso di crescita dell’economia sovietica: “…il tasso di crescita è precisamente l’elemento decisivo!”. E aggiunse:

È del tutto evidente che nella misura in cui diveniamo parte del mercato mondiale, non solo le nostre possibilità ma anche i pericoli cresceranno. La fonte, così come per molte altre condizioni, è ancora una volta la forma parcellizzata della nostra economia contadina, la nostra arretratezza tecnologica e l’attuale immensa superiorità produttiva del capitalismo mondiale, se paragonata a noi...” (ibid. pag. 344).

“La superiorità economica fondamentale degli Stati borghesi consiste nel fatto che il capitalismo nel momento attuale ancora produce merci migliori a minor costo rispetto al socialismo. In altre parole, la produttività del lavoro nei paesi che continuano a vivere in sintonia con la legge inerziale della vecchia civilizzazione capitalista è per ora ancora considerevolmente più alta che quella del paese in cui si sta cominciando ad applicare metodi socialisti nelle ereditate condizioni di barbarie”.

“Siamo in accordo con la legge fondamentale della Storia: la vittoria in ultima istanza arride a quel sistema che mette a disposizione della società umana il livello economico più elevato”.

“La contesa storica sarà decisa – e naturalmente non all’improvviso – dal confronto fra i rispettivi coefficienti della produttività del lavoro”. (ibid. pag. 345).

Quanto Trotskij dice qui è di fondamentale importanza per capire cosa sia potuto accadere decenni dopo nei paesi già dominati dallo stalinismo. Sebbene l’economia pianificata avesse permesso all’Urss di compiere incredibili progressi nello sviluppo delle forze produttive, il paese doveva ancora colmare un significativo divario storico rispetto ai paesi capitalisti avanzati. Nella misura in cui la burocrazia riusciva a sviluppare le forze produttive il regime stalinista poteva godere di una relativa stabilità. In effetti nel corso degli anni ‘30 non solo si svilupparono le forze produttive, ma lo fecero ad un ritmo estremamente più veloce di quello del mondo capitalista. Ciò spiega la capacità di resistenza del regime stalinista durante quel periodo ed anche perché le tendenze filocapitaliste all’interno della burocrazia non si fossero potute cristallizzare in maniera decisiva.

Trotskij ad ogni modo spiegò anche che la burocrazia ad un determinato stadio della sua crescita, si sarebbe trasformata da freno relativo ad ostacolo assoluto allo sviluppo delle forze produttive. La crescita avrebbe rallentato la sua corsa e ciò avrebbe riaperto la possibilità di una restaurazione capitalista. Questo è quanto si è verificato negli anni ‘60 e ‘70: dapprima la crescita dell’Urss cominciò a rallentare fino ad un livello simile a quello dell’occidente capitalista, poi si arenò progressivamente fino a fermarsi.

Una volta raggiunto quel punto, secondo Trotskij, la società si sarebbe trovata di fronte ad un bivio: o i lavoratori avrebbero saputo rovesciare la burocrazia, preservando allo stesso tempo l’economia pianificata e ponendo la produzione sotto il controllo e la gestione democratica dei lavoratori, oppure ci sarebbe stato un ritorno controrivoluzionario al capitalismo.

La storia ha dimostrato che quest’ultima fu la sorte di quei regimi. In Russia e nell’Europa orientale, dove la crisi si fece sentire a partire dagli anni ‘70, abbiamo assistito al crollo del sistema appena divenne chiaro che non avrebbe potuto più assicurare in futuro lo sviluppo dell’economia. In Russia il sistema crollò all’improvviso e ci sono voluti diversi anni prima che l’economia si stabilizzasse finalmente e riprendesse di nuovo a crescere su basi capitaliste.


La burocrazia cinese impara dalla storia


In Cina le cose si sono sviluppate sotto alcuni aspetti in modo diverso. La burocrazia cinese osservava attentamente cosa stava avvenendo in Russia. In particolare fu la fazione burocratica rappresentata da Deng a rivelare di essere capace di trarre insegnamento dagli eventi russi e dalla propria esperienza recente. La Cina è di dimensioni continentali ed ha una popolazione immensa, ma nemmeno un paese di queste proporzioni può permettersi di svilupparsi in isolamento. Il “socialismo in un paese solo” ha dimostrato di essere fallimentare. La burocrazia sotto Mao aveva tentato di costruire un regime autarchico. Questo esperimento alla fine mostrò tutti i suoi limiti.

La fazione di Deng ebbe l’opportunità di assistere alla crisi della Russia e dei paesi dell’Europa orientale che culminò negli eventi tumultuosi del 1989-1991 quando uno dopo l’altro questi regimi crollarono, lasciando il campo libero alla restaurazione capitalista. Videro la burocrazia russa, prima onnipotente e monolitica, crollare come un castello di carte. In tutti i paesi ex stalinisti dell’Unione sovietica e dell’Europa dell’Est – specialmente nell’ex Urss – l’economia fu spinta brutalmente indietro per mezzo di una massiccia distruzione delle forze produttive e la burocrazia perse il controllo del processo. Fu necessario un lungo periodo prima che l’economia si stabilizzasse e ricominciasse a crescere. La casta dirigente cinese assistette a questi eventi come una persona si affaccia ad una finestra aperta sul proprio futuro. Così trassero la conclusione di non potersi permettere che ciò accadesse anche in Cina e, per evitare che un simile crollo potesse ripetersi, sarebbe stato necessario operare una correzione di rotta nelle proprie politiche.

Proprio nello stesso periodo la rivolta di piazza Tien An Men evidenziò il pericolo che la burocrazia cinese finisse allo stesso modo di quella russa. Tutto ciò ebbe un’influenza tremenda sugli orientamenti della casta dirigente cinese che fu spinta a rivedere la politica già in atto di introdurre meccanismi di mercato nell’economia per dare impulso alla crescita della produttività, ma in modo da fare salvo il principio che il settore statale dovesse dominare, convincendola ad imprimere un’accelerazione di questo processo fino al punto raggiunto oggi, quando ormai il settore privato ha preso il sopravvento.

In modo simile a quanto era avvenuto nell’Urss, anche in Cina l’appetito dei burocrati era cresciuto esponenzialmente con l’espansione dell’economia sotto Mao, così come la crescita economica metteva in sempre maggiore evidenza la mancanza di armonia e di coordinamento fra lo sviluppo dei diversi settori. Ciò spiega fenomeni come il “Grande balzo in avanti” o la “Rivoluzione culturale”. Ricorrendo a questi metodi Mao tentava di sviluppare l’economia ed al tempo stesso di limitare gli eccessi della burocrazia che stavano mettendo a rischio la stabilità del sistema.

Gli eccessi di alcuni settori della burocrazia possono mettere a rischio gli interessi della casta burocratica nel suo complesso. Vi sono parecchie similitudini con quanto fece lo stesso Stalin negli anni ‘30, quando aveva colpito duramente alcuni settori della burocrazia, ma allo scopo di preservare la stabilità complessiva del regime. Stalin non si fece scrupolo di mandare alcuni burocrati davanti al plotone d’esecuzione – colpire i più corrotti per salvare la burocrazia in quanto tale. Nella “Rivoluzione culturale” si poteva riconoscere qualcosa di ciò, nella misura in cui un settore della burocrazia fu posto sotto attacco. In modo demagogico Mao si scagliò contro gli “apripista” del capitalismo per consolidare la propria posizione e allo stesso tempo porre un freno alle forme più plateali di corruzione che minacciavano il sistema nel suo complesso.

La natura della “Rivoluzione culturale” non era, come invece avevano proclamato alcuni in occidente, quella di un movimento dei lavoratori e della gioventù che cercava di imporre la propria volontà sui burocrati. Mandel e compagni la paragonarono alla Comune di Parigi, dimostrando la loro completa incapacità di comprendere quello che stava accadendo. Avevano scambiato la vera insurrezione operaia parigina del 1871 con un movimento diretto e scatenato da un’ala della burocrazia contro un’altra. Non avevano capito che la guida del processo è stata sempre nelle mani di Mao, arbitro supremo. Come abbiamo già detto i metodi di Mao, ben lungi dal dare un impulso all’economia, produssero solo disorganizzazione e caos. Per tre anni si registrò un crollo della produzione agricola e industriale e tutte le scuole e le università restarono chiuse. Il settore burocratico intorno a Deng Xiaoping ne fu sconvolto e ne trasse ulteriori lezioni.

Dobbiamo capire che un’economia pianificata può funzionare in modo efficiente solo se è sottoposta al controllo della classe operaia a tutti i livelli. La democrazia operaia, il controllo e la gestione da parte dei lavoratori sono elementi essenziali per il funzionamento della pianificazione. I lavoratori al tempo stesso sono quelli che consumeranno il loro prodotto. Hanno un interesse materiale nell’assicurare che il piano funzioni a tutti i livelli. Il burocrate è interessato solo a raggiungere gli obiettivi assegnatigli – a prescindere dalla qualità o dal fatto che la propria attività sia armonizzata con il resto della produzione – in modo tale da garantirsi le gratifiche stabilite. Detto ciò va aggiunto che una burocrazia centralizzata non può decidere ogni aspetto della produzione. Se tutto dipende dal comando burocratico centralizzato è inevitabile che si producano distorsioni ed inefficienze colossali. Il piano complessivo deve essere sottoposto al controllo dei lavoratori ad ogni livello. La mancanza di tale controllo spiega perchè sia il “Grande balzo in avanti” sia la “Rivoluzione culturale” siano falliti. Non si può combattere la burocrazia con mezzi burocratici. Questi due episodi provocarono sconvolgimenti che andarono ad aggiungersi a quelli già causati dalla gestione burocratico.

Quanto avvenuto nel corso della “Rivoluzione culturale” è significativo per comprendere gli sviluppi successivi una volta che Deng si trovò al potere. La burocrazia maoista si era appoggiata sulla forza delle masse per sferrare colpi contro un settore dello stesso apparato burocratico. Nel raggiungere il loro scopo, alla maniera bonapartista, liberarono forze dal basso, ma correndo allo stesso tempo un rischio. Permettere alle masse di procedere oltre i confini stabiliti avrebbe comportato la possibile perdita del controllo da parte della burocrazia. Una volta ridimensionati gli eccessi di un settore della burocrazia, Mao ed i suoi seguaci posero un freno allo stesso movimento che avevano suscitato e nel 1969 lo fecero rientrare nei ranghi. Così lo slogan in voga fino a quel momento “Le masse hanno ragione, ciò che dice il popolo è giusto” si trasformò in “Ciò che è giusto è quanto pensa il presidente Mao”.

Una volta messe a tacere le masse, inevitabilmente i rapporti di forza ritornarono ad essere favorevoli all’ala filocapitalista. Una volta costrette alla passività le masse, i rapporti di forza dovevano essere determinati all’interno della burocrazia stessa. Mao aveva ottimi motivi per essere preoccupato dell’attivismo delle masse. Il periodo precedente era stato attraversato da successive ondate di scioperi e movimenti spontanei, solo ultimi quelli del biennio 1966-67 e poi ancora nel 1976, quando si determinò una rivolta delle organizzazioni operaie per aumentare i salari e le condizioni di vita ritenute inique. In questi movimenti si vedeva chiaramente che la classe operaia tendeva ad oltrepassare i limiti stabiliti dalla burocrazia. Il punto che dobbiamo aver chiaro è che la burocrazia maoista, pur assumendosi il compito di difendere la pianificazione statale, non poteva spingersi così in là da consegnare il potere nelle mani dei lavoratori. Se lo avessero fatto, i burocrati avrebbero perso tutti i loro privilegi.

Ad ogni modo restava il problema dello sviluppo dell’economia. Da un punto di vista marxista l’unica soluzione sarebbe stata l’introduzione di una vera democrazia operaia, ma questo era esattamente l’ultima delle intenzioni della burocrazia. Non dobbiamo dimenticare che quel settore della burocrazia che difendeva l’economia pianificata lo faceva per preservare i propri interessi ed i privilegi che ne derivavano. Trotskij spiega questa contraddizione brillantemente nel già citato In difesa del marxismo: “La burocrazia è prima di tutto e soprattutto preoccupata del suo potere, dei suoi privilegi, del suo reddito. Difende se stessa molto meglio di quanto difenda l’Urss. Difende se stessa a spese dell’Urss e degli interessi del proletariato mondiale”. Questa è l’essenza, la natura della burocrazia.

Un ampio settore della burocrazia trasse un profondo sospiro di sollievo appena venne soffocata la “Rivoluzione culturale” - volevano il ritorno alla stabilità per potersi godere i propri privilegi in pace. Ciò che risulta chiaro è che già allora prendeva forma tra un settore della burocrazia l’idea di introdurre alcuni elementi di mercato per stimolare l’economia.


La fine dell’era di Mao


Appena Mao morì il settore della burocrazia favorevole ad un’apertura al capitalismo passò all’offensiva, ponendo la questione di aprire al mercato, il mercato mondiale. In termini concreti Deng Xiaoping e gli altri si basavano su un’idea centrale, cioè che fosse impossibile separare la Cina dall’economia mondiale e che quindi essa dovesse partecipare al mercato mondiale. Questo era il punto di partenza. In assenza di democrazia operaia il mercato mondiale può servire da strumento rozzo di controllo dell’inefficienza e della malgestione.

Nelle condizioni prevalenti nella Cina degli anni ‘70, la scelta di ricorrere ad una sorta di “Nuova politica economica” (Nep) non sarebbe stata esclusa neppure da un vero partito rivoluzionario marxista, così come i bolscevichi l’avevano attuata nei primi anni ‘20. Fintanto che le leve fondamentali dell’economia rimangono sotto il controllo dello Stato e sono sottoposte alla guida del piano, si può ricorrere a tali metodi per stimolare e sviluppare l’economia in uno Stato operaio isolato.

Lenin si basò su considerazioni analoghe quando offrì ai capitalisti occidentali concessioni in Siberia, dove si concentravano enormi riserve di materie prime ma l’economia era sottosviluppata. Il giovane e debole Stato operaio non aveva a disposizione i mezzi per sviluppare la Siberia, così Lenin sostenne l’idea che in una tale situazione l’unica maniera di ottenere gli investimenti e la tecnologia necessari a sviluppare le forze produttive, fosse quella di fare concessioni al capitale straniero. L’idea era che, garantendo profitti ai capitalisti, si sarebbe potuto sviluppare la regione, ottenendo nuove forze produttive, la tecnica, ecc. Ciò avrebbe portato benefici alla rivoluzione.

Nel 1918, nel suo “Sull’infantilismo di sinistra e lo spirito piccolo borghese” Lenin spiegò: “A noi – partito del proletariato – non resta altra strada che acquisire la capacità di organizzare la produzione su larga scala sul modello dei Trust, così come sono organizzati i Trust, se non acquisendola dai migliori esperti del capitalismo”. Il 4 febbraio del 1919 presentò una risoluzione al Consiglio dei Commissari del popolo, nella quale affermava che: “Il Consiglio dei Commissari del popolo... considera, da un punto di vista generale e in linea di principio, ammissibile addivenire a concessioni nei confronti di rappresentanti del capitale straniero nell’interesse di sviluppare le forze produttive del paese...”. La differenza, naturalmente, consisteva nel fatto che non vi potessero essere dubbi sulla natura dell’Unione sovietica del 1918-19, ovvero uno Stato operaio sano – o quanto meno relativamente sano – , e quindi tali concessioni sarebbero state usate per rafforzare e non per indebolire lo Stato operaio.

Dobbiamo ricordare anche che fu il ritardo della rivoluzione mondiale a costringere i bolscevichi a scendere a questi compromessi, accettabili fintanto che il potere statale fosse rimasto nelle mani della classe operaia e che tale Stato mantenesse il controllo delle leve fondamentali dell’economia. Ad ogni modo, il problema era che i capitalisti stranieri erano ben lungi dal considerare possibili accordi economici con la Russia dei soviet. Piuttosto erano inclini a distruggerla. Nel caso della burocrazia cinese la questione si poneva diversamente perché con quella casta privilegiata i capitalisti potevano tranquillamente scendere a patti, tanto che persino l’arcireazionario Nixon non si faceva problemi di sorta a firmare accordi con la burocrazia cinese.

Dopo la morte di Mao l’idea di aprire i confini del paese agli investimenti stranieri prese quota nella casta dirigente e Deng Xiaoping ne divenne l’interprete più autorevole. La parte decisiva della burocrazia aveva tratto la conclusione che l’autarchia avesse fallito il suo scopo, che la Cina non avrebbe potuto svilupparsi nell’isolamento.

Deng era stato già segretario generale del partito, ma era stato rimosso dal suo incarico durante la “Rivoluzione culturale”. Nel gennaio del 1974 però era di nuovo nel Politburo. Prima di essere spogliato di nuovo di tutte le sue posizioni di potere Deng era stato non solo primo ministro, ma vice-presidente del partito e capo del Comando supremo militare, il secondo uomo nella gerarchia dopo Mao. Nonostante il suo alto rango nella scala gerarchica fu denunciato come “mostro”, il capo di una cospirazione controrivoluzionaria portatrice di “politiche capitaliste”. È degno di nota il fatto che egli, in tali circostanze, fu in grado di mantenere la sua affiliazione al partito. Di norma chiunque fosse caduto in disgrazia con Mao sarebbe stato espulso o avrebbe avuto una sorte anche peggiore. Ciò non avvenne nel caso di Deng perché egli godeva di un notevole appoggio all’interno dell’apparato. Con il senno di poi potremmo ipotizzare perfino che godesse dell’appoggio dalla maggioranza della burocrazia – perlomeno nelle alte sfere – ma che tale appoggio non potesse palesarsi apertamente a causa della posizione presa da Mao.

Il diffuso sostegno per Deng tra le fila della burocrazia fu confermato dopo la morte di Mao. La “Banda dei quattro”, tra i quali figurava la stessa vedova di Mao, intendeva giocare ancora con l’idea della “Rivoluzione culturale”, ma l’orientamento reale dell’ala dominante della burocrazia era molto chiaro. La “Banda dei quattro” fu arrestata il 6 ottobre del 1976 e non riuscì mai più a conquistare di nuovo posizioni di potere, mentre Deng emerse come leader del partito nel 1978.

In questo periodo affondano le radici della situazione attuale. Il dibattito nel partito comunista sulla necessità di aprire l’economia agli investimenti stranieri cominciò nel 1977-78. La fazione di Deng coniò l’espressione “Socialismo di mercato” per sintetizzare la loro proposta. Argomentarono che l’era di Mao aveva lasciato l’economia nel caos. Ciò non rispondeva completamente al vero perché – nonostante i continui sconvolgimenti – per oltre 25 anni l’economia era cresciuta ad un ritmo molto sostenuto.

Ciò che rimaneva vero è che, nella misura in cui l’economia si faceva via via più complessa, il sistema di comando burocratico cominciava ad evidenziare i suoi limiti. Così come nel caso dell’Urss, si mostrava una crescente mancanza di coordinamento tra i diversi settori, livelli d’investimento squilibrati, produzione eccedente di alcuni beni e scarsa di altri. Si diffondevano corruzione, balordaggine, sabotaggio, sprechi e caos su vasta scala. La produttività nell’industria era in declino. Tendenze inflattive, scarsità di prodotti di largo consumo e malcontento sociale completavano il quadro di crisi.

Tutto ciò cominciava a produrre un effetto sui bisogni dei lavoratori e dei contadini, che mostravano segni d’irrequietezza. Questi problemi avrebbero potuto essere risolti con l’introduzione di un vero controllo operaio e della gestione da parte dei lavoratori dell’economia, ma perché ciò fosse possibile sarebbe stata necessaria una rivoluzione politica; la burocrazia avrebbe dovuto essere scalzata dal potere. La casta dirigente però non avrebbe rinunciato ad esso così facilmente. Il punto di vista di Deng, e del settore della burocrazia che rappresentava, era che per sviluppare le forze produttive e dare impulso alla produttività fosse necessario ricorrere a stimoli di mercato.

Sebbene avessero già superato in termini di produzione assoluta paesi come la Gran Bretagna, per quanto riguardava gli indici di produttività sia la Cina sia l’Urss si trovavano ad arrancare molto dietro all’occidente capitalista. In Russia la crisi si era già manifestata con una significativa diminuzione della crescita. Deng comprese la necessità di introdurre le tecnologie più avanzate nell’economia cinese. Un tale risultato sarebbe stato possibile solo aprendo il paese agli investimenti stranieri e partecipando direttamente al mercato mondiale.

Se il potere statale fosse stato nelle mani dei lavoratori essi avrebbero potuto neutralizzare le tendenze favorevoli alla restaurazione del capitalismo, ma il potere lo deteneva la burocrazia; in questa situazione l’introduzione di incentivi capitalisti pose il reale pericolo di una distruzione totale dell’economia pianificata nel medio termine.

Non dobbiamo però avere un approccio meccanicistico a tale questione. Sarebbe facile col senno di poi affermare che fin dall’ascesa al potere di Deng nel 1978 la burocrazia aveva chiaro l’obiettivo dell’introduzione del capitalismo, ma ciò sarebbe sbagliato. La burocrazia procede empiricamente, rispondendo alle necessità del momento dato. Perfino nella Russia stalinista vi furono periodi di estrema apertura alle forze del mercato e decentralizzazione, seguiti da periodi di ricentralizzazione. Si trattava di tentativi di far ripartire l’economia. La burocrazia era cosciente del fatto che, se non fosse stata in grado di sviluppare i mezzi di produzione, la sua stessa posizione privilegiata sarebbe stata messa a rischio.


1978: la svolta di Deng


Fu tale valutazione a condurre il Partito comunista cinese alla fine degli anni ‘70 alla conclusione che fosse necessario aprire agli investimenti stranieri. Nel dicembre del 1978 si tenne il terzo Plenum del Pcc, dove avvenne la discussione sulla nuova svolta. In quella occasione venne convenuto che, sebbene la pianificazione centralizzata dovesse restare il tipo di economia dominante, sarebbero stati introdotti elementi di decentralizzazione e sarebbe stata incoraggiata la formazione di imprese private. L’idea era che l’introduzione delle forze di mercato avrebbe assicurato il conseguimento dei bisogni dell’economia.

Questo orientamento portò Deng a suggerire nel 1979 la definizione di quattro zone economiche speciali attorno ad Hong Kong e Macao, nelle provincie di Guangdong e Fujian sulla costa meridionale. Tali zone sarebbero state aperte agli investimenti stranieri. All’inizio furono poste restrizioni molto strette sui livelli e le tipologie d’investimento ammessi ai capitalisti stranieri. Questo fatto prova quanto abbiamo sostenuto sopra, che perfino il settore vicino a Deng concepiva queste misure come mezzi per modernizzare le forze produttive, fermo restando il piano centrale e la natura statalizzata dell’economia. Nel primo periodo furono molto cauti e fecero concessioni molto limitate.

Proprio a causa delle restrizioni imposte, le quattro zone speciali non ottennero il successo sperato, perciò nel 1983 molte limitazioni vennero attenuate e, per esempio, furono ammesse le imprese pienamente controllate dal capitale straniero. Qui vediamo l’empirismo della burocrazia e l’assenza di un “piano” predeterminato. Però, appena la burocrazia si incamminò su questa strada, gli eventi cominciarono ad evolversi secondo una propria logica. Divenne via via sempre più difficile imporre una volontà esterna alle forze del mercato. Se davvero si voleva che i capitalisti investissero i loro capitali, si dovevano creare condizioni per loro allettanti.

Mentre si dava il via alle zone economiche speciali, un processo parallelo si andava sviluppando nel settore agricolo. Il vecchio sistema collettivistico veniva smantellato per far posto alla logica della produzione privata. Vennero date terre in “affitto” alle famiglie. Da un punto di vista legale la terra rimaneva di proprietà statale (e tale resta ancora oggi)ma in pratica era come se fosse stata privatizzata. Per esempio la terra in “affitto” poteva essere passata alla propria discendenza. Ciò rese possibile alla fine degli anni ‘80 che gli affittuari vendessero addirittura il proprio diritto allo sfruttamento della terra o lo passassero per via ereditaria.

Emerse una differenziazione tra i contadini, con alcuni che si arricchivano mentre altri perdevano la loro fonte di sussistenza e quindi si trovavano costretti ad emigrare verso le città. La crescita della produttività nell’agricoltura procedeva di pari passo con l’impoverimento di un largo settore tra i contadini, che garantiva un crescente flusso di manodopera a basso costo, la base necessaria per lo sviluppo del capitalismo nelle città.

Tutto ciò presentava delle somiglianze con quanto era avvenuto in Russia dopo il 1861, con la dissoluzione della Mir, l’antica comune agricola. Mano a mano che le comuni si disgregavano i contadini presero ad emigrare verso le città fornendo la forza-lavoro necessaria allo sviluppo del capitalismo tra il 1880 e il 1912. Il processo cinese odierno però è di una scala di molto maggiore rispetto a quanto si era registrato in Russia. Vi sono similitudini anche con il processo in atto ai primordi del capitalismo britannico, con la brutale espulsione dei contadini dalla terra costretti a lasciare i villaggi per andare a vivere in condizioni atroci nelle città, oppure con il periodo dell’espansione verso il selvaggio West del capitalismo Usa. Quanto vediamo in Cina presenta elementi comuni a tutti questi esempi storici, ma non ha precedenti sia per le sue proporzioni, sia per la sua velocità.

Una delle prime misure che il regime cinese introdusse per cercare di attrarre gli investimenti stranieri è stata la creazione di un “mercato del lavoro”. Quindi vennero varate una serie di riforme che permettevano ai manager di alcune imprese statali di porre fine ai rapporti di lavoro fino a quel momento a tempo indeterminato dei loro dipendenti. Si affermò il concetto che i lavoratori potevano essere licenziati.

Alcuni anni dopo, nel 1983, lo Stato si spinse ancora oltre. Le imprese statali avrebbero potuto assumere lavoratori con contratti a termine. Il nuovo sistema implicava che i lavoratori inquadrati con i nuovi contratti sarebbero stati esclusi dall’assistenza sociale che finora era stata garantita ai lavoratori statali. Nel 1987 i lavoratori neo assunti con questi contratti erano 7.5 milioni e ad altri 6 milioni era stato convertito il rapporto di lavoro in contratti a termine.

Nello stesso periodo la forza lavoro impiegata nel settore privato cominciò a crescere. Appena 250mila nel 1979, divennero 3.4 milioni nel 1984, principalmente in imprese di dimensioni minuscole. Inizialmente era previsto un limite massimo di lavoratori che potevano essere impiegati dalle imprese private, ma nel 1987 venne abolito. Per completare il quadro, venne permessa una forma mascherata di impresa privata nella forma dei cosiddetti “Collettivi urbani” o “Imprese di città e villaggio”, che erano controllate o dipendevano dalle municipalità locali, ma erano società a scopo di lucro, quindi operavano come imprese capitaliste. Dello sviluppo di questo tipo di imprese parleremo più avanti.

Nonostante questi cambiamenti il settore statale, per tutto questo periodo, continuò a dominare e a guidare i processi economici fondamentali. Alla metà degli anni ‘80 il settore statale impiegava ancora il 70% della manodopera nelle città, ma lo status di molti di questi lavoratori però stava cambiando con la diffusione dei contratti di lavoro a termine.

La chiusura di aziende statali comportò la comparsa del fenomeno, prima sconosciuto, della disoccupazione. Non appena vennero introdotte le prime “riforme di mercato” l’inflazione cominciò a decollare, provocando un diffuso malessere sociale. Per paura delle conseguenze politiche di questo malessere, nel 1981, il regime decise di rallentare il processo, una linea che si è confermata ogni volta si è prospettata una crisi all’interno di questo processo, ma in tutte le occasioni la burocrazia – dopo un’iniziale rallentamento per stabilizzare la situazione – decise di proseguire accelerando il processo. Non vi è stata mai un’inversione di rotta.

Nel 1982 il Partito continuava ad affermare la centralità del settore statale. In quel momento eravamo ancora nel contesto di una burocrazia di uno Stato operaio deformato che ricorre a metodi capitalisti per sviluppare l’economia nel suo complesso. Nel corso del 1984 vediamo una nuova accelerazione nella direzione di garantire una maggiore libertà di movimento per uno sviluppo di tipo capitalista. Una sempre maggiore enfasi veniva posta sulla produzione privata e sul mercato. I prezzi della maggior parte dei prodotti agricoli e di consumo furono liberalizzati, rendendo da quel momento in poi il mercato sovrano nella determinazione dei prezzi delle merci.

Il dodicesimo congresso del Partito comunista tenutosi nello stesso anno introdusse l’idea di una “economia pianificata di mercato” . In questa definizione vediamo espressa anche nella terminologia usata dal regime l’incipiente contraddizione tra economia pianificata e capitalismo. L’area coperta dalle zone economiche speciali fu allargata aggiungendo 14 altre città della costa. Un anno dopo vennero aggiunte le regioni del delta di tre fiumi importanti come lo Yangtze, il Min e il Fiume bianco. Quasi tutta la lunga zona costiera della Cina fu aperta agli investimenti esteri.

Il processo continuò ad accelerare nel 1986 con l’introduzione di un nuovo pacchetto di misure volte a facilitare ulteriormente gli investimenti stranieri: riduzione delle imposte, maggiore libertà di assumere e licenziare, accesso più facile alla valuta straniera. Queste misure furono accompagnate da molti altri cambiamenti: l’abolizione del sistema egualitario dei salari, abolizione del lavoro a tempo indeterminato, livelli salariali legati alla produttività e diffusione dei contratti di lavoro a termine, tutte cose familiari per i lavoratori occidentali.

Al tredicesimo congresso del Partito nel 1987 vennero approvate altre proposte per sviluppare una “economia orientata all’esportazione”. La crescita della capacità produttiva richiedeva l’importazione di macchinari e di altre merci, così alla metà degli anni ‘80 si registrò un netto aumento del deficit commerciale cinese, combinata con una ulteriore esplosione delle tendenze inflattive. Nel biennio 1988-89 il tasso annuale d’inflazione si attestò al 18% e di conseguenza il potere d’acquisto reale delle famiglie operaie subì un duro colpo.

L’instabilità sociale da ciò indotta costrinse il regime ancora una volta a rallentare il processo. Alla fine del 1988 il regime dovette frenare l’applicazione delle cosiddette “riforme” e, in un tentativo di riportare l’inflazione sotto controllo, ridusse la circolazione monetaria, ma questo provocò un fenomeno del tutto nuovo per l’economia cinese, che entrò in recessione nel 1989. Il crescente malessere sociale finalmente eruppe in un’ondata di scioperi. In questo contesto scoppiò il movimento di protesta che ruotava attorno a piazza Tien An Men a Pechino.

Che cosa rappresentò il movimento di piazza Tien An Men? Non c’è dubbio alcuno che gli elementi caratteristici della rivoluzione politica erano presenti in modo chiaro nel 1989. Gli studenti scesero in lotta in massa al canto dell’Internazionale, per rendere chiaro al regime e all’opinione pubblica internazionale: “Guardate – non siamo a favore del capitalismo, non siamo dei controrivoluzionari”.

Quella che era iniziata come una protesta studentesca e della gioventù cominciò a coinvolgere i lavoratori. Questa prospettiva terrorizzò il regime e convinse l’ala stalinista a schiacciare il movimento nel sangue. Grazie a questa brutale repressione il regime si assicurò il mantenimento di un ferreo controllo sulla società. Alcuni potrebbero chiedersi quando avvenne il cambiamento qualitativo nel processo di restaurazione capitalista. Dato che stiamo esaminando un processo di lunga durata che attraversa un periodo lungo trent’anni non è possibile fissare un unico punto di svolta, semmai di una serie di eventi che hanno contribuito ad accelerare il processo o, più correttamente, di una serie di punti di svolta. Uno di questi fu senza dubbio Tien An Men.

Dopo la repressione delle proteste di piazza Tien An Men il pendolo si mosse verso destra. Il movimento aveva risvegliato le speranze di molti lavoratori e della gioventù, ma le masse furono sconfitte. Dopo Tien An Men il regime non diede tregua a nessuno dei dirigenti della lotta, molti dei quali scomparvero o trascorsero molti anni in galera. Allo stesso tempo il ritmo di applicazione delle riforme di mercato subì un rallentamento temporaneo per tentare di stabilizzare la situazione, ma non appena la burocrazia sentì di avere di nuovo la situazione in pugno, il movimento verso il capitalismo ricominciò a ritmo serrato.

Dobbiamo anche tenere in considerazione cosa stava avvenendo nel frattempo nell’Urss e nell’Europa dell’Est. Nel corso del 1989 tutti i regimi stalinisti dell’Europa orientale crollarono uno dopo l’altro. La burocrazia perse completamente il controllo e così la transizione al capitalismo si affermò in modo caotico. L’Urss resistette un po’ più a lungo, ma infine dovette soccombere allo stesso destino, con il crollo del regime stalinista nel 1991. Come abbiamo già detto questi regimi erano talmente marci da crollare senza alcun tentativo di resistenza da parte della casta dirigente. In Russia, dove la prospettiva di una guerra civile era più che possibile, i “falchi” stalinisti si rivelarono così corrotti da non essere in grado di opporre alcuna seria resistenza. Il sistema di cui erano i rappresentanti aveva raggiunto i suoi limiti.

Questi eventi senza dubbio esercitarono una grande influenza sugli orientamenti degli stalinisti cinesi. Fino a quel momento avevano introdotto profonde riforme di mercato, aprendo vaste aree della Cina agli investimenti stranieri, ma il settore statale continuava ad essere dominante – e la posizione del Pcc era che la situazione dovesse restare tale. Le leve fondamentali di controllo dell’economia continuavano a rimanere nelle loro mani. A quel punto il processo avrebbe potuto essere ancora invertito, ma il punto era che la burocrazia non aveva alcun interesse a tornare alla situazione precedente. Come abbiamo già sottolineato nei diversi momenti d’instabilità non venne fatto alcun passo indietro. Il processo venne rallentato ma la sua direzione non fu mai invertita.


1992: “Economia socialista di mercato con particolarità cinesi”


L’effetto combinato della protesta di piazza Tien An Men e del crollo dello stalinismo nell’Europa dell’Est e in Urss ha avuto un impatto profondo sulla casta dirigente cinese. Di fronte a tali sviluppi il Partito comunista decise di accelerare il processo di “riforma di mercato”. Cominciarono a concepire la restaurazione capitalista come la soluzione della propria crisi, ma erano allo stesso tempo determinati a mantenere un saldo controllo sul processo. Ciò implicava che la burocrazia dovesse preparare il terreno al fine di trasformarsi nella nuova classe capitalista.

Il solo fatto che la burocrazia si muovesse in questa direzione non sarebbe stata una garanzia di successo per i progetti di restaurazione capitalista. Una cosa è avere l’intenzione, un’altra raggiungere il risultato. Se l’occidente capitalista fosse entrato in una seria crisi di proporzioni simili al crack del 1929, il processo avrebbe potuto prendere tutt’altra direzione, ma ciò non avvenne. Il boom nei principali paesi capitalisti fu prolungato a causa di una serie di fattori che abbiamo analizzato a fondo in altri documenti. La crisi è stata rimandata per un periodo a costo di accumulare nuove contraddizioni che prepareranno una crisi più profonda nel futuro, ma la burocrazia cinese non lo capisce, non ha una comprensione marxista di questo processi e reagisce su basi totalmente empiriche. Il capitalismo stava attraversando un boom su scala mondiale mentre lo stalinismo crollava e questo era tutto ciò che potevano vedere .

Le conclusioni tratte dalla burocrazia vennero sancite nel 1992, in occasione del XIV congresso del Partito. L’idea che il settore statale dovesse dominare venne ufficialmente abbandonata. Venne annunciato il piano di costruire una cosiddetta “economia socialista di mercato con particolarità cinesi”. Lo stesso anno Deng lanciò un nuovo corso nel “programma di riforme”. Nel corso di una visita ufficiale alla zona speciale di Shenzen tenne il famoso discorso in cui sanciva la svolta avvenuta all’interno del regime: “Fino a quando si fanno i soldi va bene per la Cina”.

I meccanismi di mercato stavano già funzionando da tempo in Cina. La svolta del 1992 consisteva nell’abbandono ufficiale dell’impegno della burocrazia di mantenere la posizione dominante del settore statale. Fino a quel momento lo sviluppo del settore privato era avvenuto in modo parallelo a quello del settore statale. Ora era stata presa la decisione di andare nella direzione di una privatizzazione delle imprese di proprietà pubblica. Vennero individuate 2500 imprese pubbliche a carattere locale e 100 a carattere nazionale come primo lotto di questa conversione. Entro il 1998 il piano fu completato.

Nel corso del 1994 il programma fu esteso. Al di fuori di una lista di 1000 tra le principali imprese che avrebbero dovuto continuare ad essere statali, tutte le altre furono rese disponibili alla vendita o alla privatizzazione della loro gestione. Alla fine degli anni ‘90 le imprese statali impiegavano 83 milioni di persone, ma questa cifra era solo il 12% del totale della forza lavoro, il 30% nelle zone urbane. Per comprendere il drastico rovesciamento di questo rapporto basta dare uno sguardo alla cifra dell’impiego in imprese statali nelle città che era pari al 78% del totale.

Alla fine degli anni ‘90 la proporzione del Prodotto interno lordo (Pil) proveniente dalle imprese statali era crollata al 38%. Nel settembre del 1999 al quarto Plenum del XV congresso del Pcc venne annunciato un passo ulteriore. La politica del “lasciare che le cose facessero il loro corso” , in altre parole lo Stato avrebbe allargato le proprie maglie rinunciando al controllo sulle imprese. Il primo passo fu nelle imprese statali di piccole e medie dimensioni. Nel luglio del 2000, per esempio, il governo della città di Pechino, che amministra una vasta area di territorio, annunciava che la proprietà statale e collettiva sarebbe stata eliminata gradualmente in tutte le compagnie di proprietà dello Stato di piccole e medie dimensioni nell’arco di tre anni. Già nel 2001 le imprese statali impiegavano solo il 15% della manodopera industriale totale e meno del 10% degli occupati nella distribuzione commerciale nazionale.

L’economia cinese uscì indenne dal crack delle borse del sud-est asiatico, in parte perché esisteva ancora un certo grado di controllo statale del commercio estero e perché la valuta non era convertibile. Questi due fattori protessero la Cina dagli effetti di quella crisi. Anzi ne uscì rafforzata e assunse un ruolo dominante nella regione. Nel periodo successivo, tra il 1998 e il 2001 il processo subì una ulteriore accelerazione. La direzione del processo era ormai molto chiara. La gerarchia del Partito comunista si era convinta completamente che le imprese private fossero più efficienti di quelle statali. L’unica forma di proprietà pubblica che potevano concepire era quella che esisteva sotto il piano burocratico, con tutti i problemi di gestione che conoscevano bene. Non potevano neppure immaginare imprese statali rese efficienti dal controllo operaio.

Alcune cifre interessanti sono fornite dallo studio intitolato China’s Ownership Transformation (La trasformazione dei rapporti di proprietà in Cina), pubblicata nel 2005, che citiamo nei paragrafi successivi. Il documento è stato scritto da Ross Garnaut, Ligang Song, Stoyan Tenev e Yang Yao della International Finance Corporation, della Università nazionale australiana, del Centro di ricerche economiche cinese e dell’Università di Pechino pubblicata dalla International Finance Corporation, un istituto della Banca mondiale, e consultabile su internet cliccando qui

Gli autori sottolineano che la privatizzazione cominciò in modo spedito nel 1992. In relazione al 1995 lo studio riferisce che: “Lo Stato decise di mantenere il controllo di 500-1000 grandi imprese pubbliche e di permettere la gestione privata o la vendita di quelle più piccole”. La ragione individuata per tale scelta era buona, e cioè che nel 1997 le 500 maggiori industrie statali – molte delle quali erano controllate dal governo centrale – detenevano il 37% del patrimonio industriale statale, fornivano ingenti rimesse economiche per lo Stato, e così via.

In relazione al periodo in cui la burocrazia aveva impresso una grande accelerazione a tutto il processo, lo studio spiega che: “la tendenza rifletteva la convinzione che per trasformare veramente un’impresa sarebbe stato necessario che i manager possedessero la maggioranza delle azioni”. Nella migliore tradizione cinese lo slogan a quel punto divenne: “Lo Stato si ritira e il settore privato avanza”. Coniarono lo slogan per far penetrare il messaggio nella coscienza della massa della popolazione.

Molte cifre vengono fornite per leggere quantitativamente il processo e mettere l’accento sul suo carattere accelerato. Per esempio si spiega che: “Se questa performance può essere presa ad esempio per il resto del paese [riferendosi ad un campione di sei città], la privatizzazione in Cina si è già spinta più avanti che in molti dei paesi dell’Europa orientale e dell’ex Urss”.

Ad ogni buon conto, non si tratta del semplice processo di svendita, né si tratta semplicemente di guardare alla percentuale di proprietà statale e privata (anche se in ultima analisi questo è un fattore decisivo). Non si tratta solo di calcolare quanto sia nelle mani dello Stato, ma anche in che modo quel settore che rimane allo Stato funzioni e per quali scopi. Altrettanto importante deve essere la valutazione complessiva della direzione del processo, e non vi è dubbio alcuno che essa sia stata inesorabilmente nella direzione del capitalismo.

Comunque, nel processo di trasformazione capitalista non sono ancora riusciti a sviluppare una borghesia che sia in grado di gestire autonomamente, cioè senza l’aiuto dello Stato, grandi compagnie della stessa scala delle grandi multinazionali giapponesi o statunitensi. Lo Stato continuerà a giocare un ruolo chiave per un certo periodo, ma alla fine emergerà una potente borghesia.

La burocrazia ha svenduto la maggior parte delle imprese di piccola o media dimensione e allo stesso tempo ha incoraggiato lo sviluppo di compagnie private che mai erano state di proprietà statale. In questo momento 450 tra le principali 500 multinazionali operano in Cina. Un importante elemento nell’equazione è che il settore privato si è sviluppato ad un ritmo più veloce rispetto al settore pubblico e, se guardiamo da vicino cosa è rimasto del settore statale, vediamo che parte di esso è stato preparato per ulteriori privatizzazioni. Grandi conglomerati pubblici sono stati spezzettati in numerose aziende per chiudere i settori più inefficienti e vendere quelli capaci di generare un profitto.

I manager delle imprese statali sono attivamente impegnati nello smantellamento del patrimonio pubblico. Lavorano per garantire ai loro amici nel settore privato i migliori macchinari, le parti migliori, mentre allo stesso tempo lasciano affondare le compagnie che gestiscono. Quello che questi manager pensano è: “questa fabbrica presto o tardi sarà privatizzata e ci verrà offerto di rilevarla”. Così lavorano incessantemente per ridurre il valore delle compagnie per poterle comprare più a buon mercato. In molte città le autorità locali hanno deciso che il modo migliore di far funzionare una compagnia è di svenderla ai manager per fermare il loro saccheggio, con l’idea che appena i manager dovessero acquisire la compagnia ne useranno il patrimonio per svilupparla e poter così a loro volta raccoglierne i profitti.

In tutto ciò i lavoratori hanno pagato un prezzo salato, con la perdita di milioni di posti di lavoro. Tra il 1999 e il 2000 sono stati distrutti 30 milioni di posti di lavoro nel settore statale. Gli insediamenti industriali storici, nella parte nord orientale – il cuore del vecchio piano statale cinese – si sono trasformati in quella che viene chiamata la “Cintura della ruggine”. Quelli che hanno mantenuto il posto di lavoro hanno visto andare in fumo il loro tenore di vita. Nell’arco di alcuni anni tutte le conquiste della rivoluzione del 1949 sono state spazzate via. Certo non è mancata una resistenza della classe operaia, ma la burocrazia ha spinto in maniera implacabile.

Il libero mercato è stato introdotto nella sanità, nell’edilizia residenziale, nel lavoro stesso. Ora persino la scuola è a pagamento: Già nei primi anni ‘90 esistevano forti elementi di capitalismo. Nel 1992 il 40% del venduto proveniva dal settore privato. Nel 1991 esistevano 13 milioni di industriali privati che impiegavano 21 milioni di lavoratori – In larga misura si trattava di imprese minuscole, ma non era che l’inizio. Nei villaggi vennero fatte concessioni ai contadini più ricchi: la possibilità di affittare la terra e di vendere i prodotti direttamente sul mercato. Ciò portò alla disgregazione dei collettivi e produsse una ulteriore differenziazione tra contadini ricchi e poveri. Nel 1998 esistevano ancora 238mila compagnie statali, ma già nel 2003 questa cifra si è ridotta a 150mila.


Le “Town and Village Enterprises” (TVEs)


Come si è già detto, un altro elemento dello sviluppo capitalistico è stata la crescita delle società dette “Town and Village Enterprises” (letteralmente Imprese di Città e Villaggio, TVEs). Queste hanno un peso del 30% sul PIL ma la loro natura, ricca di contraddizioni, non è sempre chiara. In precedenza per i burocrati sarebbe stato impossibile privatizzare queste imprese senza provocare un caos politico ed economico. Privatizzare tutto e subito avrebbe semplicemente significato la chiusura o il fallimento di molte imprese ed interi settori e per il PCC la fine del suo dominio.

L’introduzione delle TVEs è stato quindi una tappa lungo il cammino di privatizzazione totale. Permette a manager e altri settori parassitari della società di guadagnare tempo e accumulare capitali per impadronirsi di queste imprese. Ecco un esempio chiaro di come le vecchie imprese e tutti i settori di proprietà statale facciano gli interessi del capitalismo in Cina, alimentando e dando supporto ai nascenti elementi borghesi nella società finché questi non sono in grado di assumere un controllo diretto. In certi casi le TVEs sono aziende municipalizzate, in altri joint ventures con capitali privati. In ogni caso, funzionano tutte come imprese capitalistiche e, poco a poco, stanno finendo tutte nelle mani di capitalisti privati.Le TVEs sono talvolta incluse nelle statistiche per poter dire che la maggior parte dell’economia è in mani pubbliche, e alcuni le definiscono addirittura una forma di “socialismo”. Ma uno sguardo più attento rivela un quadro differente. Le TVEs sono passate dagli 1,5 milioni del 1987 ai 2,5 del 1993, quando impiegavano 123 milioni di lavoratori, ma a partire dal 1996 il loro numero è andato sempre diminuendo con la loro privatizzazione. Anche quando si tratta di aziende statali o municipali, esse funzionano esattamente come quelle private, dove la direzione può liberamente licenziare ed assumere mano d’opera. Hart-Landsberg e Burkett parlano di studi secondo cui “…mediamente i lavoratori di queste imprese hanno salari di base più bassi rispetto ai minimi stabiliti e devono compensare attraverso straordinari e bonus per il lavoro a cottimo. Ma perfino questi salari di base sono tutt’altro che garantiti poiché i minimi sono stabiliti dalle autorità locali i cui interessi – sia istituzionali che privati – sono rivolti alla massimizzazione del profitto. Inoltre, la “competitività e i margini di profitto” delle TVEs “poggiano pesantemente sull’offerta di lavoro nero e sottopagato reso disponibile dalla dissoluzione del sistema comunitario e dall’impoverimento delle singole famiglie contadine.” (China and Socialism – Market Reforms and Class Struggle, pagina 45)

Il destino delle TVEs era legato a doppio filo ai processi economici globali in corso. In particolare esse dovevano adattarsi ad uno scenario in cui il settore privato diventava predominante. Gli stessi autori spiegano che “ugualmente devastante per le TVEs è stato il fatto che, con nuove opportunità di profitto nel settore privato, molti loro manager hanno cominciato a trasferire illegalmente patrimoni o produzioni delle TVEs ad imprese private in grado di garantire loro maggiori guadagni. Questa vera e propria spoliazione è aumentata a metà degli anni ’90 quando il partito permise la privatizzazione di piccole imprese statali. Davanti al declino dei profitti e alla deindustrializzazione, gli amministratori locali, pressati dai tagli imposti dallo stato, cominciarono agli inizi del 1996 una rapida svendita di TVEs.” (ibid).


Usare lo stato per costruire un forte capitalismo cinese


La burocrazia cinese non vuole diventare una facile preda per la dominazione imperialista. E sta facendo di tutto perché ciò non accada. Sa di dover mantenere un forte settore capitalista cinese, e si muove sviluppando e rafforzando alcune compagnie statali. Ha grande disponibilità di capitali. Le banche pubbliche sono state usate per pompare denaro verso queste imprese statali.

Secondo gli autori di China’s Ownership Transformation (La trasformazione della proprietà in Cina), “in Cina si sono sviluppate oltre 20 grandi aziende e multinazionali che si sono dimostrate competitive sui mercati internazionali. Alcune di queste compagnie stanno licenziando decine o centinaia di migliaia di dipendenti, non perché siano in difficoltà finanziarie, anzi alcune di esse scoppiano di salute, ma perché vogliono posizionarsi al meglio sullo scenario internazionale. Nel 2002 le 12 principali aziende transnazionali cinesi, per lo più di proprietà statale, disponevano di oltre 30 miliardi di dollari in patrimoni esteri, avevano circa 20.000 dipendenti fuori dal paese, e ricavavano 33 miliardi di dollari dalle vendite su mercati esteri.”

Così, benché di proprietà statale, queste società competono, come importanti grandi aziende cinesi, con quelle statunitensi, giapponesi, ecc…su basi capitalistiche. Il documento citato fornisce una tabella intitolata Composizione del PIL cinese in rapporto ai modelli di proprietà. Si vede che già nel 1988 il settore controllato dallo stato contribuiva al PIL per meno del 41%. Nel 2003 questo dato era sceso al 34%. Nello stesso periodo quello che chiamano “Vero settore privato” era passato invece dal 31 al 44%. Ma se consideriamo il settore più generale di tutto ciò che non è statale, questo contava nel 2003 per il 66% del PIL. Da ciò il documento conclude che “il settore privato è ora quello dominante nell’economia cinese”. E continua “ la quota del settore privato è ancora più grande considerando che una percentuale significativa di fattorie collettive sono in realtà gestite privatamente e che quello privato è generalmente più produttivo di ogni altro settore economico”.

Abbiamo già visto da altre parti fenomeni di questo tipo, sia pure su scala ridotta. In Corea del Sud lo stato ha sviluppato grandi multinazionali, senza per questo essere considerato né uno stato operaio deformato, né uno stato in fase di transizione. In realtà stiamo parlando solo di un capitalismo debole, che doveva necessariamente confidare sullo stato per gli investimenti di capitale, essendo la borghesia troppo piccola e debole. Nel contesto cinese vediamo un processo analogo su scala molto più grande. Qui si è creata una borghesia assai più forte, ma che non ha comunque le risorse necessarie per sviluppare ulteriormente le compagnie più importanti, molte delle quali sono ancora di proprietà statale. Insomma è lo stato a governare la Cina, ed è sempre lo stato che si occupa dello sviluppo sia del capitalismo che della borghesia.

Se si analizza l’assetto legislativo cinese, si notano importanti cambiamenti negli ultimi tre o quattro anni atti a sintonizzarne l’ossatura con le nuove relazioni di proprietà. Nel 2004 anche la Costituzione è stata profondamente modificata, enfatizzando il ruolo fondamentale del settore non-statale nell’attività economica cinese e proteggendo la proprietà privata da confische arbitrarie.

Fino a non molto tempo fa, in Cina c’erano leggi che impedivano alle imprese private di operare in settori di pubblica utilità e nei servizi finanziari. Nel 2005, abolendo queste leggi, si è permesso loro di entrare in questi settori. Ciò che sta accadendo ora nel settore bancario. Sono iniziate le privatizzazioni e si permette ai capitali esteri di prendere controllo delle banche. Gli analisti borghesi che scrivono di Cina oggi, si addentrano in dettaglio sulle leggi e assetti legali necessari per comprendere le nuove forme di proprietà. Le considerano come retaggi del passato da rimuovere per facilitare il funzionamento delle imprese private.

In Cina le relazioni di proprietà sono cambiate, ma anche se molto è stato fatto per aggiornare di conseguenza la struttura legale, resistono aspetti del vecchio sistema legislativo. Può nascere un conflitto tra questi e gli sviluppi in corso, perché questo aggiornamento non è automatico. Tuttavia prima o poi questa “sovrastruttura” dovrà coincidere con la base economica. Come Karl Marx ha evidenziato nel 1859 nella prefazione a “Per la critica dell’economia politica”:

“Ad un certo stadio di sviluppo, le forze produttive materiali nella società entrano in conflitto con i rapporti di produzione esistenti o – esprimendo lo stesso concetto in termini legali – con i rapporti di proprietà all’interno della struttura sociale in cui hanno operato fino a quel momento. Questi rapporti si trasformano da elementi di sviluppo delle forze produttive in catene che le imprigionano. Comincia quindi un’epoca di rivoluzione sociale. Radicali cambiamenti della struttura economica conducono prima o poi alla trasformazione di tutta l’immensa sovrastruttura.” [sottolineatura nostra]

In Cina, piuttosto che con una rivoluzione, abbiamo a che fare con una controrivoluzione. Tuttavia il punto di vista di Marx resta valido. Se i rapporti di proprietà cambiano, la sovrastruttura legislativa deve adeguarsi rapidamente. Così possiamo aspettarci che questo processo di allineamento alla realtà economica continuerà velocemente. Benché esistano settori d’opposizione nella burocrazia, “prima o poi” questi due parametri devono essere sintonizzati. Molto è già stato fatto, come testimoniano i cambiamenti costituzionali.


Ingresso nel WTO


Un altro punto di svolta si è avuto nel novembre 2001 quando la Cina decise di aderire all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). Questa questione è fondamentale. Con l’adesione la Cina si è condannata ad abbandonare ogni controllo sul commercio estero nel giro di cinque anni, e su questa strada si è proseguito passo dopo passo fino ad oggi. E’ evidente il motivo per cui la Cina ha preso questa decisione. L’attuale economia cinese può sopravvivere solo se si lega a doppio mandato all’economia mondiale. Conta molto sulle esportazioni, perciò è vincolata a trattati internazionali sul commercio. Ha bisogno di entrare a pieno titolo nell’economia globale. E questo a sua volta non fa che accelerare il processo di trasformazione in senso capitalista della società cinese.

L’abbandono del controllo statale sul commercio estero è un elemento centrale nell’apertura cinese al mercato mondiale. Ci permettiamo di ricordare un punto chiave del programma bolscevico – che Trotsky difese strenuamente contro Stalin e Bucharin – cioè la necessità, per uno stato operaio isolato in un contesto capitalistico, del monopolio statale sul commercio estero, a maggior ragione in un paese sottosviluppato.

Bucharin sostenne che lo sviluppo economico doveva permettere l’arricchimento di un settore contadino. Perciò riteneva che gli incentivi materiali potessero produrre effetti positivi su efficienza e produttività. Bucharin tuttavia non sapeva a cosa potesse portare il cammino intrapreso seguendo quest’idea. Non considerò la sua posizione come un ritorno verso rapporti capitalistici. Ma se questa linea avesse prevalso ci sarebbe stato in Unione Sovietica un ritorno al capitalismo ben prima del 1928. Anche a quel tempo le pressioni del capitalismo erano molto forti. Ci sono paralleli da fare tra Deng e Bucharin. I loro stessi linguaggi sono simili. Deng coniò lo slogan “Arricchirsi è glorioso”, Bucharin il più sintetico “ Arricchitevi!”

Il monopolio statale sul commercio estero era sostanzialmente una misura protettiva contro le ingerenze esterne e le incursioni del capitalismo. Se si guarda alla storia del capitalismo nei paesi avanzati, si nota come il protezionismo sia stato usato in certi periodi per proteggere i mercati interni mentre il libero commercio è assurto a nuovo paradigma borghese solo in un periodo successivo. Anche la borghesia britannica ha salvaguardato il suo mercato interno in fase di sviluppo industriale. Ma quando questo processo ha generato un complesso produttivo moderno e competitivo, non c’era più bisogno di protezionismo. A questo punto la sua industria era abbastanza forte per dominare il mercato mondiale. Come Marx e Engels hanno scritto nel Manifesto del Partito Comunista, con riferimento alla borghesia, “ I prezzi bassi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con cui essa abbatte tutte le muraglie cinesi…”

Fino a poco tempo fa la stessa cosa accadeva negli attuali paesi sottosviluppati. Il Pakistan, per esempio, fino a venti anni fa circa aveva predisposto un sistema di dazi e misure protezionistiche. Ultimamente però ci sono stati forti pressioni per l’apertura verso il mercato internazionale. Gli imperialisti impongono a questi paesi politiche a loro convenienti e non possono tollerare misure protezionistiche, anche se contemporaneamente difendono gelosamente le loro produzioni agricole, ecc…. Hanno urgente bisogno di aprire ogni mercato ai loro prodotti.

Ma in Pakistan, diversamente da ciò che accade in Cina, la cosiddetta apertura al mercato ha significato la distruzione di migliaia di industrie e fabbriche. Il livello di sviluppo industriale era troppo basso per resistere alla concorrenza esterna. La Cina però non è il Pakistan e i suoi governanti devono aver pensato “Siamo abbastanza forti, adesso abbiamo una competitività tale da poter affrontare la concorrenza estera.” Ovviamente tutto ciò sta provocando ritorsioni da parte degli USA, dove si prova a far ricorso al protezionismo per difendere il mercato interno dai beni cinesi a basso costo.


Transizione fredda?

 

Che ci sia stata una transizione verso il capitalismo è quindi chiaro, ma come è avvenuta? Non si è trattato di una contro-rivoluzione armata né di uno scontro tra differenti settori della burocrazia. Trotsky utilizzò una volta l’esempio di un film sul riformismo proiettato al contrario, spiegando che perché abbia luogo una controrivoluzione ci deve essere qualche forma di conflitto violento. Solo in seguito sarebbe possibile un ritorno al capitalismo. Voleva dire che il sistema non poteva essere “riformato” verso il capitalismo.

Dobbiamo apprendere la lezione di Trotsky, considerando non solo tesi isolate prese qua e là, ma il metodo utilizzato. Si occupava della Russia negli anni ’30 quando le tradizioni rivoluzionarie erano ancora vive. La classe operaia russa aveva avuto un ruolo centrale nella rivoluzione ed era consapevole di ciò che avrebbe significato un ritorno al capitalismo. Quei lavoratori avrebbero resistito contro la restaurazione del capitalismo. Anche la situazione internazionale influiva sulle spinte interne all’Unione Sovietica. Una parte significativa della burocrazia era interessata a mantenere la pianificazione statale.

In ogni caso lo stalinismo durò in Unione Sovietica per diversi decenni, molto più a lungo di quanto lo stesso Trotsky avesse potuto prevedere, praticamente 70 anni. Cambiamenti quantitativi determinano cambiamenti qualitativi. In quel periodo le tradizioni rivoluzionarie non facevano più parte della coscienza operaia. La generazione che aveva fatto la rivoluzione non c’era più. Le nuove leve potevano vedere solamente una vorace burocrazia ingigantirsi sulle spalle delle masse. Attorno a loro c’erano soltanto pessima amministrazione, sprechi e corruzione ad ogni livello e tutto ciò che veniva loro lasciato in eredità era un sistema ormai prossimo al collasso. Talvolta un regime può essere talmente marcio da avere una classe – o meglio una casta – dominante incapace di resistere alla sia pur minima pressione che il movimento, una volta esploso, può esercitare dal basso.

L’idea che per costruire solide basi per lo sviluppo capitalistico sia necessaria una rivoluzione borghese nasce dall’esperienza delle classiche rivoluzioni borghesi, in Francia nel 1789 o in Inghilterra nel 1640. La borghesia si era sviluppata costruendo la sua crescita dentro i confini del feudalesimo ma adesso doveva travalicarli. La giovane classe borghese condusse la nazione contro l’aristocrazia terriera e abbatté il feudalesimo, creando le condizioni per un moderno sviluppo capitalistico. Ma, una volta sviluppatosi in pochi paesi chiave (Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti), non era possibile che il capitalismo utilizzasse le stesse forme per allargarsi ad altri paesi meno progrediti. Marx notò questo nel caso tedesco, affermando che la borghesia era diventata reazionaria prima ancora di prendere il potere.

I menscevichi non comprendevano questa problematica. Si aspettavano che ogni paese attraversasse le stesse identiche fasi. La Russia era un paese sottosviluppato, caratterizzato dal latifondismo e da una immensa classe contadina. Essi sovrapponevano meccanicamente quanto accaduto in Francia e Gran Bretagna alla situazione russa. Quindi ritenevano che il compito dei comunisti russi dovesse essere quello di sostenere la “borghesia progressista”. Non compresero ciò che Trotsky sostenne con la sua teoria della Rivoluzione Permanente. In epoca imperialista la borghesia nei paesi sottosviluppati non poteva avere lo stesso ruolo giocato nel passato in Francia e Gran Bretagna.

Ecco perché il capitalismo non poteva avere in ogni paese i medesimi meccanismi di sviluppo, vale a dire per mezzo di rivoluzioni con la borghesia alla testa delle masse,. Per esempio né in Giappone né in Germania il capitalismo si è imposto in questo modo. Al giorno d’oggi questi sono due tra i più potenti paesi del mondo. In Giappone fu la burocrazia dello stato feudale, pressata dal capitalismo statunitense, a guidare la transizione al capitalismo, data la debole e logora consistenza della borghesia dell’epoca. Come mai accadde ciò? Perché gli sviluppi a livello mondiale dominano ogni processo. Il futuro del Giappone come nazione potente necessitava di uno sviluppo capitalistico. Ma non essendo la borghesia giapponese in grado di essere all’altezza del suo ruolo nella storia, un’altra classe si è fatta avanti. Anche in Germania furono gli Junkers, appartenenti all’antico apparato di stato feudale, i protagonisti del processo.

Tuttavia, proprio perché non ci furono rivoluzioni, rimasero molti residui dell’antico sistema feudale. In Germania queste contraddizioni si risolsero solo in seguito alla rivoluzione proletaria sconfitta del 1918, che ebbe almeno il merito di terminare l’opera incompiuta dalla rivoluzione borghese. In Giappone ciò accadde grazie alle forze d’occupazione americane dopo il 1945. McArthur premette per una riforma agraria in Giappone per paura dei possibili effetti sulle masse giapponesi della rivoluzione cinese.

In questi casi non c’è stata una “rivoluzione borghese” ma una sorta di transizione “fredda” da un sistema all’altro. Lenin sottolineava che la storia è soggetta ad ogni genere di cambiamento o trasformazione. I processi della vita reale non sempre corrispondono in ogni dettaglio a quanto dicono i libri di testo! Non ci sono rigide regole da seguire per le trasformazioni sociali. Come marxisti dobbiamo esserne consapevoli, per non essere disorientati da eventi che non corrispondono a visioni meccanicistiche e preconcette.

Dobbiamo perciò collocare le idee di Trotsky sulla “transizione fredda” nel contesto storico in cui egli le elaborò. Possiamo anche dire che Trotsky intuì come la burocrazia può rapidamente adattarsi alla restaurazione del capitalismo. Spiegava che in caso di controrivoluzione borghese la nuova classe dominante avrebbe dovuto epurare ben pochi elementi statali a quanto sarebbe necessario nel caso di una rivoluzione politica. Precisamente quanto accaduto con la vecchia burocrazia sovietica quando Eltsin prese il potere, e la burocrazia cinese non è diversa. Le esatte parole di Trotsky nella Rivoluzione Tradita furono:

“Se – come seconda ipotesi – un partito borghese rovesciasse la casta dirigente sovietica, troverebbe non pochi servitori tra i burocrati attuali, tra i tecnici, tra i direttori, tra i segretari del partito, tra i dirigenti in generale. Un ‘epurazione dei servizi dello stato si imporrebbe anche in questo caso, ma verosimilmente la restaurazione borghese dovrebbe licenziare meno gente che un partito rivoluzionario. L’obiettivo principale del nuovo regime sarebbe di ristabilire la proprietà privata dei mezzi di produzione. Dovrebbe anzitutto creare le condizioni per l’emergere di agricoltori forti dai kolchoz deboli e trasformare i kolchoz ricchi in cooperative di produzione di tipo capitalista o in società per azioni. Nell’industria, la denazionalizzazione partirebbe dall’industria leggera e dalle industrie alimentari. Il principio della pianificazione si trasformerebbe nei primi momenti in compromessi tra il potere statale e le singole “corporazioni” cioè i capitani dell’industria sovietica quali suoi proprietari potenziali, i vecchi proprietari emigrati e i capitalisti stranieri. Benché la burocrazia sovietica abbia fatto molto per la restaurazione borghese, il nuovo regime sarebbe obbligato a compiere, sul terreno della proprietà e del modo di gestire l’industria, non una riforma, ma una vera rivoluzione”.

La base sociale dell’Unione Sovietica era quella di uno stato operaio, con un’economia statale pianificata centralmente, e benché si fosse trasformata in un regime borghese, non si sarebbe dovuto epurare molta gente. Questo perché si trattava di elementi già privilegiati, che si sarebbero semplicemente trasformati da burocrati privilegiati di uno stato operaio in servi privilegiati del capitalismo. Viceversa una rivoluzione politica avrebbe imposto a questa gente un salario operaio e ne avrebbe rimosso i privilegi, creando conflitti maggiori. L’attuale situazione russa dimostra che Trotsky aveva ragione.

La sua analisi dell’URSS ci fornisce importanti elementi che ci aiutano a comprendere il processo in atto in Cina. Qui ci troviamo di fronte a una casta privilegiata che, come evidenziato da Trotsky, punta alla proprietà dei mezzi di produzione come garanzia di mantenimento dei propri privilegi.

Molti fattori hanno spinto la burocrazia cinese in questa direzione. Ci fu il boom economico dell’occidente capitalista nel secondo dopoguerra, con tassi di sviluppo delle forze produttive senza precedenti. A seguire la crisi dei regimi stalinisti in Europa orientale e in Unione Sovietica. La tendenza marxista prese nota di ciò all’inizio degli anni ’70. Lo stesso ha fatto la burocrazia cinese. Il tasso di crescita in Unione Sovietica scese al 3%, al 2% e quindi a zero. Il sistema era in fase di stagnazione. Infine l’Europa orientale crollò e due anni dopo crollò anche l’Unione Sovietica, perdendo anche vaste aree del suo territorio.

Questi sono stati elementi importanti nel determinare le posizioni dei burocrati cinesi. Si lanciarono in quella che era sostanzialmente la versione cinese della NEP, cercando di rendere il sistema economico più efficiente e produttivo. Osservavano gli sviluppi mondiali e la situazione complessiva li spingeva in una certa direzione. Proprio al di là del confine con l’Urss vedevano caos assoluto e disastri. Devono avere pensato “non lasceremo che questo accada anche qui. Dobbiamo introdurre metodi di mercato mantenendo però il controllo dell’intero processo”. L’hanno fatto gradualmente, passo dopo passo, ma una volta imboccata questa strada il processo ha assunto una sua propria logica, culminata con l’attuale situazione.

Ora in Cina sono presenti enormi interessi borghesi. La nuova borghesia usa il Partito Comunista per difendere i propri interessi di classe. In queste condizioni può la burocrazia invertire il processo e portarlo a termine con successo? Noi crediamo che si sia superato lo stadio in cui ciò potrebbe accadere senza provocare uno scontro decisivo. Se un’ ala della burocrazia cinese decidesse di incamminarsi su questa strada si scontrerebbe con i settori favorevoli al capitalismo. Una “transizione fredda” a qualche forma di economia burocraticamente pianificata non sarebbe possibile. Ma questa è solo una prospettiva teorica, non essendoci segnali che indichino l’esistenza di posizioni di questo tipo.

Un elemento importante, nell’equazione cinese, sono la dimensione e l’esperienza della classe lavoratrice. Ogni movimento contrario al capitalismo attualmente dovrebbe contare sulla mobilitazione di questa classe operaia che non accetterebbe un ritorno allo stalinismo; piuttosto tenderebbe a muoversi in avanti verso il vero socialismo, verso un vero potere operaio.

Senza dubbio in uno scenario del genere sarebbe coinvolto un settore del partito. Da lettere ed articoli apparsi sulla stampa cinese sembra che ci sia ancora gente nel Partito Comunista Cinese che crede negli ideali rivoluzionari del 1949, che potrebbe quindi essere interessata ad un movimento rivoluzionario della classe operaia ed entrerebbe in conflitto con l’ala dominante, favorevole al capitalismo. Ciò implicherebbe una divisione fra diversi settori con il vertice che difenderebbe le nuove relazioni capitaliste e alcuni degli strati inferiori della burocrazia che verrebbe trascinata dal movimento della classe lavoratrice.

Trotsky fa riferimento all’esistenza di una “frazione Reiss” nella burocrazia russa, vale a dire un’ala che voleva ritornare agli ideali della Rivoluzione d’Ottobre, ad un bolscevismo genuino. Nel 1930 esisteva una frazione del genere. La rivoluzione era un evento ancora recente e molti membri del partito che avevano vissuto il periodo predente alla rivoluzione stessa, notavano la differenza tra stalinismo e l’autentico bolscevismo.

In ogni modo il regime stalinista sopravvisse in Unione Sovietica per decenni. Stalin eliminò gradualmente ogni legame con gli ideali dell’Ottobre. Malgrado ciò al momento del crollo dell’Unione Sovietica, nel 1991, c’era una piccola tendenza, benché estremamente minoritaria, che sosteneva le idee di un autentico leninismo.

In Cina la situazione è differente. Una “frazione Reiss” come intesa da Trotsky è da escludere. La rivoluzione del 1949 non si basava sulle idee di Lenin. Il Partito Comunista Cinese era stato trasformato in un’organizzazione stalinista ben prima che prendesse il potere. Per cui anche chi si richiama al periodo precedente al 1949 ha lo stalinismo come punto di riferimento.

Dobbiamo comprendere bene la differenza tra “stato operaio degenerato” e “stato operaio deformato”. Il primo è ovviamente uno stato che è diventato uno stato operaio deformato. Ma l’unico “stato operaio degenerato” nella storia è stata l’Unione Sovietica. Inizialmente stato operaio relativamente sano, oggetto di degenerazione dovuta all’isolamento della rivoluzione, con una burocrazia usurpatrice del potere. Per completare il processo la burocrazia stalinista dovette eliminare fisicamente migliaia e migliaia di veri comunisti che comprendevano la differenza tra ciò che la lotta dei Bolscevichi voleva costruire e la mostruosa caricatura scaturita dall’isolamento di una rivoluzione avvenuta in un paese sottosviluppato.

Mai in Cina si è potuto parlare di stato operaio sano. Non ci sono stati nemmeno periodi di vera democrazia operaia, di potere operaio. Nel momento in cui il partito comunista ha preso il potere, lo ha gestito con i metodi di uno stato operaio deformato. Il partito comunista ereditò il vecchio apparato statale dei Mandarini. Anche Lenin, agli inizi dell’esperienza sovietica, sottolineava che grattando la superficie dello stato operaio si poteva trovare il vecchio apparato statale zarista, ancor più in un paese arretrato, dove il nuovo stato deve fare affidamento su molti dei vecchi funzionari. Ma per lo meno ai tempi di Lenin gli operai tramite i Soviet, loro organi di potere, potevano frenare queste tendenze conservatrici. Non è così in Cina.

Malgrado tutto ciò, e sia pure in maniera distorta, devono esserci elementi all’interno del partito che guardano con orrore alla transizione della Cina verso il capitalismo. Vedono i lavoratori perdere tutti i loro diritti e gli ideali rivoluzionari che vengono calpestati. Ripensano ai tempi di Mao quando la società era ai loro occhi molto più “egualitaria”. Nel contesto odierno però, con lo sviluppo di un forte proletariato, la vecchia idea maoista di basare tutto sui contadini non avrebbe significato per i lavoratori. Il proletariato è ora forza dominante, quindi gli operai delle città che cercano una via di “ritorno a Mao” dovranno fare i conti con la questione del potere operaio. Un tale sviluppo non potrebbe che avere conseguenze sul partito, che finirebbe per spaccarsi lungo linee di classe.

Ai vertici della burocrazia non sembra comunque esserci nessuno che voglia ritornare alla vecchia economia di stato pianificata centralmente. Dal punto di vista dei burocrati il sistema “funziona”. E anche molto bene! Abbiamo già visto cosa dicesse Trotsky dei burocrati che vogliono passare i propri privilegi agli eredi. Oggi in Cina molti uomini e donne figli di burocrati sono proprietari di mezzi di produzione. Ovviamente tra questa gente non aleggia il desiderio di tornare ad un’ economia nazionalizzata e pianificata. Non ci sono ragioni materiali per cui dovrebbero volerlo. Resisterebbero ad ogni tentativo di riportare indietro le lancette dell’orologio, spalleggiati in questo dallo stato. E’ sempre meglio di niente per i vertici dell’esercito l’essere diventati proprietari di beni. Così la casta degli ufficiali nei “corpi di uomini armati” ha interessi materiali da difendere secondo i nuovi rapporti di proprietà in vigore.


Cina oggi: quarta potenza mondiale


I dati più recenti mostrano come la Cina sia diventata la quarta potenza economica mondiale dopo USA, Giappone e Germania nonché il terzo produttore mondiale di manufatti dopo Stati Uniti e Giappone. Nel 2004 la Cina ha consumato metà del cemento prodotto nel mondo. Sta diventando una grande potenza non solo militare, che già era, ma anche economica.

Inizialmente i capitalisti stranieri pensavano di poter costringere la Cina ad aprire le frontiere, per poi invaderla coi propri prodotti. Ma le cose sono andate diversamente rispetto alle attese degli imperialisti. La Cina è una grande esportatrice. Il deficit commerciale statunitense nei suoi confronti ha raggiunto la cifra record di 205 miliardi di dollari. Ora si lamentano perché la Cina esporta troppo in Europa, negli Stati Uniti, nel mondo intero. Sono costretti a discutere periodicamente di dazi per tentare di fermare le importazioni dalla Cina. Ma per riuscire in questo scopo dovrebbero innalzare barriere doganali altissime, dato che la produttività cinese è assai elevata e i prodotti cinesi molto economici.

Considerando l’enorme sviluppo delle forze produttive, i radicali cambiamenti economici, il consolidamento di rapporti capitalistici, è chiaro perché la Cina appaia ora come una potenza imperialista. Importa materie prime ed esporta manufatti e capitali. Uno dei fattori che determina l’aumento di prezzo del petrolio è la fortissima domanda cinese. Il paese è diventato il secondo consumatore al mondo nonché importatore netto di petrolio. Importa anche grandi quantità di minerali di ferro, rame, bauxite, legname da costruzione, zinco, manganese, stagno e soia.

Le sue relazioni con America Latina e Caraibi evidenziano il carattere imperialista cinese. Nel 1999, ad esempio, la Cina esportava beni per 5 miliardi di dollari nella regione, da cui importava invece l’equivalente di 3 miliardi di dollari. Nel 2004, le esportazioni sono arrivate a 18 miliardi e le importazioni a 22. L’America Latina esporta prevalentemente cibo e materie prime, la Cina esporta prodotti tessili, abbigliamento, scarpe, macchinari, apparecchi TV e prodotti in plastica. Nello stesso anno gli investimenti cinesi nella regione sono stati pari a 6,32 miliardi di dollari. Circa la metà degli investimenti esteri cinesi riguarda America Latina e Caraibi. Solo nel petrolio venezuelano si pensa di investire altri 350 milioni di dollari. E’ nata un’ “alleanza strategica” con il Brasile, dove ci sono già fabbriche di proprietà cinese. Il 15% delle esportazioni brasiliane va verso la Cina, e il dato è in aumento. C’è competizione con l’India per le risorse petrolifere asiatiche. Insomma la Cina è un grosso rivale su scala mondiale. Se nel 2004 il commercio mondiale è salito del 5%, la Cina è responsabile per il 60% di questo incremento, o per circa i due terzi che dir si voglia.

In linea con questi fatti, vediamo anche come la Cina abbia inviato truppe all’interno della forza ONU ad Haiti. Sta inoltre organizzando una Marina potente. Questo succede perché si prepara a controllare i corridoi marini del Pacifico ed altrove. Ciò porterà ad aperti conflitti con gli USA. Ci sono già congressisti statunitensi preoccupati per il crescente coinvolgimento cinese in America Latina che rispolverano la “dottrina Monroe” secondo cui nessun potere può essere più influente in quella regione di quello statunitense.

Rafforzamento della classe operaia

L’imponente sviluppo economico cinese ha però anche un’altra faccia. Insieme al massiccio sviluppo delle forze produttive si nota un poderoso rafforzamento della classe operaia. 20 milioni di persone si spostano ogni anno verso le città. Ad un rapido sviluppo delle arre urbane corrisponde la fuga dei contadini poveri dalla miseria delle campagne. Attualmente quasi il 40% della popolazione vive in città. Ci sono ben 166 città con più di un milione di abitanti. Nei prossimi 15 anni altre 300 milioni di persone si dirigeranno verso le grandi metropoli. E’ in atto un vero e proprio boom edilizio. Solo in questo settore lavorano 38 milioni di persone. Si stanno costruendo metropolitane in più di 80 città. Tutto ciò influisce evidentemente sull’economia, aumentando la domanda di acciaio, cemento, e via dicendo. Si tratta della proletarizzazione della società cinese con numeri senza precedenti.

Si stima che, nel giro di 15 anni, nelle aree urbane vivranno 800 milioni di persone. La più grande concentrazione proletaria della storia. Un fenomeno senza precedenti. Il più grande movimento del genere nella storia, che porterà alla formazione del proletariato più vasto che la storia ricordi. Sarà il più potente al mondo.

I contadini che affluiscono verso le città vivevano in condizioni terrificanti. Le comuni sono state distrutte e con loro scompaiono anche vantaggi, assistenza sanitaria, pensioni, ecc… I due terzi di chi vive in campagna non ha in Cina alcuna copertura pensionistica. Ecco perché cercano lavoro in città.

Negli Stati Uniti e in Europa abbiamo già visto fenomeni di questo tipo con gli immigrati da America Latina, Africa e Asia. Sono pronti a vivere in condizioni terribili e a svolgere i lavori peggiori pur di avere un reddito, soldi da mandare alla propria famiglia. E’ un modo per fuggire dalla miseria. Detto questo, molti di loro sopravvivono a mala pena. Raccolgono pochi vantaggi dalla grande ricchezza che producono. E’ una situazione che vede al suo intorno tutte le potenzialità di sviluppo di movimenti rivoluzionari.

L’unico elemento di progresso di questa situazione consiste nella formazione di milioni di “affossatori” del capitalismo, di milioni di proletari. In questo senso siamo favorevoli allo sviluppo industriale. Benché ad un prezzo terrificante, esso sta creando la classe che porterà a termine la trasformazione della società. Quartieri operai enormi vanno formandosi nelle città, e con essi si alimentano gravi contraddizioni.

Benché il capitalismo cinese si stia sviluppando a velocità mozzafiato, lo smantellamento dell’economia pianificata è stato un passo indietro reazionario. L’attuale sviluppo economico potrebbe essere facilmente sfidata e battuta, e gli squilibri, la natura caotica della crescita, la crescente polarizzazione sociale evitate con un sano regime di democrazia operaia.

Esiste un’enorme polarizzazione tra le classi, tra città e campagna, tra zone a prevalenza capitalista e vecchi distretti industriali di proprietà statale. Ci sono disparità sociali enormi. Nelle città il 10% più ricco detiene il 45% della ricchezza. Il 10% più povero solo l’1,4%. Da un lato una nuova e ricca borghesia, dall’altro quasi 200 milioni di disoccupati.

Lo sviluppo diseguale colpisce diverse regioni cinesi, alcune delle quali non beneficiano della crescita che ha luogo soprattutto nelle regioni orientali e costiere. Questo fenomeno rischia di accendere la questione nazionale in Cina. Ci sono 100 milioni di persone appartenenti ad una minoranza etnica (Tibetani, Turkmeni, Mongoli, Uighurs) e scontri regolari con la polizia. In questa situazione polarizzata, la questione nazionale può rapidamente tornare attuale.

E’ vero che lo sviluppo economico ha innalzato i livelli di vita di alcuni. Ma c’è un altro termine dell’equazione. La crescita economica, lungi dal garantire stabilità, sta causando una maggiore combattività operaia e un crescente fermento sociale. Condizioni di vita e lavoro e forme di distribuzione della ricchezza ne sono le cause principali. Le masse disprezzano i burocrati che stanno cancellando tutte le loro conquiste.

Le condizioni in cui vive la classe operaia cinese sono simili a quelle inglesi raccontate da Engels nel 19° secolo. L’80% delle morti in miniera avviene in Cina – benché qui si produca solo il 30% del carbone mondiale. Nel 1991, 80.000 operai sono morti in incidenti sul lavoro. Nel 2003 erano già diventati 440.000. Ci sono pressioni incredibili nei confronti della classe operaia. Non si tratta di una società felice e stabile che guarda fiduciosa al futuro. Il suicidio è la prima causa di morte nella fascia di popolazione dai 20 ai 35 anni. Ogni anno ci sono 250.000 suicidi, e dai 2,5 ai 3,5 milioni di tentativi di togliersi la vita. Milioni di persone hanno perso il lavoro. Malgrado alcune proteste, il cammino implacabile verso il capitalismo procede.

Abbiamo detto che ciò che accade oggi in Cina ha molti punti di contatto con lo sviluppo iniziale del capitalismo in Russia oltre un secolo fa. La scomparsa delle vecchie comuni agricole e lo sviluppo industriale della fine del 19° secolo, posero alla ribalta un proletariato giovane fatto di contadini che abbandonavano la terra. La nascita di questo proletariato e le terribili condizioni create da questo processo dovevano condurre alla rivoluzione del 1905 prima e a quella d’Ottobre poi. In questo momento in Cina si stanno creando condizioni analoghe di conflitto di classe, che potrebbero avere anche sbocchi simili, verso un’insurrezione rivoluzionaria.

Si sono verificati già duri scioperi. Il numero di vertenze lavorative di ogni tipo è cresciuto del 12,5% nel 2000 e del 14,4% nel 2001, arrivando a 155.000. Nel 1999 ci furono circa 7000 “azioni collettive” come le chiamano, in genere scioperi o rallentamenti della produzione con un minimo di tre partecipanti, che coinvolsero oltre 250.000 persone, con un incremento del 900% dal 2002. Dal 1999 il numero di vertenze collettive è aumentato del 20% circa all’anno. Benché in valore assoluto si tratti ancora di poca cosa, questi dati quello che sta per arrivare. Crescita economica non significa meccanicamente stabilità sociale, caso mai il contrario.

L’economia cinese ora è governata dalle leggi del capitalismo. Ci sono stati massicci investimenti, basati sulla prospettiva di un mercato mondiale in costante crescita. Ma questa situazione non è sostenibile a lungo, ad un certo punto anche la Cina fronteggerà una crisi. Non possiamo dire esattamente quando ciò accadrà. Ma accadrà, e sarà una crisi grave che avrà ripercussioni sul mondo intero.

La classe operaia cinese è giovane e di nuova formazione. Ne faceva, e ne fa ancora parte, una fetta importante che lavorava nell’industria di stato. Questo settore, malgrado la burocrazia, aveva conquistato discrete condizioni di vita. Ora le sta perdendo. I rapporti tra operai e aziende per cui lavorano sono simili a quelli in vigore in occidente. La conseguenza sarà, ad un certo punto, l’esplosione della lotta di classe.

La posizione del Partito Comunista

Per il momento il Partito Comunista dirige e mantiene la situazione sotto controllo. Ma cosa accade al Pc? Esso ha tra 60 e 70 milioni d’iscritti, vale a dire circa il 5% dell’intera popolazione. In passato era un mero strumento della burocrazia statale, ma recentemente le sue porte si sono aperte ai capitalisti cinesi, ed ora circa il 30% di costoro è membro del partito. Evidentemente essi ritengono i propri interessi meglio salvaguardati stando dentro il partito stesso. In termini assoluti si tratta di una piccola minoranza di persone, ma è molto significativo che ad un gran numero di essi sia stato permesso di fare parte dell’organizzazione.

Pochi anni fa quasi la metà del Comitato Centrale è stata sostituita, ovviamente con l’esclusione di alcuni dei vecchi burocrati guardati come un impedimento e ostacolo nella transizione verso il capitalismo. Così il Partito Comunista è oggi utilizzato dai capitalisti per tutelare i propri interessi di classe. Ai livelli inferiori devono esserci molti militanti che credono nel “Comunismo”, o almeno in ciò che percepiscono come Comunismo, e alcuni di loro conoscono probabilmente le idee di Marx. Ma al vertice invece, chi ha in mano le leve del potere, si preoccupa solo di guidare il paese verso il capitalismo.

Cosa ci sarà nel futuro del Partito Comunista Cinese? Finché l’espansione economica proseguirà nella sua corsa, la sua dirigenza sarà in grado di mantenere il controllo della situazione e di garantire stabilità nella società e nel partito. Ma se dovesse affrontare una mobilitazione seria, una crisi economica grave, conflitti di classe e nazionali accesi, insomma qualunque genere di emergenza sociale, potrebbe esserci la tendenza a dividersi in fazioni. Abbiamo ben presente che il Partito Comunista Cinese non è un partito qualunque e non può quindi essere paragonato ai partiti comunisti occidentali. Il Partito Comunista Cinese è parte dell’apparato statale da quando, nel 1949, prese il potere.

Comunque, sulla base degli eventi la sua morsa sullo stato potrebbe essere spezzata. Nel caso della burocrazia russa ciò accadde in modo convulso. Il vecchio e monolitico partito stalinista si spaccò in tanti partiti che rappresentavano gruppi d’interesse differenti. Da questo processo nacquero anche alcuni partiti comunisti, che sono diventati autentici partiti dei lavoratori. Ma questo processo in Cina è di là da venire. Al momento la burocrazia ha la situazione sotto controllo. E la funzione del partito è di sviluppare il capitalismo.

Una cosa certa è che non sarà un processo morbido. Le contraddizioni prodotte dalla nuova economia di mercato provocheranno divisioni nella gerarchia del partito. Divisioni già presenti come dimostra il conflitto in corso relativo ad ulteriori novità sulle leggi che governano la proprietà. Come interpretare queste divisioni interne del PC? Partiamo dal processo complessivo e guardiamo che direzione sta prendendo. Siamo al punto in cui si sono instaurati relazioni basate sulle leggi che governano il capitale. Lacerazioni sociali dovute al conflitto tra salario e capitale, concorrenza di mercato, ricerca del profitto ecc…Le imprese sopravvissute al passaggio di sistema sono in via di privatizzazione oppure funzionano come compagnie di stato e capitaliste allo stesso tempo. Dobbiamo certamente tenere in considerazione questo settore, ma dobbiamo anche comprendere che adesso il settore dell’economia più dinamico è quello privato e che la direzione di marcia è ormai consolidata.

Nella burocrazia di un paese tanto grande, ci saranno inevitabilmente tendenze contrarie, fazioni con interessi e punti di vista differenti. C’è una parte di essa che considera l’intero processo ed è conscia dell’instabilità che questo sta provocando. Primo ministro e presidente condividono queste preoccupazioni perché vedono i pericoli insiti in una situazione polarizzata e in precario equilibrio. Questa ala vuole introdurre riforme sociali per attutire il colpo sulle masse. Teme una rivoluzione dal basso e chiede quindi investimenti nelle zone sottosviluppate e aumenti di spesa sociale.

Così facendo però non si pone in discussione l’essenza del capitalismo e non si interviene attivamente per impedirne sviluppo e consolidamento, ben sapendo che le disuguaglianze e le tensioni sociali crescenti non potranno che condurre ad un movimento rivoluzionario del proletariato. Questo è vero, ma il problema è che anche mantenendo in piedi la vecchia struttura stalinista ad un certo punto si sarebbe comunque arrivati a movimenti di massa e ad un eventuale collasso del sistema. Ecco perché questa ala della burocrazia non ha intenzione di invertire il processo ma cercherà di introdurre alcune riforme per alleviare gli attacchi nei confronti delle masse.

La burocrazia della Cina orientale, più saldamente collegata alla nuova classe di capitalisti, non vuole però deviare una serie di risorse fondamentali destinate allo sviluppo industriale. Piuttosto che rallentare lo sviluppo in corso, questa tendenza vede con favore un’accelerazione del processo e un definitivo abbandono di ogni retaggio del vecchio sistema. Il conflitto non è quindi tra chi vuole “tornare indietro” e chi invece vuole il capitalismo, ma riguarda la stabilità complessiva del sistema stesso. Per ironia della sorte, nel lungo periodo questo processo potrebbe mettere il PC ai margini, causando ulteriore instabilità.

Le contraddizioni interne alla burocrazia sono dunque il riflesso di un conflitto che avviene a causa delle riforme legislative sui rapporti di proprietà. Ci sono infatti pressioni che rallentano queste riforme. Ciò evidenzia il carattere non lineare del processo. In più di un’occasione, come si è già detto, ci sono stati momenti in cui la burocrazia ha dovuto rallentare la corsa, ma senza mai intaccare nessuna “riforma” di mercato.

Questo equilibrio instabile e temporaneo può essere mantenuto solo con una crescita del PIL simile a quella attuale, del 9% circa all’anno. Nell’industria statale si perdono milioni di posti di lavoro ogni anno, ma altrettanti ne vengono creati nel settore capitalista. Così il flusso di operai dalla campagna alle città può essere facilmente assorbito. Benché i nuovi lavori abbiano salari molto bassi, questi sono sempre più alti di ciò che si può guadagnare nelle aree rurali. Gli operai immigrati, malgrado lavorino in condizioni terribili, possono dunque avere un reddito, mandare soldi a casa, ecc…

Come abbiamo visto, la maggior parte dell’economia cinese sta funzionando su basi capitalistiche. Il settore statale produce solo un terzo del PIL. E’ rimasto ancora qualcosa da privatizzare, ma comunque lo stato non domina già più. Procedendo con ristrutturazioni e privatizzazioni, nel settore statale si perderanno altre decine di milioni di posti di lavoro. In questa situazione una crescita sostenuta è assolutamente necessaria.

Se ci fossero altri 10-20 anni con una crescita del 7-10% per ognuno di essi, il necessario livello di urbanizzazione ed industrializzazione potrebbe forse essere raggiunto dolcemente. Ma è il mercato mondiale che decide. La Cina esporta più del 50% del suo PIL. Ha un costo del lavoro molto basso e ottimi mezzi di produzione – cioè una produttività molto alta. Ma le pressioni aumentano. Ci sono segnali di rallentamento in alcuni settori dell’economia mondiale, le economie dell’area Euro ristagnano o crescono lentamente. Ci sono sintomi di sovrapproduzione su scala mondiale – dovute in parte alla crescita cinese. Qualunque calo significativo sui mercati mondiali influenzerebbe drasticamente la crescita dell’economia cinese, come già accaduto in passato in Corea del Sud. Per la Cina si prospetta già un pericolo di sovrapproduzione nell’acciaio, nel carbone, nel minerale di ferro e anche in beni di consumo. I segnali sono quelli di una prossima crisi di sovrapproduzione.

Ciò sta allarmando anche il Fondo monetario che, al di là della retorica sull’efficienza del mercato, si rende conto del fatto che il problema chiave dell’economia mondiale è la sovrapproduzione. Secondo gli economisti del FMI, oltre il 75% delle industrie cinesi ha problemi di sovracapacità produttiva, con conseguenti tensioni sul saggio del profitto. Questo è inevitabile, data la frenesia degli investimenti che investe il paese, con un incredibile 45% del Pil costituito da investimenti, una percentuale che non ha precedenti nella storia, nemmeno nel Giappone del boom post-bellico. Finché l’export aumenta e gli occidentali si indebitano, possono tirare avanti, ma con questo ritmo di crescita degli investimenti è come se la Cina raddoppiasse la propria capacità produttiva ogni 4-5 anni, un ritmo che porterà inevitabilmente a una gigantesca crisi di sovrapproduzione. Nel luglio del 2005, il FMI ha pubblicato un rapporto complessivo sulla situazione cinese (IMF, Staff report for the 2005, 8.7.2005) che ruota tutto attorno al problema del boom degli investimenti, il quale ha aumentato enormemente quella che Marx definì la composizione organica del capitale (il rapporto capitale-lavoro è aumentato del 450% dall’84), riducendo la redditività degli investimenti stessi dal 16 al 12%.

La campana della sovrapproduzione suonerà innanzitutto per le banche, le quali cominceranno ad accumulare nuovamente crediti inesigibili. Da qui il problema si sposterà sul versante dell’occupazione e dunque del conflitto sociale

Gli USA fanno pressioni sulla Cina affinché svaluti la sua moneta, pena l’introduzione di pesanti dazi per le sue esportazioni. Al Congresso degli Stati Uniti è in discussione un disegno di legge che imporrebbe dazi del 27,5% sulle importazioni cinesi! Si pensa di abbandonare ogni controllo sulle fluttuazioni monetarie nel 2008. Comunque la Cina non è Haiti o la Nigeria, dove il Fondo Monetario Internazionale può fare la voce grossa. La Cina è ormai una superpotenza e quindi questa questione darà adito a seri conflitti.Nel 2005 l’export cinese verso gli USA si è enormemente incrementato. Nel gennaio dello scorso anno l’Accordo Multi-Fibre ha cancellato quello precedente, le esportazioni non sono più regolate da quote. Come conseguenza, le esportazioni tessili cinesi sono cresciute nei primi quattro mesi dello scorso anno del 70%. In Cina si produce di più e si vende a basso prezzo, e ciò può rappresentare la fine dell’industria tessile europea. Attualmente in Cina ci sono massicci investimenti stranieri diretti, 54 miliardi di dollari nel 2004, segno evidente della fiducia che i capitalisti internazionali ripongono nel prevalere dei nuovi rapporti capitalistici.


Cina e Stati Uniti


Che prospettive ci sono per i prossimi anni? Alcuni credono che si stia preparando un altro crack come quello del 1997, che l’economia viaggi come un treno senza controllo. Sta maturando una crisi di sovrapproduzione, che evidenzia cambiamenti radicali di sistema. Questo fenomeno è caratteristico del capitalismo, non di un’economia pianificata. Se la Cina rallenta, ci saranno serie conseguenze per Stati Uniti e paesi asiatici. La Malesia ha aumentato il suo export verso la Cina da 1 a 7 miliardi di dollari in 5 anni. Anche il Giappone ha grandi interessi in Cina, dove sono già operative 16.000 compagnie del Sol Levante.

L’alta competitività dell’industria cinese sta provocando contrasti con l’imperialismo statunitense. Ed in effetti c’è una contraddizione nelle relazioni tra le due potenze. Cina e Giappone sono tra i massimi detentori di titoli del tesoro statunitense. Quindi i cinesi hanno tutto l’interesse a mantenere l’economia americana, principale cliente delle loro esportazioni, in linea di galleggiamento. Non vogliono saperne di crisi negli Stati Uniti. Molto meglio mantenere una relazione tranquilla ed “amicale”. Ci sono però conflitti sul mercato mondiale; il pesante deficit commerciale degli Stati Uniti è generato soprattutto dalla Cina. Ciò provoca contraddizioni all’interno degli Stati Uniti. Le imprese americane che hanno investito in Cina stanno ottenendo enormi profitti. Producono là a basso costo e vendono negli USA a prezzi determinati dal mercato mondiale. Praticamente ogni grande multinazionale è presente in Cina. Come possono quindi gli Stati Uniti frenare la potenza cinese ben sapendo che la loro economia e le loro principali compagnie dipendono dall’economia cinese? Tante sono le pressioni contraddittorie, ed il conflitto continuerà a crescere in futuro.


Si prepara la rivoluzione


Sviluppo del capitalismo e crescita di differenze sociali enormi marciano di pari passo, e questo prepara il terreno per prossimi conflitti di classe in Cina, la cui società è attualmente una delle più diseguali al mondo. Abbiamo già parlato del problema nelle città. Il quadro generale è che il 20% al vertice della scala sociale consuma il 50% del reddito nazionale mentre il 20% più basso ne dispone solo per il 4,7%.

Questi dati provengono da un rapporto delle Nazioni Unite e sono stati pubblicati in un articolo dell’agenzia di notizie Xinhua. Lo stesso articolo prosegue sostenendo che “un rapporto dell’Istituto per gli Studi su Lavoro e Salario del Ministero per il Lavoro e la Sicurezza Sociale sottolinea che le disuguaglianze di reddito in Cina sono sensibilmente peggiorate dal 2003 raggiungendo attualmente il livello ‘arancio’, secondo per gravità nella scala elaborata in base agli standard dell’istituto. Se non saranno presi seri provvedimenti, si potrebbe arrivare al livello più allarmante, quello ‘rosso’. “Il rapporto Onu è basato sul coefficiente Gini, che misura statisticamente la disuguaglianza in un dato paese. Zero sta per “totale equità”, uno per “totale iniquità”. In Cina questo coefficiente è a 0,45. Secondo standard internazionalmente accettati, quando il coefficiente Gini va oltre lo 0,40, la situazione nel paese in questione può diventare instabile. In Cina non solo si è sorpassato il coefficiente, ma si continua a crescere. Come dice l’agenzia Xinhua, “Se questo trend prosegue senza controllo, il traguardo della prosperità per tutto il popolo non sarà raggiunto, e l’allargamento delle differenze potrebbe scatenare una rivolta sociale”. In Cina si vedono nuovi giganteschi grattacieli spuntare ovunque nelle città moderne, circondati però da immense aree di povertà urbana. Può bastare questo per provocare lotte di classe nel paese.Qual è il compito dei marxisti in questa situazione? Ovviamente il primo dovere è quello di spiegare ciò che sta accadendo. Se vogliamo entrare in contatto con operai, studenti, membri onesti del Partito Comunista Cinese, dobbiamo assicurarci che la nostra analisi corrisponda alla realtà della situazione. Ecco perché dobbiamo studiare in dettaglio ogni aspetto economico, sociale e politico cinese.Sarebbe un grave errore cercare di trattare un processo senza precedenti storici, tanto articolato e contraddittorio, sulla base di una formula pre-definita che non corrisponde alle esperienze che stanno vivendo operai e giovani. Con un simile approccio non andremmo da nessuna parte.

Dobbiamo considerare le tradizioni cinesi. In Russia c’era la tradizione bolscevica, di Lenin e Trotsky. In Cina questa tradizione non c’è ed è presente quella maoista. Che non è la sola però. C’è anche quella di Chen Tu Hsiu (1879– 1942), uno dei fondatori del Partito Comunista Cinese, che in una certa fase si avvicinò al trotskismo.

Chen era stato influenzato dalla rivoluzione d’ottobre del 1917 che gli insegnò che il progresso sociale è ottenibile solo con l’abbattimento di latifondismo e capitalismo. Fu uno dei leader del Movimento anti-imperialista del 4 Maggio nel 1919. L’anno successivo insieme ad altri rivoluzionari e fondò il Partito Comunista Cinese che tenne la sua prima conferenza nazionale nel luglio del 1921 a Shanghai.

Il suo destino fu tragico. Seguendo i consigli di Stalin nel 1926, la rivoluzione cinese fu sconfitta. Il Comintern tuttavia non si assunse alcuna responsabilità addossandole tutte a Chen che nel 1927 venne rimosso dalla leadership del partito. Chiedendo una seria verifica della politica del Comintern provocò la sua espulsione nel 1929, accusato di essere un oppositore. Successivamente si unì all’Opposizione di Sinistra di Trotsky.

E’ positivo che nella Cina di oggi ci siano società dedicate a Chen Tu Hsiu , nate appositamente per studiare le sue opere. Ultimamente, specialmente in ambienti studenteschi, sono sorti circoli di discussione marxisti. C’è un desiderio fra alcuni settori di scoprire le vere idee del marxismo. Questo è un riflesso della voglia di muovere verso una società genuinamente egualitaria, che può essere solamente socialista e basata sulla democrazia operaia.

Dobbiamo rivolgerci a questi settori avanzati, alla classe operaia, ai giovani, spiegando con chiarezza cosa crediamo sia accaduto in Cina, dimostrando la superiorità di un’economia pianificata, ma anche analizzando la crisi della burocrazia cinese e spiegandone le ragioni, i motivi per cui il regime maoista non è sopravvissuto.

Benché ci siano ancora in vita pezzi del vecchio sistema, sia nel settore di proprietà statale che nell’apparato dello stato stesso, il compito principale della Cina è la rivoluzione sociale. Il fulcro dell’economia è in mani private. Il cammino verso il capitalismo è un fatto inoppugnabile. Tutti i discorsi sul “socialismo alla cinese” non sono che foglie di fico in cui nessuno crede più, nemmeno la burocrazia locale. Malgrado esistano tendenze contrarie, noi consideriamo che il processo abbia ormai raggiunto il punto di non ritorno.

L’apparato statale era e rimane quello del vecchio regime, mostruoso, totalitario e burocratico, mascherato con le peggiori sembianze di capitalismo e stalinismo. Il guscio, la forma, sono quelli di un apparato di stato stalinista, ma il contenuto è borghese. Questa situazione è foriera di contraddizioni che possono produrre, ad un certo punto, un movimento rivoluzionario.

La Cina è ascesa con pieno diritto al titolo di potenza mondiale. Il suo destino è legato agli sviluppi internazionali, specialmente a livello economico. Viceversa, anche gli eventi cinesi influiscono su scala mondiale sia economicamente che politicamente.

In particolare la classe operaia cinese sarà chiamata a giocare un ruolo importante nel prossimo periodo. Si dice che Napoleone abbia detto: “la Cina è un gigante che dorme. Ma quando si sveglierà, stupirà il mondo.” Parafrasando Napoleone possiamo dire che oggi a dormire è il gigantesco proletariato cinese. Quando si sveglierà, nessuna forza sul pianeta sarà in grado di fermarlo e l’intera situazione mondiale cambierà.

Agosto 2006