Il settimanale tedesco “Der Spiegel” si chiede: “Marx aveva ragione?”

Nel primo numero del nuovo anno, Der Spiegel pubblica un interessante articolo che si intitola “Marx aveva ragione, dopotutto?” Pieno di osservazioni acute sullo stato del capitalismo, è un articolo sintomatico delle preoccupazioni della classe dominante. Ma le “soluzioni” che propone – idee reazionarie e utopiche basate sulla salvaguardia del capitalismo, come la “decrescita” e il keynesismo – in realtà non sono affatto soluzioni.


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«Marx aveva ragione, dopotutto?» Questa è la domanda che il settimanale tedesco di maggior tiratura mette in copertina nel primo numero del 2023 (articolo poi riproposto in Italia da Internazionale, ndt). La paura sembra aver attanagliato la redazione di Der Spiegel. C’è qualcosa di molto sbagliato nel capitalismo.

Come loro stessi spiegano, questa paura è largamente condivisa all’interno della classe dominante. L’articolo cita Ray Dalio, un gestore di hedge fund dal patrimonio di 22 miliardi di dollari, che crede che “il capitalismo abbia un urgente bisogno di essere riformato radicalmente. Altrimenti perirà e se lo sarà meritato.” Il Financial Times è altrettanto allarmato. Goldman Sachs e Bosch sono citati tra i colossi aziendali che mettono in dubbio la capacità di recupero del mercato di fronte alla catastrofe incombente.

La dice lunga sullo stato del mondo quando super-capitalisti affermati improvvisamente sembrano sostenitori di Karl Marx… In molti luoghi, viene posta una domanda grande e decisiva, nei governi e nelle sedi aziendali, da pionieri intellettuali e pragmatici: possiamo andare avanti con questo ordine economico?

Il capitalismo può sopravvivere? Che una tale domanda esistenziale venga posta dagli stessi analisti capitalisti più seri è estremamente significativo. Hanno perso la fiducia nel proprio sistema e nel proprio diritto a governare. Der Spiegel si rivolge a quei lettori che devono ancora cogliere l’urgenza della situazione. Il capitalismo non sta vivendo una crisi “normale”, spiega Der Spiegel. Il mondo del 2023 è quello della “policrisi” [NdT: crisi intrecciate e sovrapposte]:

[La critica] del capitalismo non è una novità. Ma all’inizio del quarto anno dall’inizio della pandemia e nel secondo anno di guerra in Ucraina, questa critica sta guadagnando un notevole. Troppe cose non funzionano più: la globalizzazione si sta sgretolando e con essa il modello tedesco di prosperità. Il mondo è trincerato in blocchi ostili. L’inflazione sta allontanando sempre più i ricchi dai poveri. Quasi tutti gli obiettivi climatici sono stati mancati. E i politici non possono più continuare a rattoppare tutte le nuove falle che compaiono nel sistema…”

Un enorme problema dopo l’altro e sono tutti interconnessi. Crisi energetica, guerra commerciale, guerra mondiale incombente. La democrazia è sotto attacco da parte di populisti e autocrati.

Fino a poco tempo fa, ci sarebbe stata una soluzione a tutti questi problemi: il mercato si sarebbe preso cura di sé. Ma chi ci crede ancora seriamente oggi? Soprattutto considerando il principale moltiplicatore di tutti gli sconvolgimenti, la crisi climatica”.

Se avessimo aperto l’articolo con questa citazione, vi avremmo perdonato per aver pensato che queste parole fossero di un marxista. Invece no: queste sono le parole del portavoce per eccellenza del capitale tedesco. Tutte queste crisi si alimentano a vicenda e si sommano a una crisi di fiducia di massa nel capitalismo e nelle sue istituzioni. Tra gli under 30, Der Spiegel identifica lo stato d’animo dominante come di “frustrazione, rassegnazione, rabbia. E un ritrovato amore per le idee socialiste”.

Da anni nei paesi industrializzati si sta diffondendo una rabbia palpabile contro il capitalismo: non per ragioni ideologiche, ma perché gli affitti esplodono, perché la proprietà immobiliare è diventata inaccessibile. Perché accettare una macchina della prosperità che sperpera risorse quando non produce più prosperità per tutti?”

Secondo un sondaggio citato nell’articolo, negli Stati Uniti il 49% dei giovani tra i 18 e i 29 anni ha un’opinione positiva del socialismo. Nel frattempo, il sondaggio fatto dalla rivista rileva che quasi la metà dei tedeschi è dell’opinione che il capitalismo abbia portato il mondo nella crisi climatica. Anche il più zelante sostenitore del capitalismo non può negare questo semplice fatto.

Si deve fare qualcosa. “Sembra che abbiamo bisogno di uno Zeitenwende“, scherza l’autore, ripetendo l’espressione molto abusata del cancelliere Scholtz: con Zeitenwende si riferisce a un punto di svolta nella situazione mondiale e quindi anche nella politica del capitalismo tedesco. Oggi, l’uso della parola “Zeitenwende” farà annoiare la maggior parte dei lettori della stampa tedesca, perché è diventata il tema principale, ripetuta giorno dopo giorno, da tutta la classe dominante. “Siamo in un mondo più pericoloso e multipolare, un mondo di ‘policrisi'”, dicono i padroni tedeschi. “È stato raggiunto un punto di svolta. La situazione richiede una Germania forte, sostenuta da un esercito forte”. È così che la classe dominante tedesca sta affrontando la “policrisi”: con austerità e militarismo; preparando la guerra tra le nazioni e tra le classi.

Ma i nostri autori nutrono un pio desiderio per un diverso tipo di Zeitenwende, che implichi “lo sviluppo di un capitalismo più gentile. Più giusto. Più sostenibile”. Gli autori, come solo gli rappresentanti più acuti del capitale sanno fare, hanno correttamente individuato i sintomi del problema. Sì, se solo il capitalismo fosse “più gentile”, “più giusto”, “sostenibile”, allora il loro sistema non sarebbe in questo pasticcio. Ma non è nessuna di queste cose e non potrà mai esserlo. Proprio quando si tratta della causa e della soluzione del problema, la perspicacia dei nostri autori raggiunge il suo limite. Si attaccano a tutto come un uomo che sta annegando.

Salvataggio statale?

Der Spiegel pone a tutti questa domanda: come potremmo arrivare a questo “capitalismo più gentile”? Prevedibilmente conclude che abbiamo bisogno di una rielaborazione del keynesismo: più intervento statale nel mercato, più regolamentazione, più “sovvenzioni guidate”.

Gli “esperti” accademici a cui si rivolge Der Spiegel trovano curioso che i governi abbiano potuto distribuire una quantità di denaro infinita per salvare le banche nel 2008 o durante la pandemia. Perché non utilizzare le stesse misure statali per “costringere” interi settori industriali a essere più verdi e socialmente responsabili? Perché, si chiede Der Spiegel, non possiamo introdurre “sovvenzioni statali condizionate per le aziende che riducono le loro emissioni”?

È una strana logica. La classe capitalista, guidata esclusivamente dal movente del profitto, non può risolvere il cambiamento climatico (o nessuna delle altre crisi sociali comprese nella “policrisi”), quindi perché non spargere migliaia di miliardi di dollari come incentivo? Perché non gettare altro denaro nelle grinfie di questi insaziabili sanguisughe responsabili di queste crisi?

Questa non è certo un’idea rivoluzionaria. Anzi, costituisce l’asse centrale dell’attuale politica portata avanti dall’altra parte dell’Atlantico. Basta dare un’occhiata alla Legge per la Riduzione dell’inflazione (IRA) promulgata nel 2022 da Biden (usando un nome grossolanamente sbagliato). La spinta viene proprio dai sussidi condizionali per “indurre” i capitalisti a comportarsi in un certo modo: sviluppare l’industria verde e riportare le industrie negli Stati Uniti. Il fatto che lo stato debba ricorrere a sussidi sempre più massicci è di per sé un’accusa schiacciante contro il parassitismo della classe capitalista e al fallimento del mercato.

Ma tali misure keynesiane non faranno che aggravare il problema. L’IRA di Biden sta già provocando grida disperate da parte dei governi europei, che presagiscono la deindustrializzazione del loro continente. L’IRA sta alimentando il protezionismo. Nonostante il nome della legge e il suo presunto scopo, il costo netto del reshoring dell’industria a cui vanno aggiunti centinaia di miliardi di dollari di sussidi, servirà solo ad aumentare l’inflazione. Pertanto, questo “pranzo gratuito” per i capitalisti verrà pagato nel futuro con l’erosione dei salari dei lavoratori.

E infine, ciò che i keynesiani non riescono a comprendere è che, come ha spiegato molto tempo fa Marx, la causa fondamentale delle crisi del capitalismo non è una mancanza di domanda che lo stato deve colmare, ma la sovrapproduzione. Questo, i giornalisti di Der Spiegel non riescono a capirlo. Lo stato può sovvenzionare la classe capitalista quanto vuole, ma quando il mercato è già saturo, la nuova capacità produttiva non può che aggravare la sovrapproduzione. E senza nuovi mercati redditizi, la classe capitalista cerca profitti con altri mezzi – con un’orgia di speculazione, come notano i nostri autori:

“[Nel] 2022, le sole società statunitensi hanno annunciato che avrebbero investito circa mille miliardi di dollari per ricomprare azioni invece di investire in nuovi prodotti, anche sostenibili“.

“È pazzesco”, esclama l’esperto accademico di Der Spiegel. Questa follia è un sintomo morboso di un sistema morente. Il capitalismo è a un punto morto. La ripresa post-pandemica è finita e si profila una nuova crisi. Si prevede che quest’anno un terzo del mondo entrerà in recessione con i principali motori dell’economia mondiale, Stati Uniti, Unione Europea e Cina, che andranno tutti in stagnazione contemporaneamente. Gli autori di Der Spiegel sono ben consapevoli che questo stallo non è una tendenza a breve termine, ma uno scenario cupo che si estenderà per tempo indefinito nel futuro. Si spingono infatti a prevedere che “in Occidente la crescita economica terminerà nel prossimo futuro”.

E questa crescita, notano gli autori, è stata una buona cosa per il capitalismo in passato. In effetti, questa crescita è la condizione indispensabile perchè un qualsiasi sistema sociale continui ad esistere. Come spiegò Marx, finché le relazioni capitaliste hanno sviluppato le forze produttive, la loro esistenza era storicamente giustificata. Ma una volta che non riescono più a svilupparle allora “Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale”.

Ora, di fronte a questo fatto scoraggiante, i redattori di Der Spiegel cercano di aggrapparsi al loro ultima e più fragile ancora di salvezza: l’idea consolatoria che forse la mancanza di crescita sia in realtà una cosa molto buona! Di fronte a una catastrofe ecologica, forse dovremmo guardare con ottimismo a un futuro in cui consumiamo meno; un’epoca di “post-crescita”, o “decrescita” per dirla con il suo nome accademico alla moda.

L’articolo cita i fautori di questa visione del mondo che abbraccia tutto lo spettro politico, tra cui l’accademico giapponese, autore di Capital in the Anthropocene, e il sedicente marxista Kohei Saito; un attivista di Fridays for Future… il neo-malthusiano “Club di Roma” e molti economisti di destra. Il conforto che le riviste borghesi come Der Spiegel sono in grado di trarre da queste idee di “decrescita” dovrebbe far riflettere i suoi sostenitori di “sinistra”.

Come Der Spiegel trae conforto dalla “decrescita”

L’idea alla base delle teorie della “decrescita” è davvero molto semplice. Il capitalismo si basa su una crescita economica costante. Ma il nostro mondo naturale, la madre di ogni ricchezza, è semplicemente finito. Non possiamo continuare lungo una traiettoria infinita di crescita senza deteriorare inevitabilmente il nostro ambiente. Dobbiamo scegliere la “decrescita”.

Ma il modo stesso in cui viene posta la domanda: scegliamo “crescita” o “decrescita”? – è assurdo. La crescita economica sotto il capitalismo non è qualcosa di semplicemente e direttamente sotto il comando dei politici o anche dei singoli capitalisti. I sostenitori della decrescita affermano spesso che la crescita è il risultato di una cattiva idea, un “principio di crescita” che ha inspiegabilmente preso piede nelle menti dei capitalisti.

Der Spiegel spera che altre idee possano farsi strada nella mente dei capitani d’industria, citando il comunicato congiunto della ‘Business Roundtable’ formata da 200 aziende statunitensi, che tre anni fa si sono impegnate a mettersi al servizio di “tutti gli investitori”: clienti, dipendenti e partner commerciali e non solo gli azionisti.

Possiamo ammirare le belle intenzioni dietro le parole degli amministratori delegati e dei consigli di amministrazione sulla protezione degli interessi di “tutti gli investitori”, ma alla fine sono tutte legate da una logica ferrea, che è alla base del capitalismo: la motivazione del profitto.

La crescita sotto il capitalismo non è voluta. È il prodotto cieco risultante dal fatto che molti capitalisti perseguano i propri interessi e assume la forma dell’accumulazione di capitale. Questa è la vera forza trainante della “crescita” nell’economia capitalista.

L’accumulazione di capitale, come ha spiegato molto tempo fa Marx, avviene quando il capitalista investe parte del plusvalore, estratto dalla classe operaia, in nuovo capitale come macchinari e forza lavoro. Ogni capitalista deve sforzarsi di accumulare capitale, pena la sua estinzione. Rivoluzionando costantemente la produzione, i capitalisti mantengono un vantaggio competitivo, producono più a buon mercato, conquistando la quota di mercato dei loro concorrenti. Dove non riescono a farlo, saranno altri capitalisti a riuscirci e questi divoreranno le quote di mercato dei primi. Ciò richiede un esborso di capitale sempre crescente, e quindi un’accumulazione sempre maggiore di capitale.

Eppure il fatto strano è che il funzionamento naturale del capitalismo moderno non sta portando a una crescita significativa. Come spiega questo articolo, la tendenza generale del capitalismo è verso la contrazione, il crollo e il declino – in altre parole, la decrescita.

Alleluia! Ma questa è una vittoria per i sostenitori della decrescita?

In realtà, questo non è né il riflesso di una cattiva politica né il riflesso di una buona politica da parte di politici o uomini d’affari, ma dell’impasse storica del capitalismo, del mostruoso parassitismo della classe capitalista attuale, che non può sviluppare le forze produttive come una volta. Le teorie della decrescita (forse inavvertitamente) vengono in aiuto della classe dominante facendo di necessità una virtù.

Per quanto riguarda gli stessi capitalisti, sono persone serie. Non se ne staranno a guardare, facendosi illusioni, poiché il loro bilancio registra un periodo di “decrescita” dei profitti. Faranno tutto il possibile per mantenere alti i profitti… a scapito dei consumi della classe operaia.

Se la maggioranza di una popolazione decide di ridurre la propria impronta ecologica consumando meno beni materiali e concentrandosi maggiormente sul tempo libero e sui servizi, non c’è assolutamente nulla di sbagliato nell’agire così dal punto di vista economico”, dice un ‘esperto’ a Der Spiegel, anche se avverte che “durante un periodo di transizione bisogna convivere con le conseguenze, che vanno dall’aumento della disoccupazione al calo dei redditi“.

Ecco il problema. Possiamo ridurre la nostra impronta ecologica, ma la classe operaia dovrà consumare meno e sopportare una disoccupazione più alta e redditi più bassi. I marxisti, nel frattempo, combattono con le unghie e con i denti per difendere quel poco potere di acquisto che ai lavoratori rimane dai loro salari, contro i tentativi dei capitalisti di recuperare profitti a spese dei lavoratori. Nel frattempo, continuiamo a mostrare la necessità di rovesciare questo sistema.

I sostenitori di sinistra della decrescita possono obiettare che per “decrescita” non intendono affatto limitare i consumi della classe operaia, ma si riferiscono solo alla decrescita di specifiche industrie e pratiche dannose. Anche se quello che si vuole favorire è un aumento dei consumi della classe operaia e una crescita dell’industria ecologicamente sostenibile, tutto questo parlare di decrescita serve solo a mascherare e confondere ciò che si intende veramente. Sotto uno bandiera confusa come questa, la borghesia può trovare spazio per la propria idea di “decrescita”, con il suo sentore di malthusianesimo.

Per un’economia socialista pianificata

Una crisi esistenziale sta imperversando sul nostro pianeta. Se ci opponiamo alle idee di decrescita, non è perché prendiamo meno sul serio questa crisi, ma perché è una questione troppo seria per illuderci con false convinzioni.

Infatti, mentre l’accumulazione di capitale comporta la distruzione totale della natura e una discesa a capofitto nella catastrofe climatica, la contrazione economica sotto il capitalismo non implica affatto il contrario. Basta guardarsi intorno nel mondo del 2023. Mentre il declino del capitalismo intensifica la concorrenza tra le nazioni, alimentando guerre e la crisi energetica, come stanno rispondendo le maggiori potenze? Aggrappandosi alle fonti di energia più facilmente disponibili (e più sporche). Il Re Carbone è tornato.

Secondo Reuters: Stati Uniti, Grecia, Danimarca, Spagna, Macedonia del Nord, Germania, Finlandia e Regno Unito hanno tutte in programma di riprendere le operazioni nelle centrali elettriche a carbone che erano state dismesse o stavano per esserlo. L’Austria intende convertire alcune centrali elettriche da gas al carbone. L’Italia e i Paesi Bassi voglionaumentare la produzione nelle centrali elettriche a carbone e petrolio esistenti. La Cina intende aprire nuove centrali a carbone per una potenza di 8,3 gigawatt. La Polonia e la Serbia vogliono incrementare l’estrazione di carbone. Botswana, Sudafrica, Tanzania, Australia e Colombia stanno registrando esportazioni di carbone alle stelle. Tutto questo mentre ci dirigiamo verso una recessione!

Questo è il risultato naturale dell’anarchia capitalista, in cui ogni cricca di capitalisti nazionali compete contro altre cricche di capitalisti nazionali per risorse e mercati. Invece, per iniziare davvero ad affrontare il cambiamento climatico, dobbiamo espropriare tutti i monopoli secondo un piano di produzione socialista. A quel punto potremmo riqualificare le industrie dannose per l’ambiente quasi dall’oggi al domani. Potremmo mettere a disposizione tutte le risorse della società per affrontare il problema di una transizione del 100% verso fonti di energia verde e rinnovabile a una velocità incredibile. E potremmo farlo aumentando il numero di gigawatt di energia prodotta. Sulla base di un piano razionale dell’agricoltura, la tecnologia più avanzata potrebbe essere uniformemente applicata per aumentare enormemente la produzione alimentare, riducendo al contempo le emissioni, così come l’uso di acqua, energia e suolo, liberando enormi terreni per ridarli alla natura.

Un giovane attivista ha spiegato a Der Spiegel che invece di un’economia orientata alla “crescita”, abbiamo bisogno di “un’economia orientata al bene comune”. Siamo d’accordo con quest’ultimo punto, ma il contrario di una “economia orientata al bene comune” non è la “crescita”. La vera contrapposizione è tra anarchia capitalista e pianificazione socialista.

10 gennaio 2023

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