Decidiamo noi!

L'editoriale del nuovo numero di FalceMartello

L’Italia è avvolta in una crisi politica, sociale ed economica senza precedenti. La crisi politica del regime che ha retto il paese negli ultimi vent’anni è sotto gli occhi di tutti. La situazione assomiglia molto a quella del 1992-93, quando i partiti della cosiddetta “Prima repubblica” furono colpiti e affondati dalle inchieste di “Tangentopoli”.

Oggi il partito di Berlusconi, che fino a un paio di anni fa sembrava invincibile, è a pezzi. Le dimissioni della Polverini hanno fatto precipitare una situazione che era già molto compromessa e l’indecisione di Berlusconi rispetto una eventuale candidatura alle elezioni è emblematica.

Il capitale, per ciò che lo riguarda, ha già trovato la cura alla malattia del “sistema Italia”: è il cosiddetto “montismo” cioè le politiche di sacrifici che si vorrebbero imporre in modo permanente alla classe lavoratrice. Il fatto che, dopo le elezioni, al governo ci sarà ancora il Professore o meno, non è decisivo. Ci saranno sempre i pasdaran del “Monti pensiero” e anche il Pd bersaniano ha indicato che seguirà fedelmente l’agenda Monti. D’altra parte, oggigiorno i margini di manovra per politiche riformiste si riducono oltre misura: o si sta con Monti o si assume un programma anticapitalista.

Davanti al problema della crisi economica e delle chiusure degli stabilimenti, dall’Alcoa alla Fiat passando per l’Ilva, emerge un limite di fondo: la questione della proprietà privata delle aziende non viene mai messa in discussione. Anche il gruppo dirigente della Fiom non riesce a spingersi oltre “all’apertura ad altri investitori” per salvare Mirafiori o, nelle parole di Landini, a “un prestito europeo” al gruppo Riva per risanare l’Ilva di Taranto.

Non crediamo che la soluzione alla crisi attuale possa essere quella di trovare un altro padrone magari da foraggiare con aiuti statali. Ne abbiamo abbastanza di parassiti che si nutrono a spese della collettività.

La Fiat attraverso finanziamenti diretti e indiretti ha ricevuto decine di miliardi di euro di soldi pubblici negli ultimi 60 anni. Gli stabilimenti Fiat sono stati ampiamente pagati con le tasse prelevate ai lavoratori.

L’Alcoa ha ricevuto, nel solo triennio 2006-2008, 540 milioni di euro, di cui 415 per lo stabilimento di Portovesme. A Riva l’Ilva è stata sostanzialmente regalata dallo Stato. Nel 1995 Riva compra l’Ilva al prezzo di 1.460 miliardi di lire (750 milioni di euro circa), cifra irrisoria, se si considera che da allora ha fatto profitti per una cifra di almeno 10 volte superiore.

E anche quei miliardi si riducono perché Riva apre immediatamente un contenzioso, paga una prima rata e poi non paga quasi più niente. Lo stesso è successo con l’Alfa Romeo quando è stata prelevata dalla Fiat.

Insomma, i padroni prima prendono gli aiuti di stato e poi scappano con la cassa (tutt’altro che vuota, visto che la sola Fiat-Chrysler quest’anno prevede di fare tre miliardi e mezzo di guadagni). E i lavoratori? Lasciati in mezzo alla strada.

La Fiat, l’Alcoa, l’Ilva, i lavoratori le hanno pagate più volte nel corso di questi decenni. E siccome ci abbiamo messo i soldi, ora vogliamo decidere sul futuro di queste aziende. Questa possibilità di decidere passa attraverso l’esproprio e la nazionalizzazione di tutte le aziende in crisi.

Quando parliamo di nazionalizzazione non ci riferiamo a un mero cambiamento dello status giuridico di queste imprese, con un “boiardo di stato” super pagato al posto di un padrone privato, unico depositario del potere decisionale.

Non ci possiamo accontentare di nazionalizzazioni borghesi o di nazionalizzazioni parziali, come nel caso del Venezuela.

Siamo schierati con la rivoluzione bolivariana, ci rallegriamo per la recente vittoria di Chavez e la sconfitta dell’opposizione controrivoluzionaria

Ma vediamo anche i limiti di un processo che, pur tutelando i posti di lavoro e riuscendo a redistribuire parzialmente la ricchezza, restando all’interno del capitalismo, non risolve il problema delle crisi cicliche del sistema di mercato e del boicottaggio della classe dominante e dell’imperialismo.

Questi limiti saranno risolti solo attraverso la nazionalizzazione delle principali leve del sistema bancario, finanziario, industriale e commerciale del paese.

Non facciamo nemmeno riferimento a nazionalizzazioni il cui costo sia a carico dei contribuenti. Nel passato tali nazionalizzazioni avevano lo scopo, dal punto di vista della borghesia, di far ristrutturare dallo stato imprese decotte per poi ricomprarle a prezzi di saldo, una volta che erano di nuovo pronte a competere sul mercato.

Gli espropri dovrebbero avvenire senza alcun indennizzo, salvo comprovata necessità per i piccoli azionisti. Alla nazionalizzazione dovrebbe essere accompagnato il controllo e la gestione, da parte degli operai, dei tecnici e degli impiegati, di ogni aspetto del processo produttivo ed amministrativo.

La classe lavoratrice ha tutte le capacità per gestire un’azienda. Nell’epoca attuale, più ancora che nel passato, i capitalisti non hanno alcun ruolo essenziale nella produzione.

La nazionalizzazione sotto il controllo operaio significherebbe anche la salvezza di centinaia di aziende piccole e medie dell’indotto e di tante attività commerciali che ruotano attorno agli stabilimenti più grandi.

Che la questione della proprietà sia comunque decisiva lo dimostra il caso dell’Ilva di Taranto. Finché il gruppo Riva sarà proprietario dell’Ilva sarà impossibile risanare dal punto di vista ambientale l’azienda, anzi la borghesia cercherà sempre di porre la difesa del lavoro e della salute come inconciliabili fra loro e a pagare saranno i lavoratori e le loro famiglie, che avranno davanti la scelta di morire di stenti o di tumore, oppure tutt’e due.

é Riva che deve pagare fino all’ultimo centesimo per il risanamento ambientale, come è sempre Riva che deve pagare per i suoi crimini. I patrimoni e i conti bancari che la famiglia ha accumulato in questi anni devono essere sequestrati come si fa (o si dovrebbe fare) con i mafiosi, perché tra le stragi della criminalità organizzata e le stragi di chi avvelena un’intera città non c’è alcuna differenza.

Sulla base di un’Ilva nazionalizzata sotto il controllo dei lavoratori, e con le ricchezze dei Riva a disposizione della collettività, si potrebbe scacciare la spada di Damocle della chiusura dello stabilimento, che regolarmente viene usata come spauracchio per dividere i lavoratori.

Comitati di lavoratori e di cittadini potrebbero discutere di tempi e modi per avviare il risanamento ambientale, possibile, come spiegato in un articolo nelle pagine interne di questo giornale, ma inconciliabile con la logica del profitto.

Una lotta contro le crisi aziendali che ponga al centro la questione della proprietà, aiuterebbe a riportare al centro del dibattito la questione di classe, oggi messa in secondo piano dai padrini dell’antipolitica, insieme (non a caso) ai principali mass media, che ci vorrebbero far credere che oggi lo scontro decisivo è tra onesti e disonesti e non di una classe contro un’altra.

Certo, per una proposta del genere non basta una manifestazione come quella convocata dalla Fiom e dalla Cgil il 20 ottobre, pure importante; è necessario prevedere la rottura con le compatibilità capitaliste, un obiettivo che certo non troveremo nel programma di nessun candidato alle primarie del centrosinistra.

Primarie in cui non c’è proprio niente da scegliere, nonostante ciò che pensa qualcuno a sinistra che si dichiara comunista.

Piuttosto che dichiararsi comunisti sarebbe preferibile esserlo nella pratica quotidiana nell’unico modo possibile: lottando contro la proprietà privata dei mezzi di produzione, per un polo pubblico dell’economia gestito democraticamente dai lavoratori e dalle lavoratrici.

8 ottobre 2012