Crisi e lotta di classe – Prospettive mondiali 2016

Pubblichiamo il documento discusso e approvato dal Congresso mondiale della Tendenza marxista internazionale, tenutosi in Italia, a Bardonecchia, nel luglio scorso.

Il 2016 è stato inaugurato da forti cali della borsa cinese che hanno sconquassato tutto il mondo, riflettendo uno stato d’animo di panico tra gli investitori. Questo nervosismo esprime i timori della borghesia che il mondo si sta avviando verso un nuovo crollo. La storia del capitalismo è fatta di boom e crolli. Questo ciclo continuerà fino a quando esisterà il capitalismo, proprio come una persona respira fino a quando non muore. Tuttavia, a parte questa categorizzazione generale, si possono discernere periodi più lunghi, curve di sviluppo e di declino. Ogni periodo ha caratteristiche diverse che hanno un effetto determinante sulla lotta di classe.

Alcuni, come Kondratiev e suoi imitatori moderni, hanno provato a spiegare questi cicli in modo meccanico. Le idee di Kondratiev tornano di moda di questi tempi, perché presuppongono che ogni rallentamento sarà inevitabilmente seguito da un lungo periodo di ripresa. Questo pensiero fornisce un misero conforto, assai necessario, agli economisti borghesi che si stanno scervellando al fine di cercare di comprendere la natura della crisi e trovare una via d’uscita.

La situazione mondiale attuale è caratterizzata da crisi a tutti i livelli: economico, ambientale, finanziario, sociale, politico, diplomatico e militare. La causa principale della crisi è l’incapacità del capitalismo di sviluppare le forze produttive su scala mondiale. L’OCSE ritiene che non ci sarà una crescita significativa per almeno cinquanta anni. Boom e recessioni si alterneranno come sempre, ma la tendenza generale sarà verso il basso. Ciò significa che le masse si trovano ad affrontare decenni di stagnazione o calo del tenore di vita e la situazione sarà ancora peggiore nei paesi cosiddetti in via di sviluppo. Questa è una ricetta finita per la lotta di classe in tutto il mondo.

Una nuova recessione incombe

I più seri strateghi capitalisti tendono a trarre le stesse conclusioni dei marxisti, sebbene con un certo ritardo e dal loro punto di vista di classe. Il pessimismo degli economisti borghesi è dimostrato dalla loro previsione di un periodo di “stagnazione secolare”. Il Fondo monetario internazionale sottolinea che la crisi finanziaria globale è molto peggiore dei precedenti episodi di turbolenze e avverte che la maggior parte delle principali economie del mondo si deve preparare a un periodo prolungato di bassi tassi di crescita.

I rapporti del FMI sono pieni di pessimismo. Abbassano in continuazione le stime di crescita. Nel 2012 hanno ridotto le stime del Pil per il 2020 degli Stati Uniti del 6%, dell’Europa del 3%, della Cina del 14% dei mercati emergenti del 10% e per l’economia mondiale del 6% come dato complessivo. La crescita nei paesi industrializzati non ha superato il 2% negli ultimi quattro anni.

La crescita della produzione potenziale nei paesi capitalisti sviluppati è stimata all’1,6% l’anno tra il 2015 e il 2020, secondo le previsioni del FMI. Il dato è leggermente superiore al tasso di espansione degli ultimi sette anni, ma significativamente inferiore rispetto ai tassi di crescita di prima della crisi, quando la produzione potenziale si espandeva del 2,25% l’anno. Anche questo dato è misero se si pensa al potenziale colossale della moderna industria, della scienza e della tecnologia. Ora, però, l’economia ristagna e anche questa prospettiva è incerta. Tutto fa pensare a una nuova e profonda recessione su scala mondiale.

Nelle parole di Christine Lagarde, Direttore Generale del FMI, “Inoltre, le prospettive di crescita a medio termine si sono ridotte. La ‘nuova mediocrità’ di cui ho avvertito esattamente un anno fa – il rischio di bassa crescita per un lungo periodo – si profila più vicina […] alto debito, bassi investimenti, e banche deboli continuano a gravare su alcune economie avanzate, soprattutto in Europa;. molte economie emergenti continuano a subire aggiustamenti dopo il boom del credito e degli investimenti post-crisi.

Lagarde ha avvertito che il rallentamento in Cina avrà effetti a catena sui paesi si che basano molto sulla domanda cinese per le loro materie prime. Ha illustrato la possibilità di un periodo prolungato di bassi prezzi delle materie prime, in particolare per i grandi esportatori di materie prime. Ha lamentato che la bassa produttività frena la crescita. Ma questa è una spiegazione che non spiega nulla.

“I rischi sono in aumento”, avverte la Lagarde. “Abbiamo bisogno di una nuova ricetta.” Purtroppo, non ci illumina su cosa potrebbe essere questa nuova ricetta. Ma il Fondo ha il suo libro di ricette aperto alla solita pagina che invita i politici dei “mercati emergenti” ad “attuare le riforme strutturali”, cioè, ad aprire i loro mercati al saccheggio da parte dei capitalisti stranieri, privatizzare le proprietà dello stato e rendere il mercato del lavoro più “flessibile”: cioè, adottare misure che portino a ulteriori attacchi ai posti di lavoro, ai salari e alle condizioni di lavoro.

Al centro della crisi c’è il fatto che gli investimenti produttivi – la chiave di ogni ripresa – sono in calo. La spesa per investimenti è prevista al di sotto dei livelli pre-crisi, anche con la modesta attuale ripresa economica. Ciò significa che il sistema capitalista ha raggiunto i suoi limiti su scala mondiale e in effetti è andato ben oltre. Questo fatto trova la sua espressione nella montagna di debito accumulato che è stato ereditato dall’ultimo periodo. Per diversi anni, le aziende multinazionali hanno investito molto nella “economie emergenti”, ma questa tendenza ora si è invertita, data la sovrapproduzione (“eccesso di capacità”) che interessa le loro economie.

I capitalisti hanno perso fiducia nel sistema. Si siedono su una montagna di migliaia di miliardi di dollari inoperosi. A che serve investire per incrementare la produzione, quando non è possibile utilizzare la capacità produttiva che hanno già? Minori investimenti significano anche ristagno della produttività del lavoro. La produttività negli Stati Uniti sta crescendo a un misero 0,6% all’anno. I capitalisti investono solo per profitto, il che presuppone che vi siano mercati in cui vendere i loro prodotti. La ragione fondamentale per cui non investono sufficientemente per sviluppare la produttività è che c’è una crisi di sovrapproduzione su scala mondiale.

Invece di investire in nuove fabbriche, macchinari e tecnologie, stanno cercando di aumentare i margini di profitto riducendo i salari reali in una corsa verso il basso in tutto il mondo. Ma questo serve solo ad acuire ulteriormente la contraddizione riducendo la domanda, che a sua volta porta a ulteriori cadute degli investimenti.

Il calo dei prezzi e i bassi tassi di interesse, che in tempi normali sarebbero buone notizie, ora diventano un pericolo mortale. Sono l’immagine speculare di stagnazione economica e di calo della domanda. I tassi di interesse sono in calo da dieci anni. Hanno raggiunto il fondo, sono persino diventati negativi. Secondo Haldane, capo economista della Bank of England, sono i tassi più bassi da 5.000 anni.

Bassa crescita, bassa inflazione e tassi di interesse a zero sono ciò che gli economisti borghesi definiscono stagnazione secolare. Il motore economico delle economie industrializzate è a malapena sopra la velocità di stallo. Non può durare a lungo. Secondo gli strateghi borghesi, i pericoli di fronte all’economia globale sono più gravi che in qualsiasi momento dal fallimento di Lehman Brothers nel 2008.

I timori della borghesia sono ben espressi in un discorso del settembre 2015 di Haldane. Ha avvertito: “I recenti avvenimenti formano l’ultima tappa di quello che potrebbe essere chiamata una trilogia della crisi divisa in tre parti. Parte prima della trilogia: la crisi del 2008/09 del mondo ‘anglosassone’. Parte seconda: la crisi del 2011/12 dell’Eurozona. Ora può essere che stiamo entrando nelle prime fasi della terza parte della trilogia, la crisi del 2015, quella dei ‘mercati emergenti’ “.

Il problema per la borghesia è che ha già utilizzato i meccanismi di cui ha bisogno per uscire da una crisi o ridurre il suo impatto. Quando arriverà il prossimo crollo (e bisogna solo capire quando) non avranno strumenti per farvi fronte. I tassi di interesse rimangono molto bassi e il persistere di elevati livelli di debito escludono ulteriori ingenti iniezioni di denaro pubblico. “Gli strumenti per affrontare una tale condizione non sono facilmente disponibili”, osserva Martin Wolf timidamente.

Il debito globale e i BRIC

Da quando è iniziata la crisi, il debito globale è in realtà aumentato. La sospirata guarigione finanziaria c’è stata solo in alcune parti sporadiche dell’economia globale. Il livello del debito è a livelli senza precedenti. Il debito pubblico solo in tempo di guerra raggiungeva i livelli di oggi, mai in tempo di pace, e per le famiglie e le imprese non ha mai raggiunto questi livelli. Prima della crisi, il debito aumentava in tutto il mondo. Negli Stati Uniti ha raggiunto il 160% del PIL nel 2007 e quasi il 200% in Gran Bretagna. In Portogallo, era al 226,7% del PIL nel 2009. Nel 2013, era ancora al 220,4%. Negli Stati Uniti, il debito totale è attualmente al 269% del PIL. Solo una volta prima di ora nella storia aveva raggiunto un tale livello. È stato intorno al 1933, quando ha raggiunto il 258% dopo di che è rapidamente sceso al 180%.

L’obiettivo dell’austerità era abbassare il volume del debito, in particolare quello statale. Ma i dati dimostrano che si è andati in altra direzione. Nel rapporto del febbraio 2015 del McKinsey Global Institute, troviamo che il debito globale è aumentato di 57 mila miliardi di dollari, ossia dal 269% del PIL mondiale al 286%. Questo sta accadendo in ogni settore dell’economia mondiale, ma in particolare per il debito pubblico, che cresce del 9,3% all’anno. Questo aumento dei livelli di debito (“aumento della leva finanziaria”) si registra praticamente in ogni paese. Solo pochi paesi, dipendenti dalla Cina o dal prezzo del petrolio, hanno ridotto i loro livelli di debito, ma anche per loro da un paio di anni non è più così. Questa vasta montagna di debiti è un pesante fardello per l’economia mondiale, soffocando la domanda e trascinando verso il basso la produzione.

Tutte le economie dei cosiddetti BRIC sono in crisi: Brasile, India e Russia sono in difficoltà. In realtà, il Brasile e la Russia sono in una recessione. Il rallentamento nei cosiddetti mercati emergenti sarà ancora più forte che nei paesi capitalisti avanzati. Il FMI prevede che il loro Pil potenziale, che ha continuato a crescere nel periodo precedente la crisi, è destinato a diminuire dal 6,5% l’anno che ha avuto tra il 2008 e il 2014 al 5,2 nei prossimi cinque anni.

La crescita di queste economie è stato uno dei principali fattori che hanno impedito che la crisi del 2008 diventasse una recessione profonda dell’economia mondiale. Nel corso degli ultimi cinque anni, i cosiddetti mercati emergenti hanno rappresentato l’80% della crescita globale. Questi mercati, in particolare la Cina, hanno agito come locomotiva per l’economia mondiale, prima e dopo il crollo. Prima hanno costituito un importante calamita per gli investimenti, quando questi rendevano poco in occidente.

Ora tutto ciò si è trasformato nel suo opposto. Dall’essere un fattore di sostegno al capitalismo mondiale è diventato il principale pericolo che minaccia di trascinare nel baratro l’intera economia mondiale. Non è solo nelle economie sviluppate tradizionali che il debito è aumentato drammaticamente. I debiti dei mercati emergenti si sono gonfiati a livelli senza precedenti. Lo studio di McKinsey dimostra che il debito totale dei “mercati emergenti” è salito a 49mila miliardi dollari alla fine del 2013, pari al 47 per cento della crescita del debito globale dal 2007. Questo è più di due volte la sua quota di crescita del debito tra il 2000 e il 2007.

Secondo il FMI, il totale delle riserve di valuta estera detenute dai “mercati emergenti” nel 2014 (indicatore chiave dei flussi di capitale) ha subito il primo declino annuale dall’inizio delle rilevazioni nel 1995. Questi afflussi di capitale sono come il flusso di sangue per una persona che ha bisogno di una trasfusione. Senza un flusso costante di capitali verso i paesi emergenti, questi non avranno i soldi per pagare i loro debiti e finanziare i loro deficit, ammodernare le infrastrutture ed espandere la produzione.

La BBC riporta anche i dati del Centro Internazionale per gli Studi Monetari e Bancari (ICMBS):

“Da allora [2008], è il mondo in via di sviluppo, in particolare la Cina, che ha guidato l’aumento del debito. Nel caso della Cina, la relazione descrive l’aumento del debito come ‘stellare’. Escludendo le società finanziarie, è aumentato di 72 punti percentuali, a un livello di gran lunga superiore rispetto a qualsiasi altra economia emergente. Il rapporto dice che ci sono aumenti marcati anche in Turchia, Argentina e Thailandia.

“Le economie emergenti sono particolarmente preoccupanti per gli autori del rapporto: ‘Potrebbero essere l’epicentro della prossima crisi. Sebbene il livello di leva finanziaria sia maggiore nei mercati sviluppati, la velocità di crescita della leva nelle economie emergenti, soprattutto in Asia, desta infatti una crescente preoccupazione.”

Alcuni dei deflussi di capitali più significativi si originando dai paesi che hanno accumulato più velocemente i debiti. La Corea del Sud, per esempio, ha visto il rapporto debito/PIL crescere di 45 punti percentuali tra il 2007 e il 2013, mentre Cina, Malesia, Thailandia e Taiwan hanno sperimentato crescite rispettivamente di 83, 49, 43 e 16 punti percentuali.

Queste economie stanno anche rallentando o sono in fase di recessione, con ciò si sta preparando un profondo crollo globale nel prossimo periodo.

Problemi in Cina

L’aspetto più grave di tutti è che l’economia cinese sta frenando vistosamente. Il rallentamento delle economie emergenti è dovuto, da un lato, alla prolungata crisi della domanda nelle economie capitaliste avanzate e, dall’altro, al declino della Cina. Questo scenario deve tradursi in un commercio mondiale più debole, in modo significativo. Dialetticamente, tutto è interconnesso, tanto che la domanda e la debolezza dei mercati indeboliscono la produzione e gli investimenti. Meno investimenti producono una ripresa debole, che a sua volta accresce la debolezza della domanda.

Le statistiche confermano la crescita esplosiva dell’industria in Cina. Tra il 2010 e il 2013, la Cina ha prodotto più cemento degli Stati Uniti in tutto il 20° secolo. Ma l’enorme capacità produttiva dell’industria cinese non è compensata da una corrispondente crescita della domanda mondiale. Il risultato inevitabile è una crisi di sovrapproduzione.

Fino al 2007 la domanda globale è stata trainata dal credito e dalla costruzione di case, soprattutto negli Stati Uniti e in Spagna. Con il crollo, la palla è passata alla Cina, che ha compensato con la crescita degli investimenti infrastrutturali e bancari. Oltre il 40% del PIL è stato investito, fatto che ha sviluppato le forze produttive e la domanda di materie prime ma ha anche creato un enorme eccesso di capacità produttiva.

Lo scoppio della bolla in occidente a partire dal 2008, ha portato lo stato cinese a pompare enormi quantità di denaro nell’economia. Questo a sua volta ha portato a un’enorme bolla speculativa e a un massiccio accumulo del debito a tutti i livelli dell’economia cinese. Questa bolla sta per scoppiare, con conseguenze di vasta portata. La Cina sta seguendo la stessa strada del Giappone, la strada di una stagnazione prolungata. Il rallentamento in Cina, a sua volta, ha significato un crollo dei prezzi delle materie prime, che ha colpito duramente le economie emergenti. Ancora più importante, la Cina rappresenta il 16% della produzione mondiale e il 30% della crescita mondiale. Quando la Cina rallenta, il mondo rallenta.

La sovrapproduzione in Cina sta interessando l’acciaio e altri prodotti. C’è stato un enorme accumulo di debito e ci sono timori di un crollo del mercato immobiliare surriscaldato. Più di 1.000 miniere di ferro sono sull’orlo del collasso finanziario. Il Financial Times prevede che: “La Cina, in particolare, potrebbe vedere una forte contrazione nella crescita del prodotto potenziale, in quanto cerca di riequilibrare la sua economia dagli investimenti ai consumi.”

Il premier cinese Li Keqiang ha detto all’ambasciatore degli Stati Uniti che contava su tre cose per giudicare la crescita economica: il consumo di energia elettrica, i volumi di trasporto delle merci e i prestiti bancari. Su questa base, gli economisti di Fathom hanno compilato un “Indicatore dell’andamento economico della Cina” con questi tre dati. L’indicatore mostra che il ritmo attuale di crescita potrebbe essere addirittura del 2,4%. I volumi di trasporto merci su rotaia sono in forte calo e il consumo di energia elettrica è praticamente fermo. Per rispondere al rallentamento della crescita, la Cina ha tagliato i tassi di interesse per sei volte nel corso degli ultimi dodici mesi. Inoltre ha svalutato la moneta per rilanciare le esportazioni, intensificando il conflitto con gli americani e creando forte instabilità in tutto il mondo.

Il declino della crescita in Cina ha colpito le economie che dipendono dall’esportazione di merci, in particolare quelle che dipendono fortemente dall’economia cinese. I timori di un rallentamento cinese si sono fatti sentire all’interno della Cina stessa, in particolare sul mercato azionario. Le autorità sono intervenute con investimenti per 200 miliardi di dollari per stabilizzare il mercato, ma alla fine non hanno potuto fare molto. Il panico ha travolto gli investitori. “Senza riforme, l’economia cinese può anche rallentare o crollare”, ha sostenuto Tao Ran, professore di economia presso l’Università di Pechino. “Perderemo tutto quello che abbiamo raggiunto negli ultimi 20 o 30 anni.”

Gli economisti della importante società finanziaria giapponese Daiwa sono andati oltre chiunque altro pubblicando un rapporto in cui si parla di un “collasso” finanziario globale, risultante dal cataclisma economico cinese, come scenario più ottimista. Hanno anche evidenziato che l’impatto di questa crisi globale sarebbe “il peggiore che il mondo abbia mai visto.”

Il commercio mondiale

Una delle più gravi minacce per l’economia mondiale è il riemergere di tendenze protezionistiche. La crescita del commercio mondiale nei decenni precedenti e l’intensificazione della divisione internazionale del lavoro (“globalizzazione”) è stata la principale forza motrice dell’economia mondiale. Con questi mezzi i borghesi sono riusciti, in parte e per un periodo temporaneo, a superare i limiti dello stato nazionale. Ma ora tutto il processo si è trasformato nel suo opposto.

Un esempio lampante è l’Unione europea che la borghesia europea (guidata inizialmente da Francia e Germania, ora dalla Germania da sola) ha tentato di unire in un mercato unico con una moneta unica, l’euro. I marxisti hanno spiegato all’epoca che il processo sarebbe fallito e che alla prima grave crisi economica sarebbero riemerse tutte le vecchie divisioni e rivalità nazionali, che erano state nascoste ma non eliminate dal mercato unico.

La crisi dell’euro, che è precipitato nei confronti del dollaro, riflette la gravità della crisi economica. La crisi greca è solo l’espressione più evidente di una crisi che può portare al crollo dell’euro e anche alla rottura della stessa UE. Un tale sviluppo avrebbe gravi conseguenze per l’intera economia mondiale. È per questo che Obama sta invitando gli europei a risolvere la crisi greca a tutti i costi. Capisce che il crollo della UE porterebbe a una crisi anche negli Stati Uniti.

Il 2015 ha segnato il quinto anno consecutivo in cui la crescita media delle “economie emergenti” è diminuita, trascinando verso il basso la crescita mondiale. Prima del 2008, il volume del commercio mondiale cresceva del 6% l’anno, secondo l’OMC. Negli ultimi 3 anni, ha rallentato al 2,4%. Nei primi 6 mesi del 2015, ha subito la peggiore performance dal 2009.

In passato, il commercio era un fattore importante che trainava la produzione, ora non più. Dal 2013, ogni 1% di crescita globale ha prodotto un aumento del commercio di solo lo 0,7%. Negli Stati Uniti, le importazioni manifatturiere non crescono come percentuale del PIL dal 2000. Nel decennio prima erano quasi raddoppiate.

La conclusione è inevitabile: la globalizzazione sta rallentando. Il motore della crescita economica, il commercio mondiale, è in stallo. Il volume del commercio mondiale è sceso in maggio (2015) del 1,2%. In 4 dei primi 5 mesi del 2015 è calato. I negoziati di Doha (“Doha Round”) che dovevano risolvere molti problemi del commercio mondiale, sono andati avanti per 14 anni e sono stati alla fine praticamente abbandonati. Gli Stati Uniti stanno invece cercando di sviluppare blocchi regionali di libero scambio, secondo i propri interessi imperialisti. Recentemente hanno negoziato la Trans-Pacific Partnership (TPP), che potrebbe coprire il 40% dell’economia mondiale, ma è piena di contraddizioni. Ha bisogno di essere ratificata da una serie di paesi, compresi gli Stati Uniti, cosa per nulla sicura. Obama affronta un congresso ostile e potrebbe non essere in grado di ratificarla prima della fine del suo mandato. Problemi analoghi se non maggiori si manifesteranno nella trattativa per il TTIP, che si propone di integrare i mercati di Usa e Unione europea. Il TTIP non è ancora stato firmato e neppure reso pubblico, ma sta già creando forti divisioni fra i paesi europei.

La disuguaglianza

La concentrazione di capitale prevista da Marx ha raggiunto livelli inauditi. Ha creato livelli di disuguaglianza senza precedenti. Un enorme potere è concentrato nelle mani di una piccola minoranza di uomini e donne super-ricchi che in realtà controllano le vite e il destino dei popoli del mondo.

I giovani, le donne e le minoranze soffrono in modo sproporzionato a causa della crisi. Sono i primi a essere licenziati e i primi a subire il maggiore calo dei salari. La crisi aggrava gli effetti della disuguaglianza e della discriminazione di genere, e alimenta il razzismo, la xenofobia e l’intolleranza verso le minoranze tra gli strati arretrati della popolazione.

I giovani stanno soffrendo le peggiori prospettive economiche da molte generazioni. Ciò è riconosciuto da tutti gli economisti borghesi. I giovani hanno subito il più forte calo del reddito e dell’occupazione. Subiscono continui attacchi al sistema educativo, che viene spietatamente distrutto e privatizzato nell’interesse del capitale finanziario. I giovani della classe operaia hanno sempre più a che fare con costi alti e, nel caso frequentino l’università, con un futuro pieno di debiti che in generale è per alcuni un disincentivo a iscriversi.

La maggior parte dei giovani non ha le opportunità che in passato erano date per scontate. Questa è una delle principali cause di instabilità e minaccia di provocare esplosioni sociali. È stato un fattore importante nella cosiddetta primavera araba e rivolte simili sono in fase di preparazione in tutto il mondo.

Ovunque i poveri sono più poveri e i ricchi sono più ricchi. La ONG Oxfam ha pubblicato un rapporto che mostra che la quota di ricchezza mondiale che va al più ricco 1% è aumentata dal 44% del 2009 al 48% del 2014, mentre il più povero 80% attualmente ne possiede solo il 5,5%. Alla fine del 2015 il più ricco 1% del mondo possedeva più ricchezza (50,4%) del restante 99.

I borghesi più perspicaci capiscono il pericolo che questa polarizzazione tra ricchi e poveri rappresenta per il loro sistema. L’OCSE dice che queste dinamiche sollevano questioni sociali e politiche, oltre che economiche. Winnie Byanyima, direttore esecutivo di Oxfam International, ha spiegato che l’aumento della concentrazione della ricchezza registrata dopo la profonda recessione del 2008-09 è “pericoloso e doveva essere invertito”.

Riformatori ben intenzionati hanno sollecitato i leader mondiali ad affrontare i problemi della disuguaglianza, della discriminazione e della esclusione sociale, nonché il cambiamento climatico e altre questioni pressanti per l’umanità. Ma come simili miracoli si dovrebbero raggiungere sotto il capitalismo non è spiegato. Vertici e conferenze si susseguono. Si fanno discorsi, si votano risoluzioni ma non cambia nulla.

Austerità permanente

Si prospetta un periodo molto prolungato in cui le recessioni saranno intervallate a periodi di flebile crescita economica con sempre maggiore difficoltà economiche: in altre parole, l’austerità permanente. Si tratta di un nuovo scenario, del tutto diverso da quella che ha prevalso nei paesi capitalisti avanzati nel periodo del dopoguerra. Le conseguenze politiche non potranno che essere altrettanto diverse.

Abbiamo spiegato molte volte che ogni tentativo della borghesia di ristabilire l’equilibrio economico distrugge l’equilibrio sociale e politico. E questo è esattamente ciò che sta accadendo su scala mondiale. Una recessione economica molto prolungata crea disagio economico e altera i vecchi equilibri. Le vecchie certezze svaniscono e vi è una messa in discussione universale dello status quo, dei suoi valori e delle sue ideologie.

Dall’inizio della crisi finanziaria globale nel 2008 sono stati persi più di 61 milioni di posti di lavoro. Secondo le stime dell’ILO (l’Organizzazione internazionale del lavoro), il numero di persone di senza lavoro continuerà a salire nei prossimi cinque anni, raggiungendo più di 212 milioni nel 2019. L’ILO ha evidenziato che “l’economia globale è entrata in un nuovo periodo che unisce al rallentamento della crescita l’aumento delle disuguaglianze e delle turbolenze”. Se aggiungiamo l’enorme numero di persone impiegate ai margini del mondo del lavoro, nel cosiddetto settore informale, la vera cifra della disoccupazione mondiale supera gli 850 milioni. Questo dato da solo è sufficiente a dimostrare che il capitalismo è diventato un ostacolo intollerabile al progresso.

Nei paesi avanzati i governi stanno cercando di ridurre i livelli di debito accumulato durante la crisi tagliando i salari e le pensioni. Ma le politiche di austerità hanno drasticamente ridotto il tenore di vita senza avere alcun effetto serio sulla montagna di debiti esistente. Tutti i sacrifici dolorosi inflitti alle masse negli ultimi sette anni non sono riusciti a risolvere la crisi; al contrario, l’hanno aggravata.

Né i keynesiani né i monetaristi hanno una vera soluzione. I livelli già intollerabili di debito continuano a crescere inesorabilmente, rappresentando un peso morto sulla crescita. I governi e le aziende stanno cercando di scaricare i problemi sulle spalle della classe operaia e della classe media per abbattere i livelli del debito. Ciò sta avendo profondi effetti sulle relazioni sociali e sulla coscienza di tutte le classi.

Gli effetti politici della crisi

Qui, però, siamo di fronte a quello che sembra a prima vista essere un paradosso inspiegabile. Fino a poco tempo i banchieri e i capitalisti si compiacevano di aver attraversato la crisi più profonda nella storia senza aver prodotto una rivoluzione. Questo risultato sorprendente ha creato in loro uno stupido senso di compiacimento fuori luogo.

Il problema principale di queste persone è che non hanno nemmeno la comprensione più elementare della dialettica, che spiega che tutto prima o poi si tramuta nel suo opposto. Sotto la superficie di calma apparente, c’è una rabbia crescente contro le élite politiche: contro i ricchi, i potenti e i privilegiati. Questa reazione contro lo status quo contiene i semi embrionali di sviluppi rivoluzionari.

È l’abc del materialismo dialettico che la coscienza umana è sempre in ritardo sugli eventi, ma prima o poi si porta a pari con un salto che è ciò in cui consiste precisamente una rivoluzione. Quello a cui stiamo assistendo in molti paesi è l’inizio di un cambiamento rivoluzionario della coscienza politica che sta scuotendo le istituzioni e i partiti tradizionali dalle fondamenta. È vero che la coscienza è in larga misura modellata dai ricordi passati e ci vorrà del tempo perché le masse si liberino delle vecchie illusioni nel riformismo. Ma sotto i colpi di martello degli eventi ci saranno cambiamenti improvvisi e bruschi nella coscienza. Guai a coloro che cercano di basarsi sulla coscienza di un passato che è già scomparso e non ritornerà! I marxisti devono basarsi sul processo che si svolge ora e sulle prospettive per il prossimo periodo, che non sarà una semplice ripetizione del passato.

La crisi scuote la coscienza delle masse su una scala mai vista da generazioni, generando grandi movimenti in un paese dopo l’altro. Quanto abbiamo visto in Grecia, Spagna, Portogallo, Francia, Usa, ecc. è una prima tappa nel risveglio politico, una tappa alla quale ne seguiranno altre, ancora più vaste e profonde.

Quali sono le caratteristiche di queste mobilitazioni? Di fatto possiamo parlare di una mobilitazione che vede un fronte tra la classe operaia e vasti settori di ceti semiproletari e anche di piccola borghesia, destabilizzati dalla crisi del capitalismo.

Anche nei paesi avanzati, dove i lavoratori salariati costituiscono la larga maggioranza della popolazione attiva, esistono ampi strati semiproletari di piccola borghesia, intellettuali, settori relativamente privilegiati del lavoro salariato, ecc. che sono stati profondamente scossi dalla crisi economica. Anzi, sotto certi aspetti la caduta relativa nelle condizioni economiche di settori piccolo borghesi è stata ancora più violenta che per la classe operaia, data la loro natura sociale frantumata e la loro difficoltà nel difendersi attraverso l’azione collettiva.

La confusione e le illusioni espressi da dirigenti come Iglesias, Sanders, Corbyn, Tsipras, ecc. è in parte il riflesso dello stato iniziale del movimento, che non entra in campo con un programma fatto e finito di rovesciamento del capitalismo. Ma questa è solo una parte della verità. La natura eterogenea, contraddittoria e in fin dei conti utopistica di questi programmi è anche il riflesso degli interessi e dei programmi di classi diverse, in particolare della piccola borghesia che ha forti punti di contatto e di affinità con lo strato dirigente delle organizzazioni operaie.

Da questi settori scaturiscono parole d’ordine “utopistiche” quali il “commercio regolato” (in contrapposizione alla deregolamentazione del commercio internazionale perseguita dalle grandi multinazionali), lo sviluppo del mercato interno (e quindi una riduzione delle “eccessive” diseguaglianze sociali), la riduzione del potere delle grandi banche o la loro suddivisione in entità più piccole, la richiesta di una politica “onesta”, ecc. La sintesi politica di queste idee è la rivendicazione di una democrazia “più autentica”, di una rinascita della democrazia politica, nella quale il comune cittadino possa contare quanto i miliardari.

La “Corbyn revolution”, la “rivoluzione politica contro la classe dei miliardari” di cui parla Sanders, la retorica iperdemocratica di Iglesias, cercano di disegnare una democrazia perfetta, una democrazia che sotto il capitalismo non è mai esistita e tantomeno può esistere oggi, ma che esercita grande attrattiva su milioni, anzi miliardi di persone che si sentono giustamente defraudate e derubate del loro diritto di decidere sul proprio futuro e su quello della società.

La lotta contro le politiche di austerità condotta da ampi strati di lavoratori, di disoccupati, di giovani e anche di settori non strettamente proletari rovinati dalla crisi, ha cercato di darsi una espressione politica, soprattutto sul piano elettorale. Da qui l’ascesa elettorale di Syriza, l’elezione di Jeremy Corbyn a capo del Partito laburista britannico, il voto per Podemos e i suoi alleati in Spagna e per le sinistre in Portogallo, o il successo della campagna di Bernie Sanders nelle primarie Usa contro Hillary Clinton. Il movimento di massa iniziato in Francia ad un certo punto darà luogo a sviluppi simili, anche se non è ancora possibile prevedere esattamente come e dove si manifesteranno.

Ogni volta che uno di questi personaggi appare sulla scena e viene proiettato a grande altezza e visibilità, gli intellettuali della sinistra si precipitano ad “analizzarli”, cercando di scoprire il segreto dei loro successi e di imitarli. Non capiscono che se Iglesias o Tsipras sono apparsi tutto a un tratto come dei veri e propri giganti, non è per la loro statura o per qualche dote nascosta dei loro partiti, ma perché vengono spinti in alto da un’onda gigantesca. Invece di guardare il fuscello che viene spinto in alto, dobbiamo capire l’onda che lo spinge (e che può poi abbandonarli, facendoli precipitare in basso con la stessa rapidità con cui li ha spinti in alto).

In ognuno di questi casi, il movimento ha seguito percorsi diversi, sfruttando in modo empirico le possibilità che si aprivano. In Grecia ha trasformato un piccolo partito del 4 per cento (il Synaspismos) nel primo partito del paese; in Spagna ha creato un partito completamente nuovo (Podemos); in Gran Bretagna ha rivoluzionato un partito di massa esistente da oltre un secolo, il Labour Party, con l’afflusso di centinaia di migliaia di persone, soprattutto giovani, che hanno improvvisamente visto nelle primarie per l’elezione del nuovo segretario uno strumento per far sentire la loro voce.

Tuttavia nel capitalismo odierno nessun vero movimento di massa contro la classe dominante può esprimersi senza la partecipazione della classe operaia, dato il suo peso economico e numerico preponderante. Pertanto in tutti questi movimenti si affiancano in modo eclettico e contraddittorio programmi di matrice piccolo borghese o anche borghese, con rivendicazioni che esprimono in modo parziale gli interessi dei lavoratori, (il salario minimo di 15 dollari nella campagna di Sanders, o le proposte una educazione e una sanità pubbliche e universali, ecc.)

“Le masse danno inizio a una rivoluzione non sulla base di un piano organico di trasformazione sociale, ma con la sensazione profonda di non poter sopportare più il vecchio regime (…) Il processo politico essenziale di una rivoluzione consiste esattamente nel fatto che la classe acquista coscienza dei problemi posti dalla crisi sociale e le masse si orientano attivamente secondo il metodo delle approssimazioni successive.” (L. Trotskij, prefazione alla Storia della rivoluzione russa).

Salvo eccezioni molto particolari, è di norma impossibile che le masse abbraccino in prima istanza un programma rivoluzionario compiuto. Anche quando sono disgustate dalla situazione in cui vivono, anche quando cominciano a mobilitarsi contro lo status quo, la prima conclusione a cui giungono non è che sia l’intero sistema socioeconomico da rovesciare fin dalle fondamenta. Cercano una soluzione più semplice: cambiare un governo, cambiare i dirigenti politici, fare leggi migliori, colpire questo o quel singolo aspetto particolarmente ripugnante del sistema, nella speranza che le cose migliorino.

La rivoluzione sociale non è la prima opzione che viene abbracciata, ma quella alla quale si perviene quando tutte le altre hanno fallito.

Questo non vuole dire che le masse siano “moderate” o “arretrate”. Ma solo mettendo alla prova le diverse tendenze politiche possono giungere alla conclusione che il loro odio verso questo sistema può trovare una espressione compiuta solo nel programma del marxismo rivoluzionario. Questa è anche la lezione di tutte le grandi rivoluzioni, compresa la rivoluzione russa.

Il movimento di cui vediamo ora le prime tappe verrà inevitabilmente lacerato dalle contraddizioni di classe, e solo per questa via potrà arrivare ad assolvere i suoi compiti storici rovesciando questo sistema.

Il marxismo non è solo uno strumento di analisi della crisi economica e della politica. È’ la lama affilata che usiamo per recidere uno dopo l’altro, quei fili politici e ideologici con i quali la classe dominante tenta continuamente di imbrigliare e deviare il movimento delle masse, facendo leva soprattutto sui settori più privilegiati e conservatori (le burocrazie sindacali, i parlamentari, i dirigenti che venendo spinti in alto, nella sfera della “politica nazionale”, tendono fatalmente a distaccarsi dalla loro base).

Il marxismo può e deve uscire dalla condizione di una tendenza minoritaria come l’unica teoria che può guidare questo processo di chiarificazione e rottura all’interno del movimento di massa, e per l’affermazione al suo interno degli interessi di classe del proletariato

Alla ricerca di un modo per uscire dalla crisi, le masse metteranno alla prova un partito dopo l’altro. I vecchi leader e i vecchi programmi vengono analizzati e scartati. I partiti che vengono eletti e tradiscono le speranze delle masse, portando avanti l’austerity calpestando le promesse elettorali, si ritrovano rapidamente screditati. Le ideologie tradizionali vengono rapidamente screditate. Leader che erano popolari diventano odiati. Cambiamenti bruschi e repentini sono all’ordine del giorno

C’è una rabbia crescente contro le élite politiche: contro i ricchi, i potenti e privilegiati. Questa reazione contro lo status quo, che contiene i semi embrionali di sviluppi rivoluzionari, può durare ben oltre il punto in cui l’economia comincia a registrare segnali di miglioramento. La gente non crede più a ciò che i politici dicono o promettono. Vi è una disillusione crescente verso l’establishment politico e nei partiti politici in generale. Vi è un senso di malessere economico generalizzato e profondo alla base della società ma manca il veicolo capace di dare una espressione organizzata a tali sentimenti.

In Francia, la lotta contro la cosiddetta legge sul lavoro ha segnato un salto di qualità nello sviluppo della lotta di classe e della radicalizzazione politica di una grossa parte della gioventù e della classe operaia. Come durante la mobilitazione del 2010 contro la controriforma del sistema pensionistico, è iniziata un’ondata di scioperi riconovocabili in diversi settori chiave dell’economia (energia, portuali, raffinerie, mezzi di trasporto, ecc.) su iniziativa della base del sindacato. Sotto la pressione dei suoi attivisti, la direzione della CGT (la più grande confederazione sindacale) è stata costretta a sostenere – almeno a parole – questi scioperi, mentre nel 2010 li condannò. Una grossa fetta degli attivisti sindacali ha criticato apertamente la strategia delle “giornate di azione” e ha chiesto un indurimento dei metodi di lotta.

Allo stesso tempo, il movimento delle “notti in piedi” (Nuit Debout) ha espresso la radicalizzazione dei giovani, proprio come in Spagna, in Grecia e negli Stati Uniti nel 2011. Le manifestazioni si sono caratterizzate fin dall’inizio per la volontà di collegarsi al movimento operaio e spingerlo verso azioni più radicali, come lo sciopero generale. Ancora più significativo è che queste assemblee generali abbiano messo in discussione non solo le controriforme, ma anche il sistema capitalista e le sue istituzioni.

Il movimento contro la legge del lavoro avrà conseguenze politiche a breve termine. Il Partito socialista (PS) è ancora più screditato. Francois Hollande è il presidente più impopolare dal 1958. Questo apre uno spazio politico enorme alla sinistra del PS. In prospettiva, verso elezioni presidenziali del 2017, il movimento di Melenchon (La France Insoumise – Francia Ribelle) potrebbe cristallizzare l’opposizione di sinistra contro l’austerità e il “sistema”, a un livello molto più elevato che nel 2012.

In Grecia abbiamo visto il crollo del Pasok e l’ascesa di Syriza. In Spagna abbiamo l’ascesa del Podemos. In Scozia abbiamo visto la vittoria del SNP. In Gran Bretagna abbiamo assistito al fenomeno Corbyn. Tutto ciò è espressione del malcontento profondo che esiste nella società ed è alla ricerca di una espressione politica.

Abbiamo visto lo stesso processo in Irlanda nel recente referendum. Per secoli, l’Irlanda è stato uno dei paesi più cattolici d’Europa. Non molto tempo fa, la Chiesa aveva il dominio assoluto su ogni aspetto della vita. Il risultato del referendum sul matrimonio gay, dove il 62% ha votato Sì, ha assestato un colpo sbalorditivo alla Chiesa Cattolica. È stata una protesta di massa contro il suo potere e le interferenze nella politica e nella vita delle persone. Questo ha rappresentato un cambiamento fondamentale nella società irlandese.

Gli Stati Uniti

Gli Stati Uniti erano l’unico tra i principali paesi capitalisti che sperimentava una certa ripresa, anche se era debole e anemica. La maggior parte della crescita registrata lo scorso anno è dovuta alla formazione di scorte (stock invenduti). In realtà la crescita sta rallentando negli Stati Uniti e ha già subito un rallentamento in Giappone e nell’Unione europea. Da luglio 2015 il FMI ha ridotto tutte le sue previsioni di crescita. Così, nulla rimane della tanto decantata ripresa.

La debolezza dell’economia mondiale e in particolare delle cosiddette economie emergenti ha portato a una fuga precipitosa verso il dollaro, che è ancora visto come un rifugio sicuro in tempi di crisi. Ma la forza del dollaro è di per sé un problema per gli Stati Uniti, fornendo un vantaggio competitivo ai suoi concorrenti e danneggiando le esportazioni. Lo scorso anno, le esportazioni e le importazioni negli Stati Uniti sono diminuite, riflettendo la debolezza generale dell’economia mondiale.

La crisi sta polarizzando la società americana. L’amministrazione Obama è considerata un fallimento. Il fatto che il messaggio anti-establishment di Donald Trump e Bernie Sanders ha successo tra così tanti americani è un esempio di alienazione di milioni di persone dalla politica ordinaria. C’è una polarizzazione verso sinistra e verso destra – un processo che si sta svolgendo a livello internazionale.

La retorica reazionaria di Trump fa presa tra le persone che si sentono distanti dalla classe politica a Washington. Il suo successo nelle primarie è stato uno shock per la direzione del partito repubblicano il partito sta affrontando crisi e scissioni. Le elezioni presidenziali degli Stati Uniti presentano sviluppi tra i più interessanti. È ovviamente impossibile prevedere il risultato con qualsiasi grado di certezza, data la congiuntura estremamente instabile e volatile della politica americana, sebbene sia chiaro come Hillary Clinton sia il candidato preferito della classe dominante. I media si concentrano in modo unilaterale su Donald Trump. Tuttavia, di gran lunga più significativo di Trump o Clinton è stato il massiccio sostegno per Bernie Sanders, che parla apertamente di socialismo. L’emergere di Bernie Sanders come sfidante per la nomination democratica a candidato per la presidenza è un sintomo di profonda insoddisfazione e fermento nella società. I suoi attacchi contro “la classe dei miliardari” e il suo appello per una “rivoluzione politica”, fanno presa su milioni di persone, e decine di migliaia di loro partecipano ai suoi comizi.

La parola “socialismo” è ora usata di frequente anche nei media mainstream. Un sondaggio del 2011 ha rilevato che il 49% delle persone tra 18 e 29 anni aveva un’opinione positiva del socialismo, contro solo il 47% nei confronti del capitalismo. Un sondaggio più recente, del giugno 2014, ha rilevato che il 47% degli americani voterebbe per un socialista e il 69% di quelli sotto i 30 anni.

Un gran numero di persone, molte delle quali giovani, non vedono l’ora di ascoltare le parole di Bernie Sanders. È ovvio che si tratta di un programma simile alla socialdemocrazia scandinava e non di un programma davvero socialista, ma anche così, è un sintomo significativo che qualcosa sta cambiando negli USA.

Bernie Sanders ha sfruttato uno stato d’animo di massa di odio per le istituzioni e per il governo dei miliardari e dei banchieri di Wall Street. La crisi mondiale ha scosso l’America alle fondamenta. Un americano su cinque vive ora in famiglie povere o ai confini della povertà. Quasi sei milioni sono scesi a livelli di reddito di estrema povertà per via della crisi finanziaria globale.

Il governo si vanta che il tasso di disoccupazione è sceso al 5% ma questo non succede per la crescita economica, ma per il calo della forza lavoro. Se i lavoratori fossero gli stessi del 2008, il tasso di disoccupazione supererebbe il 10 per cento. I lavoratori sono stati costretti ad accettare posti di lavoro a bassa retribuzione insicuri, con salari minimi.

Con una crescita stagnante e un alto tasso di disoccupazione nella zona euro, il Giappone in recessione e la crescita degli Stati Uniti che tocca se va bene il 2-2,5%, nessuna zona del mondo può servire da motore per un nuovo boom. Nell’ultimo periodo le nazioni industrializzate sviluppate hanno dipeso dai cosiddetti mercati emergenti per sostenere l’economia globale. Questo non è più possibile.

L’Europa

In tutta Europa la gente si sta rendendo conto del fatto che le politiche di austerità non sono soltanto una misura temporanea ma rappresentano un attacco permanente al tenore di vita. In paesi come la Grecia, il Portogallo e l’Irlanda queste politiche hanno già portato a grossi tagli ai salari e alle pensioni nominali senza aver minimamente risolto il problema del deficit. Quindi tutte le sofferenze e le privazioni a cui è stata sottoposta la popolazione sono state inutili.

L’Europa si trova davanti un lungo periodo di bassa crescita e deflazione. Il tentativo di ridurre il debito in una situazione simile sarà “più duro e sanguinoso” di quanto non sia stato finora. Presa nel suo insieme l’Eurozona non è ancora tornata ai livelli pre-crisi del 2007. E questo nonostante una serie di fattori che avrebbero dovuto promuovere la crescita: il basso prezzo del petrolio, il programma di quantitative easing della BCE (che ammonta a 60 miliardi di euro al mese) e l’euro debole, che avrebbe dovuto favorire le esportazioni.

Inoltre l’inflazione estremamente bassa non è segno di salute economica ma di malessere cronico; è il riflesso della bassa domanda da parte dei consumatori che a sua volta è conseguenza del grande debito accumulato e del crollo dei redditi. Questo probabilmente innescherà una spirale discendente che potrebbe sfociare in una recessione. Per tutta risposta si parla di ulteriori tagli sui tassi d’interesse bancari e di un incremento del programma di QE.

Commentando la situazione, il Presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi scrive: “Ci sono voluti tra i cinque e gli otto trimestri per i paesi che ora compongono l’area euro per tornare ai propri livelli di produzione reale pre-recessione dopo le crisi degli anni ’70, ’80 e ’90. Durante l’ultima recessione- che è stata riconosciuta ufficialmente come la peggiore dagli anni ’30- ci sono voluti 14 trimestri perché l’economia USA ritornasse al livello pre-crisi. Se le nostre stime sono corrette, ci vorranno 31 trimestri perchè l’area euro ritorni ai propri livelli di produzione pre-crisi, il che significa nel 2016”.

Persino questa è in realtà una previsione troppo ottimistica. A causa del suo attuale stato di debolezza l’Unione Europea è sensibile agli scossoni. Il rallentamento in Cina e la crisi dei “mercati emergenti” sta avendo effetti negativi soprattutto sulla Germania, che esporta macchinari in Cina. Dal momento che le esportazioni costituivano il 45,6% del PIL della Germania nel 2014, l’unico Paese che avrebbe potuto fare da forza motrice per la ripresa dell’Europa non si trova più nelle condizioni di giocare questo ruolo.

Più bassa sarà la crescita, più alto sarà il peso del debito. Ce lo insegna la Grecia. In queste condizioni default e perdite finanziarie si susseguiranno come la notte segue il giorno, insieme a ondate di bancarotta e collassi economici in un Paese dopo l’altro.

L’impasse economica ha avuto l’effetto di inasprire le contraddizioni e provocare serie tensioni tra gli stati nazionali dell’Europa. La crisi dei rifugiati e la questione di chi avrebbe dovuto pagare per questa crisi è stato un catalizzatore che ha fatto emergere tutte queste contraddizioni. Ha portato ad un rabbioso conflitto tra la Germania e i Paesi dell’ Est Europa (Polonia, Ungheria) che fino a non molto tempo fa erano ridotti allo stato di colonie tedesche virtuali.

La Francia e la Germania si trovano in una guerra di posizione a proposito dell’unione bancaria, cosa per cui la Francia preme mentre la Germania punta i piedi. I galantuomini di Berlino ovviamente non sono entusiasti davanti alla prospettiva di dover fare da garanti per le banche degli altri paesi: si sentono come un uomo ricco costretto a lasciare la propria carta di credito nelle mani di un vicino finito varie volte in tribunale per bancarotta.

Il salvataggio della Grecia non è ancora una questione risolta, nonostante la capitolazione di Tsipras. Non sarà facile per lui mettere in pratica i drastici tagli chiesti dalla Merkel e compagnia. I lavoratori greci opporranno resistenza ai tagli e alle privatizzazioni e ci sarà un’ulteriore intensificazione della lotta di classe. Ad un certo punto questo provocherà una crisi del governo e un nuovo scontro con la Troika, che paventerà ancora una volta lo spettro dell’uscita della Grecia dall’Euro e di una crisi dell’eurozona.

C’è poi la piccola questione del prossimo referendum britannico sull’UE. Cameron rappresenta il Partito Conservatore che si è sempre opposto strenuamente ad una più profonda integrazione nell’UE. I negoziati saranno difficili. Cameron deve dimostrare di avere strappato alcune importanti concessioni e la Merkel invece di non avergli concesso un bel niente.

L’allargamento dell’Unione Europea ha subito una brusca battuta d’arresto. L’Europa non è più nella posizione di poter integrare nuovi e potenziali membri dell’Est. Dopo aver dondolato davanti agli occhi dell’Ucraina la carota di un rapporto più stretto con l’UE, quel paese sfortunato è stato abbandonato: nuotare o affogare, e di fatto sta affogando. Inoltre il processo di integrazione europea (che si è spinto più in là di quanto pensavamo possibile) sta ora facendo marcia indietro, dato che sono stati imposti di nuovo i controlli di frontiera.

La crisi in Europa sta provocando veloci cambiamenti nella coscienza. Le elezioni regionali del dicembre 2015 in Francia lo dimostrano. Il Fronte Nazionale è emerso come primo partito nella prima tornata elettorale, col Partito socialista terzo, dietro il raggruppamento conservatore “Les republicains” di Sarkozy, ma il partito di gran lunga maggioritario è stato quello dell’astensione (più del 50%), espressione dell’alienazione della gran parte della popolazione nei confronti di tutti i principali partiti politici.

In Spagna, nel 2011, il Partito Popolare (PP) di destra ha vinto le elezioni. La spiegazione di questa vittoria risiede nel fatto che il precedente governo “di sinistra” del Partito Socialista (PSOE) ha portato avanti una politica di tagli che ha deluso le masse e ha portato inevitabilmente alla vittoria del Partito Popolare. Ma ora vediamo il processo opposto con l’ascesa di Podemos, che dal nulla è cresciuto fino a diventare un movimento di centinaia di migliaia di persone nel giro di 18 mesi.

In Spagna ci sono un fermento e un processo di radicalizzazione che continuano a svilupparsi. Le elezioni generali di dicembre non hanno risolto nulla. Il PP ha perso la propria maggioranza e il risultato è una crisi governativa che probabilmente porterà a nuove elezioni. Il diffuso sostegno per Podemos, che ha incrementato il proprio numero di seggi da zero a 69, sta allarmando la classe dominante.

La rapida crescita di Podemos riflette il profondo malcontento verso l’intero ordine politico esistente. Al momento si potrebbe dire che le masse non sanno esattamente cosa vogliono, ma sanno molto bene cosa non vogliono. L’aperta critica di Pablo Iglesias verso le banche e verso i ricchi e la sua denuncia nei confronti dell’establishment politico, che definisce “La Casta”, riflettono molto bene la rabbia delle masse.

È vero che le idee dei dirigenti di Podemos sono confuse e poco chiare. Ma questo corrisponde all’attuale stato della coscienza delle masse, che si sono appena affacciate alla vita politica, e quindi non impedirà a Podemos di crescere, almeno nel periodo iniziale. Tuttavia se non verrà corretta questa mancanza di chiarezza alla fine potrà distruggere Podemos. Ben presto dovrà decidere da che parte stare e in che direzione intende andare.

Tutti questi processi saranno accelerati nel caso di una profonda crisi. L’Europa si troverà davanti una situazione molto più simile agli anni ’20 e ’30 che agli anni del Secondo Dopoguerra: un lungo periodo di sconvolgimenti politici e sociali con violente oscillazioni a sinistra e a destra. Tuttavia, sebbene ci siano delle similitudini, ci sono anche profonde differenze rispetto al periodo tra le due Guerre Mondiali. I rapporti di forza tra le classi sono completamente diversi.

Questo significa che la borghesia europea si trova davanti ad un dilemma insormontabile. È costretta a tentare di abolire le riforme conquistate dalla classe lavoratrice nell’ultimo mezzo secolo ma si scontra con la caparbia resistenza della classe lavoratrice. Proprio per questo la crisi andrà avanti per anni con alti e bassi.

Le previsioni di Donald Tusk

Le cifre generali sulla disoccupazione nell’eurozona mascherano le profonde differenze esistenti tra Paesi più ricchi e Paesi più poveri. Prima della crisi il tasso di disoccupazione nelle più grandi economie della regione era grossomodo simile ad adesso.

Nel 2016 l’UE tenterà di accelerare la brutale politica di tagli e austerità sotto il tiro dello slogan del “consolidamento fiscale”. I più seri strateghi del Capitale sono in grado di vedere i pericoli impliciti in questa situazione. Sono arrivati alle stesse conclusioni dei Marxisti. Scrivendo sul Financial Times il 14/06/2015, Wolfgang Munchau avvisava che l’Europa si trova sotto “la costante minaccia dell’insolvenza e dell’insurrezione politica … La morale della favola è che tutte le misure post-crisi saranno molto più brutali di quelle applicate in Giappone 20 anni fa. In un simile contesto mi aspetto che il contraccolpo politico si faccia ben più serio … Anche se la riduzione della leva finanziaria dovesse funzionare -cosa che non è scontata- potrebbe non funzionare da un punto di vista politico… Cercando di ridurre l’instabilità politica, finirebbero per peggiorare l’instabilità finanziaria.”

Più recentemente Donald Tusk, l’ex primo ministro polacco che ora è a capo del Consiglio Europeo, ha dichiarato di temere il “contagio politico” da parte della crisi greca molto più delle sue ricadute finanziarie.

“Sono davvero spaventato dal contagio politico o ideologico, non dal contagio finanziario, da parte di questa crisi greca” ha detto. “C’è sempre lo stesso schema dietro le più grandi tragedie della nostra storia europea, questa alleanza tattica tra i radicali di ogni schieramento. Oggi, senza dubbio, vediamo lo stesso fenomeno politico.”

È stato proprio lo stesso Tusk a giocare un ruolo chiave (insieme ad Angela Merkel) nel costringere Alexis Tsipras ad accettare le brutali condizioni che avrebbero implicato misure d’austerità indiscriminate, compresi la privatizzazione di 50 miliardi di euro di patrimonio pubblico greco, tagli alle pensioni, inasprimento delle tasse e ulteriori forti tagli. Lo stesso Tusk ha poi protestato, dicendo di non poter accettare l’argomentazione per cui “qualcuno è stato punito, soprattutto Tsipras o la Grecia. L’intero processo era per aiutare la Grecia”.

Ma Tusk ha anche dichiarato di essere preoccupato dall’estrema sinistra, che a suo dire sta fomentando “questa illusione della sinistra radicale che sia possibile costruire una qualche alternativa” all’attuale modello economico dell’Unione Europea. Ha accusato quei dirigenti della sinistra radicale di voler mettere da parte valori europei tradizionali come la “parsimonia” e i principi del libero mercato che hanno reso un buon servizio all’UE.

Come in altre parti del mondo, la gioventù è particolarmente colpita da tutto questo, con livelli di disoccupazione che continuano a crescere. Al momento nella più grande economia della regione, la Germania, la disoccupazione giovanile è al 7,1%. In Italia più del 40% dei ragazzi sotto i 25 anni che cercano un impiego sono senza lavoro. Le cifre sono del 24% per la Francia e del 17% per la Gran Bretagna. Ma sono sopra al 45% in Grecia e in Spagna.

La classe dominante si rende conto molto bene del pericolo che questa situazione rappresenta per il loro sistema. Lucrezia Reichlin della London Business School ha dichiarato: “In Italia c’è una gran quantità di giovani che rischia di essere persa per sempre e che col tempo creerà pressione politica. Al momento l’opposizione italiana è frammentata ma non sarà necessariamente così per sempre”.

Donald Tusk, riferendosi a Tsipras, ha detto che la retorica febbrile dei dirigenti della sinistra radicale accoppiata all’alta disoccupazione giovanile in molti Paesi può rappresentare una combinazione esplosiva: “Secondo me l’atmosfera in Europa ricorda un po’ quella del post ‘68” ha detto. “Si avverte, se non un vero e proprio sentimento rivoluzionario, una specie di impazienza diffusa. Quando l’impazienza diventa un sentimento non più individuale ma sociale, diventa l’inizio delle rivoluzioni”.

La crisi greca ha avuto un impatto che è andato ben aldilà della Grecia. L’idea dell’integrazione europea è andata in pezzi. Nei negoziati la Germania si è comportata come un direttore d’orchestra dittatoriale. La Merkel non ha fatto segreto di essersi personalmente occupata dell’intera faccenda. La borghesia francese, che un tempo si illudeva di essere uno dei due paesi che governano dell’Europa, ha dovuto stare attenta a non fare troppo rumore nell’esprimere eventuali dubbi e preoccupazioni. Queste tensioni verranno fuori sempre più bruscamente man mano che la crisi andrà approfondendosi.

La vera natura della democrazia borghese quale falsa facciata è diventata chiara agli occhi di milioni di persone. La Merkel lo ha detto molto chiaramente: i referendum popolari e le elezioni non hanno alcun valore; i poteri forti e chi governa veramente l’Europa, le banche e i capitalisti, prenderanno comunque tutte le decisioni, senza tenere conto del parere della maggioranza. Al contempo l’umiliante capitolazione di Tsipras ha messo in mostra i limiti del riformismo e della socialdemocrazia.

Questo è un periodo di guerre, rivoluzioni e controrivoluzioni. Ma questo non significa, come pensano le sette ignoranti, che il fascismo o il bonapartismo siano pericoli imminenti. Nel lungo termine, ovviamente, se la classe lavoratrice non troverà una via d’uscita, la classe dominante cercherà di dirigersi verso la reazione. Ma, in virtù dei mutati rapporti di forza tra le classi, ciò non assumerà la forma del fascismo come in passato, ma piuttosto di un qualche tipo di regime bonapartista. In ogni caso non potrebbero instaurare subito una dittatura militare senza correre il rischio di una guerra civile che non avrebbero nessuna garanzia di vincere.

Prima o poi la classe dominante deciderà che la democrazia è un lusso che non si può più permettere. Ma si muoveranno con cautela, un passo alla volta, erodendo gradualmente i diritti democratici e dirigendosi in prima battuta verso un bonapartismo parlamentare. Ma in condizioni di crisi del capitalismo un regime bonapartista reazionario sarebbe instabile. Non risolverebbe nulla e probabilmente non durerebbe a lungo. Preparerebbe solo la strada per sollevazioni rivoluzionarie ancora maggiori, così come la Giunta dei colonnelli in Grecia del 1967-1974 è finita con una rivoluzione. Dobbiamo essere pronti a questo tipo di sviluppi e non dobbiamo lasciarci destabilizzare dagli eventi.

Gran Bretagna

L’elezione di Corbyn a leader del Partito Laburista con una larga maggioranza dei voti ha trasformato l’intero scenario in Gran Bretagna praticamente da un giorno all’altro. Questo sviluppo era stato anticipato dagli eventi in Scozia, dove la rivolta contro l’establishment si è riflessa nella rapida crescita del SNP. Non si è trattato di uno spostamento a destra, ma a sinistra. Non è stata l’espressione di un sentimento nazionalista ma di un odio bruciante verso la logora élite che governa a Westminster. Il Partito Laburista, a causa delle vigliacche politiche di collaborazionismo di classe dei suoi dirigenti, è stato visto come parte di quell’establishment.

In sé l’elezione di Corbyn è stata frutto di una serie di eventi casuali. Ma Hegel ha sottolineato come la necessità si esprima attraverso il caso. Il fatto che Corbyn abbia potuto presentarsi alle elezioni a leader del partito ricade nella categoria filosofica del caso, cioè di qualcosa che sarebbe potuta accadere o meno. Ma attraverso questo fatto casuale, si è espressa la necessità di uno sbocco alla frustrazione dei lavoratori e dei giovani britannici. La pressione per un tale sbocco si è formata nel periodo precedente a causa della disillusione verso l’establishment e, se non ci fosse stato il caso particolare dell’ammissione alle primarie per Corbyn, questa necessità si sarebbe espressa altrove – come in Scozia. Questo ha trasformato l’intera situazione.

Sin dalla sua primissima apparizione in un dibattito televisivo Corbyn si è chiaramente distinto dagli altri candidati. Si batteva per qualcosa di diverso, più fresco, più onesto, più radicale e più in sintonia con le reali aspirazioni di milioni di persone, che ne avevano abbastanza dello status quo e volevano esprimere il proprio rifiuto verso l’establishment.

Prima delle elezioni politiche si muoveva poco o niente nel Partito Laburista. Ma la campagna per Corbyn ha trasformato la situazione. È stato proprio il catalizzatore che ci voleva per incanalare tutto il malcontento accumulato nella società che fino ad allora non aveva trovato modo di esprimersi, e men che meno nel Partito Laburista dominato dalla destra.

L’elezione di Jeremy Corbyn ha fornito ciò che mancava in Gran Bretagna: un punto di riferimento per il malcontento e la frustrazione accumulati dalle masse. È cominciato un movimento che utilizza il Labour Party per resistere e questo movimento viene spinto a sinistra. Questo ha finito per rappresentare un pericolo mortale per la classe dominante che è disposta a tutto per farlo a pezzi.

Per decenni il Partito Laburista guidato dalla destra è stato un pilastro a sostegno del sistema vigente. La classe dominante non è disposta a perdere questo pilastro senza lottare con le unghie e con i denti. La prima linea di difesa del sistema capitalista è proprio il gruppo parlamentare del Partito Laburista. La maggioranza blairiana del Partito Laburista Parlamentare è l’agente diretto e cosciente dei banchieri e dei capitalisti in questa battaglia. Questo spiega la loro fanatica determinazione nel liberarsi di Corbyn ad ogni costo. Si prepara il terreno per una scissione nel Partito laburista che creerà una situazione interamente nuova in Gran Bretagna.

Non è diviso solo il partito Laburista, ma anche quello Conservatore, specialmente sulla questione dell’UE. L’esito del referendum britannico è difficile da prevedere, ma l’uscita della Gran Bretagna dall’UE avrebbe gravissime conseguenze sia sull’Europa che sulla Gran Bretagna. Da un lato accelererebbe il percorso di disintegrazione che potrebbe finire nella distruzione dell’Unione Europea. Dall’altro, se il Regno Unito lasciasse l’Unione Europea, i nazionalisti scozzesi, che sono a favore dell’UE, chiederebbero un altro referendum sull’indipendenza che potrebbe portare alla fine della Gran Bretagna come stato unitario.

Le fratture all’interno del Partito Conservatore sono destinate ad approfondirsi, probabilmente fino alla scissione dell’ala destra anti-europeista che potrebbe fondersi con l’Ukip anti-europeista e anti-immigrati e formare un partito bonapartista-monarchico alla destra dei Conservatori. Sul versante opposto, la destra laburista si sta chiaramente dirigendosi verso una scissione dal Partito Laburista. Sebbene sia loro che la borghesia siano spaventati dalle conseguenze che potrebbe avere una mossa simile, è probabile che ad un certo punto la destra laburista sia costretta alla scissione e all’unione con la “sinistra” conservatrice e con i LiberalDemocratici per formare un qualche tipo di governo di Unità Nazionale.

Questo sembra essere l’unico modo in cui la classe dominante britannica potrebbe evitare la progressiva affermazione di un governo laburista guidato da Corbyn. Ma è una strategia molto rischiosa. Potrebbe provocare un’estrema polarizzazione, spingendo il Partito Laburista ancora più a sinistra. Grazie al suo essere all’opposizione in un periodo di crisi il Partito Laburista può recuperare terreno, preparando la strada ad un governo laburista di sinistra. I generali dell’esercito inglese hanno già minacciato un colpo di stato qualora Corbyn dovesse arrivare al potere.

Un alto generale in servizio attivo a quanto si dice ha avvertito che un governo di Jeremy Corbyn potrebbe dover affrontare “un ammutinamento” dell’Esercito se cercasse di degradarli. Ha detto al Sunday Times: “L’esercito proprio non lo sosterrebbe. Lo stato maggiore non permetterebbe ad un primo ministro di compromettere la sicurezza di questo paese e penso che questa gente userebbe qualsiasi mezzo possibile, lecito o illecito, per evitarlo. Non si può mettere un cane sciolto come responsabile della sicurezza del paese. Ci sarebbero dimissioni di massa a tutti i livelli e si dovrebbe affrontare la reale prospettiva di una situazione che sarebbe effettivamente un ammutinamento” (The Indipendent, 20 settembre 2015).

Una situazione simile spalancherebbe immediatamente la porta allo scontro di classe e ad una crisi rivoluzionaria in Gran Bretagna.

Le prospettive si aprono oggi per una crisi e una scissione nel Partito Laburista che offrirebbe opportunità ancora maggiori alla Tendenza Marxista. Ma la nostra priorità resta quella di conquistare e formare i giovani. Questo ci fornirà i quadri di cui avremo bisogno per cogliere le opportunità che ci si presenteranno. Questa non è una crisi normale. Cambiamenti bruschi e repentini sono impliciti nella situazione. Dobbiamo aspettarci l’inaspettato. La tattica potrebbe dover cambiare nel giro di 24 ore.

Tutti questi eventi sono il riflesso di un profondo cambiamento che sta avvenendo nel cuore della società. Questo è stato molto ben descritto da Trotskij come il processo molecolare della rivoluzione socialista: un processo in cui una serie di piccoli cambiamenti vanno gradualmente accumulandosi fino a raggiungere il punto critico in cui la quantità si trasforma in qualità.

Le illusioni della borghesia

Col crollo dell’Unione Sovietica e la fine della Guerra Fredda per la borghesia europea si aprì l’elettrizzante prospettiva di una prosperità economica permanente e una integrazione europea sempre maggiore che avrebbe portato l’Europa (sotto la guida della Germania) ad espandere i propri confini fino agli Urali. Stordita da questi sogni di grandezza la borghesia europea è stata indotta a cedere larga parte della sovranità nazionale su questioni molto delicate. La creazione dell’eurozona ne è probabilmente l’esempio più lampante.

I marxisti hanno sottolineato come fosse impossibile avere un’unione monetaria senza unione politica. Avevamo previsto che l’Euro avrebbe potuto essere mantenuto fintanto che le condizioni economiche sarebbero rimaste favorevoli, ma nel caso di una crisi tutti gli antagonismi nazionali sarebbero riemersi e l’Euro sarebbe crollato “tra recriminazioni reciproche”. Dopo venticinque anni questa previsione conserva ancora tutta la propria forza.

I marxisti sono senza dubbio per l’abolizione dei confini e per l’unificazione dell’Europa. Ma su basi capitaliste questa è solo un’utopia reazionaria. Aspetto reazionario che è emerso chiaramente nel brutale trattamento riservato alla Grecia da Bruxelles e Berlino. Sotto al dominio di banchieri e capitalisti, l’UE è per una politica di austerità permanente. Una cricca di burocrati non eletti e irresponsabili è libera di dettare le politiche e annullare le decisioni di governi eletti come quello di Syriza in Grecia.

In alleanza con la NATO e l’imperialismo USA, l’UE gioca un ruolo reazionario anche su scala mondiale. È intervenuta nei Balcani, dove è stata funzionale allo smembramento criminale della Jugoslavia. Ha tramato per il disfacimento della Cecoslovacchia –qualcosa per cui non sono stati consultati né i Cechi né gli Slovacchi. La sua interferenza in Ucraina, insieme all’imperialismo USA, ha provocato l’attuale disastro. Tutto questo era fondamentalmente nell’interesse dell’imperialismo tedesco, che è il vero padrone dell’Unione Europea e sta lottando per riaffermare il proprio dominio sull’Europa dell’Est e sui Balcani.

Le altre potenze imperialiste d’Europa, in primis Francia e Gran Bretagna, ora si trovano nel ruolo di luogotenenti subordinati alla Germania. Ma hanno propri interessi imperialisti in Africa, in Medio Oriente e nella fascia Caraibica, e continuano a perseguirli sotto la bandiera dell’UE. I francesi e i britannici hanno aperto la strada al bombardamento della Libia. I britannici erano i più entusiasti alleati degli USA nell’invasione criminale dell’Iraq. Ora i francesi giocano un ruolo simile in Siria. Tutti stanno perseguendo i propri cinici interessi, ovviamente sotto la bandiera dell’ “umanitarismo”.

Insieme all’Euro, il trattato di Schengen è una delle pietre angolari dell’Unione Europea. Ha ridotto i tempi e i costi per muovere le merci attraverso l’Europa, dato che i camion non devono più aspettare ore per attraversare un confine internazionale. Ha portato vantaggi ai turisti e agli abitanti delle città di confine, perché non servono più passaporti e visti. Ha permesso di farla finita con l’assurdo spreco di soldi che derivava dal pattugliamento di confini obsoleti. Si pensava che questo trattato fosse un passo determinante verso la creazione di un’Europa federale.

Nel 1995 il trattato di Schengen ha eliminato i controlli di frontiera tra i Paesi aderenti e ha creato una politica comune sui visti tra 26 Paesi. Ma ora il percorso verso una maggiore integrazione europea ha fatto retromarcia. La crisi dell’Unione Europea è stata bruscamente resa evidente dalla questione dei rifugiati.

L’Europa e la crisi dei rifugiati

Con il massacro di Parigi del novembre 2015 il prezzo della barbarie e dell’orrore seminato in Medio oriente dell’imperialismo è stato fatto pagare ai lavoratori comuni. Allo stesso tempo l’arrivo di migliaia di persone in fuga dagli orrori della guerra, dalla fame e dall’oppressione ha posto i governi europei davanti ad un dilemma. In realtà la crisi dei rifugiati è globale, non riguarda solo il Medio Oriente. Globalmente il numero di persone messe in fuga dalla guerra, dalla persecuzione delle minoranze e dalla violazione dei diritti umani era vicino a 60 milioni già alla fine del 2014. Questo è il riflesso plastico della crisi del sistema capitalista e della sua incapacità di garantire alle persone anche il più elementare dei diritti umani, il diritto alla vita. Il flusso dei rifugiati dalla Siria, dall’Afghanistan e dalle altre parti del mondo colpite dalla guerra e dalla fame ha provocato la richiesta di controlli più rigidi alle frontiere.

Angela Merkel è stata veloce nell’aprire le braccia ai poveri rifugiati che bussavano alla sua porta. Non c’è dubbio che da un lato si sia trattato di un tentativo di speculare sul genuino sentimento di empatia espresso naturalmente da molti cittadini tedeschi e di altri Paesi europei. La gente comune, i cui pensieri e azioni non sono guidati dai freddi calcoli che spingono i banchieri e i capitalisti, dimostra sempre simpatia e solidarietà nei confronti dei poveri e degli oppressi. Dall’altro anche i poteri forti erano a favore di una politica di porte aperte non per un sentimento di empatia verso le sofferenze degli altri, ma per assicurarsi un ampio bacino di manodopera a bassissimo costo.

Comunque il buon cuore della Merkel non è durato a lungo. Ci si aspettava che la Germania accogliesse più di un milione di richiedenti asilo nel 2015. Ma in Germania stanno aumentando gli attacchi contro i centri d’accoglienza per gli immigrati, così come i voti per i partiti di destra anti-immigrati come Alternative für Deutschland (Alternativa per la Germania, AfD). Così la Merkel sta ora supplicando la Turchia non solo di fermare i flusso dei rifugiati, ma di riprenderseli indietro. Berlino sta chiedendo con urgenza un’equa distribuzione dei migranti in tutti i Paesi dell’Unione Europea, richiesta che non incontra grande entusiasmo a Londra e a Parigi e che viene completamente respinta da Varsavia e Budapest.

Tra i membri dell’UE sono emerse forti contraddizioni. Le autorità francesi e austriache hanno accusato Roma di permettere (e addirittura incoraggiare) i richiedenti asilo a lasciare l’Italia e minacciano di chiudere i confini con l’Italia; la Francia è stata conseguente rispetto alla sua minaccia e per un po’ ha chiuso il confine lo scorso giugno. La Germania, il paese più ricco d’Europa, era in grado di assorbire un gran numero di rifugiati. Gli altri non sono così fortunati. L’Italia e la Grecia hanno accolto un numero di rifugiati maggiore della gran parte degli altri Paesi e hanno chiesto ripetutamente più risorse e l’introduzione di quote d’immigrazione nell’Unione Europea. Ma queste richieste non sono state ascoltate. I Paesi dell’Europa centrale e orientale hanno immediatamente respinto l’idea delle quote.

Ora si pone il problema: che fare col trattato di Schengen, che permette ai migranti di muoversi liberamente tra gli stati membri. Ancora prima dei fatti di Parigi il presidente polacco del Consiglio Europeo Donald Tusk aveva dichiarato: “non ci sono dubbi; è in gioco il futuro di Schengen e il tempo stringe… dobbiamo riprendere il controllo dei nostri confini esterni”. L’attentato di Parigi ha fornito ai governi una buona scusa per l’introduzione “temporanea” di controlli di frontiera, non solo in Francia ma anche in altri Stati, inclusi la Germania e la Svezia.

In tutta Europa c’è un crescente malessere e un crescente sentimento di sfiducia e ostilità verso l’UE. Dopo il brutale trattamento riservato alla Grecia, c’è una crescente opposizione politica a Bruxelles da parte dei giovani e dei lavoratori dei Paesi dell’Europa del Sud che si oppongono all’austerità. Sul versante opposto c’è l’opposizione dei partiti di destra, anti-immigrati e populisti in Germania, Francia, Finlandia, Danimarca e altri Paesi del Nord Europa.

Più a lungo i singoli paesi manterranno le chiusure e i controlli alle frontiere, più sarà minato il principio di un’Europa aperta. L’ascesa dei partiti nazionalisti e anti-immigrati in Germania, Francia, Finlandia, Danimarca, Svezia e Ungheria sta facendo ulteriore pressione sui governi europei per la chiusura delle frontiere. Ormai è chiaro che i giorni del trattato di Schengen sono contati. Se non verrà abolito del tutto, sarà certamente rivisto in un modo tale che non rimarrà più granchè del “sacro principio” della libertà di movimento in Europa.

C’è pressione affinchè agli stati membri venga concesso più potere e libertà di scelta riguardo alla reintroduzione dei controlli di frontiera. Con o senza una riforma di Schengen, i controlli di polizia nelle stazioni di treni e bus e negli aeroporti saranno maggiori. Sta già succedendo. Le leggi sull’immigrazione saranno inasprite in modo da rendere più difficile agli immigrati l’accesso al welfare. Paesi come la Romania e la Bulgaria che non hanno ancora aderito a Schengen esigeranno controlli severi. Polonia e Ungheria, che erano satelliti dell’imperialismo tedesco, sono ora in aperto conflitto con la Germania sulla questione dei rifugiati.

Minare il trattato di Schengen indebolirà la libera circolazione delle persone, una delle pietre angolari principali dell’Unione Europea. Una volta indebolito un principio basilare, si apre la porta ad altri interventi simili. L’abolizione o la limitazione della libera circolazione delle persone può costituire un precedente per limitare la libera circolazione delle merci. Questo –insieme al crollo dell’Euro che è perfettamente possibile- potrebbe significare la fine dell’Unione Europea così come la conosciamo. Non rimarrebbe nulla del sogno dell’unità d’Europa se non un guscio vuoto.

Sotto al capitalismo l’idea di un Continente senza frontiere è destinata a rimanere un sogno irraggiungibile. L’unificazione dell’Europa – un obiettivo progressista e storicamente necessario – potrà essere raggiunta solo quando i lavoratori d’Europa si mobiliteranno per rovesciare la dittatura delle banche e dei monopoli, distruggere l’attuale Unione europea capitalista e per gettare le basi per la creazione di un’unione libera e volontaria dei popoli negli Stati Uniti Socialisti d’Europa, come passo verso la Federazione socialista mondiale.

Relazioni internazionali

Dal punto di vista delle relazioni internazionali, il periodo che stiamo attraversando è senza precedenti. In passato c’erano almeno tre o quattro grandi potenze che gareggiavano per la supremazia su scala europea o mondiale. Quindi per un lungo periodo le relazioni internazionali hanno teso ad qualche tipo di equilibrio periodicamente punteggiato da guerre.

L’instabilità economica si è espressa anche in una crescente instabilità politica. Da dopo la Seconda Guerra Mondiale le relazioni internazionali non sono mai state così tese. Le tendenze espansioniste aggressive dell’imperialismo USA seguite alla caduta dell’URSS hanno creato una situazione caotica dappertutto: nei Balcani, in Medio Oriente, in Asia Centrale, in Nord Africa, in Pakistan e poi anche in Africa.

Prima della Seconda Guerra Mondiale Lev Trotskij aveva già previsto che gli USA sarebbero emersi come potenza dominante a livello mondiale, ma aggiungeva che gli USA avrebbero avuto dinamite nelle proprie fondamenta. Questa previsione è stata drammaticamente con l’ascesa del terrorismo negli Usa e a livello internazionale e l’incapacità degli Usa di imporre la propria volontà come in passato.

Gli Stati Uniti si sono affermati come la potenza mondiale dominante nel 1945. L’ascesa della potenza statunitense è stata accompagnata dal declino delle potenze degli stati imperialisti europei. La Seconda Guerra Mondiale ha sconvolto sia il Giappone che l’Europa occidentale. Gli Stati Uniti dominavano economicamente, militarmente e politicamente sebbene si trovassero a fronteggiare la potenza dell’Unione Sovietica.

Si è creato un equilibrio precario che è durato almeno mezzo secolo. Il potere non era a Londra, Parigi o Varsavia. Era a Mosca e a Washington. All’epoca non si poneva la questione di un’interferenza degli USA in paesi come l’Iraq, la Siria o la Jugoslavia che erano nella sfera d’influenza sovietica. Ancor meno Washington pensava di immischiarsi in Ucraina o in Georgia, che erano ancora parte dell’Unione Sovietica.

Tutto questo è cambiato negli ultimi vent’anni, dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Trascinata a fondo da crisi interne e sotto la pressione di movimenti di massa, Mosca è stata costretta a ritirarsi dall’Europa dell’Est. Il patto di Varsavia a guida Sovietica è stato liquidato. Tuttavia la NATO ha continuato ad esistere, come una potenziale minaccia per la Russia.

Negli anni ’80 il presidente statunitense Ronald Reagan promise a parole al leader sovietico Mikhail Gorbachev di non avere intenzione di espandere la NATO verso est, nella sfera d’influenza dell’Unione Sovietica. Era una menzogna. Negli ultimi vent’anni gli USA hanno allargato sistematicamente la NATO verso est, incorporando vari paesi che prima erano nella sfera d’influenza dell’URSS.

L’imperialismo USA e quello tedesco erano dietro alla dissoluzione della Jugoslavia- uno sviluppo assolutamente reazionario per il popolo jugoslavo e una completa umiliazione per la Russia. Sebbene la Russia avesse truppe di stanza in Jugoslavia, all’occidente venne permesso di prendere il controllo del paese, mentre l’esercito russo venne relegato al ruolo di spettatore impotente.

In passato le contraddizioni che vediamo su scala mondiale avrebbero portato ad una guerra mondiale. Ma non è più una soluzione praticabile. La stretta interdipendenza delle potenze su scala mondiale non lo permette. Questo, tuttavia, non significa un’epoca di pace. Al contrario, le contraddizioni trovano espressione in una serie infinita di piccole guerre che portano al caos e ad un terribile spargimento di sangue.

Sebbene gli Stati Uniti rimangano molto potenti, sono ben lontani dall’essere onnipotenti. Le guerre in Afghanistan e in Iraq hanno messo in luce i limiti dell’imperialismo USA. Anche la maggiore potenza imperialista non può permettersi di essere direttamente coinvolta in un gran numero di conflitti in giro per il mondo. Si troverebbe ben presto esausta economicamente e politicamente, non appena la popolazione cambiasse opinione e si opponesse agli interventi all’estero. Questa lezione è andata persa per quanto riguarda la cricca miope attorno a George W. Bush. L’ha dovuta imparare dolorosamente il suo successore.

Russia e America

Spinta dall’imperialismo USA la NATO è arrivata fino ai confini della Russia. Prima sono stati incorporati nella NATO gli stati balcanici e poi si è unita la Polonia. Ma il tentativo di includere la Georgia nella NATO è stato un passo più lungo della gamba. La Russia ha inviato l’esercito e la Georgia è stata rapidamente schiacciata. Era la volta per gli americani di essere umiliati quando i russi hanno sottratto alla cricca dominante georgiana una gran quantità di armi ed equipaggiamenti forniti da Washington- perfino i servizi igienici.

Era un chiaro avvertimento agli americani. Il Cremlino stava dicendo: “Fin qui e non oltre!”. Ma i circoli dominanti americani sono ciechi, sordi e muti. Non appena i tedeschi hanno deciso di ritirarsi dal conflitto in Ucraina alla fine del 2013, John McCain e i suoi alleati repubblicani ci sono entrati, costringendo Obama ad invischiarcisi. Cercavano colpire la Russia come vendetta per la Georgia e di avvicinare l’Ucraina all’UE e alla NATO. L’idea che Putin avrebbe accettato tranquillamente di perdere l’Ucraina era completamente folle. Ancora più folle era l’idea che avrebbe accettato la perdita della Crimea, dove la Marina Russa ha una grossa base a Sebastopoli.

Il colpo di stato di destra a Kiev, sostenuto da forze fasciste e ultra-nazionaliste, è riuscito a rovesciare il governo di Yanukovych, ma così facendo ha gettato l’Ucraina in un abisso fatto di crollo economico e guerra civile. L’Occidente, prevedibilmente, non ha mantenuto nemmeno una delle promesse fatte al popolo ucraino. Né hanno fatto niente per opporsi alla Russia nonostante tutte le minacce e l’agitare di pugni.

L’imposizione delle sanzioni alla Russia non ha indebolito il regime ma lo ha rafforzato. Prima della crisi ucraina e delle sanzioni statunitensi Putin non si trovava in una posizione molto forte. Ma le misure prese dagli USA per “punire la Russia” hanno ottenuto l’effetto contrario a quello sperato. Putin ha potuto cavalcare un’ondata di patriottismo e ad un certo punto ha raggiunto un indice di gradimento vicino al 90%.

A prima vista potrebbe sembrare paradossale che Putin sia emerso rafforzato dalle crisi in Ucraina e in Siria. Gli sforzi dell’Occidente per isolarlo sono miseramente falliti. In Siria è lui ora a gestire il gioco. E anche se gli USA continuassero a mantenere le sanzioni verso la Crimea e l’Ucraina possiamo prevedere con un certo grado di sicurezza che i loro alleati europei le toglieranno in breve tempo. L’economia europea in crisi ha bisogno del mercato russo e del gas russo proprio quanto la borghesia europea ha bisogno dei russi per risolvere il caos in Siria e porre fine al flusso di rifugiati.

Ma se guardiamo più a fondo diventa evidente che la situazione non è così stabile come sembra. L’economia russa continua la sua crisi, colpita dalla diminuzione del prezzo del petrolio e dalle sanzioni occidentali. La classe media non può più trascorrere piacevoli fine settimana a Londra e a Parigi. C’è fermento, anche se ancora non succede nulla. I lavoratori russi sono influenzati dalla propaganda ufficiale sull’Ucraina. Sono scandalizzati dalle azioni dei fascisti e degli ultra-nazionalisti ucraini e Putin è stato abile nello sfruttare la loro naturale empatia verso i loro fratelli e sorelle dell’Ucraina orientale. Il suo indice di gradimento è schizzato in alto su queste basi.

Putin potrà essere in grado di mantenere la propria presa sul potere per qualche tempo, ma tutto ha un limite e alla fine la storia presenta sempre il conto. La crisi economica ha portato ad un brusco crollo del tenore di vita per molti lavoratori, specialmente nelle periferie di San Pietroburgo e Mosca. Le masse sono pazienti, ma anche la loro pazienza ha un limite. Ne abbiamo avuto un esempio alla fine del 2015 quando hanno scioperato gli autotrasportatori dei tratti a lunga percorrenza. Forse un piccolo segnale, ma senza dubbio un segnale che prima o poi il malcontento dei lavoratori russi troverà espressione in scioperi e proteste significativi.

In “La rivoluzione tradita: un capolavoro marxista” di Alan Woods, viene fornita la seguente analisi: “Lo spettacolo dei grandi monopoli russi che si arricchiscono a spese del popolo sta provocando un bruciante senso di rabbia. Non è come in Occidente, dove la popolazione ha avuto generazioni per abituarsi al capitalismo. Potrebbe non piacer loro quello che ne deriva, ma la maggior parte delle persone lo considerano come inevitabile se non quasi naturale. Normalmente non mettono in discussione il diritto divino dei capitalisti alla proprietà dell’industria e allo sfruttamento della manodopera. Ma in Russia le cose sono diverse. Per generazioni le persone sono state abituate a una società in cui i mezzi di produzione erano nelle mani dello Stato e questo avrebbe dovuto sostenere gli interessi dei lavoratori, almeno formalmente. La grande maggioranza della popolazione pensa che i proprietari delle imprese privatizzate siano solo dei ladri che hanno rubato le proprietà del popolo. Questo è completamente corretto. Il capitalismo non ha alcuna legittimità agli occhi della classe operaia. Rispetto all’Occidente, questa è una differenza molto importante che può avere enormi conseguenze nel prossimo periodo”.

Questo può essere applicato anche ad altri paesi ex-stalinisti. La caduta dell’Urss e delle economie pianificate è stata la più grande sconfitta per il proletariato internazionale, a parte la Seconda Guerra Mondiale. Dalla povertà economica che ne è risultata, vediamo anche la povertà sociale e morale. Alienazione, corruzione, pogrom di estrema destra e violente divisioni nazionali affliggono questi paesi, mentre la propaganda a favore del capitalismo e anti-comunista raggiunge livelli isterici e avvelena la coscienza. Sarebbe tuttavia un errore trarre da questo conclusioni pessimistiche. Le masse in Europa Orientale non hanno sperimentato il successo del boom capitalista del dopoguerra. Le illusioni nel riformismo non saranno così forti come per la classe operaia occidentale e possono essere tratte conclusioni rivoluzionarie con una velocità sorprendente. Le rivolte in Bosnia, Bulgaria, gli ammutinamenti in Ucraina e gli scioperi molto militanti in Polonia e Slovacchia sono solo alcuni esempi della natura esplosiva di ciò che avverrà negli ex stati operai deformati.

Putin si sentiva abbastanza forte da lanciare un’offensiva militare in Siria, cosa che ha colto l’Occidente di sorpresa. Di conseguenza, l’uomo che doveva essere un pariah a livello internazionale è invece ora l’arbitro del destino della Siria.

Non molto tempo fa Obama e Kerry hanno lanciato fuoco e fiamme contro l’uomo del Cremlino. Poi all’improvviso Putin va alle Nazioni Unite ed è al centro dell’attenzione. È persino apparso in pubblico col presidente degli USA e c’è stata anche una stretta di mano ben pubblicizzata, anche se non molto calorosa a dire il vero.

Per Putin l’obiettivo principale in Siria era quello di mantenere Assad al potere in qualità di affidabile alleato della Russia e di frenare l’avanzata dei ribelli islamisti che stavano arrivando sempre più vicini alle principali aree di sostegno ad Assad nell’ovest, e alle basi russe in quella regione. Perlomeno si può dire che le intenzioni di Putin fossero chiare e non ambigue. Questo gli da un’apparenza di forza.

Obama, al contrario, è un uomo con un Congresso fortemente diviso e un’opposizione repubblicana rabbiosa. È ben consapevole del pericolo che comporta farsi coinvolgere in una guerra sul campo in Iraq. Il popolo americano è stanco di avventure all’estero. È per questo, e non per motivi pacifisti o umanitari, che cerca di evitare di mandare forze statunitensi sul campo in Siria.

Non è difficile comprendere le ragioni della contraddittoria politica statunitense in Siria. La sola vera azione militare contro gli jihadisti in Siria è quella intrapresa dai russi in collaborazione con l’esercito siriano di Bashar al-Assad. E la sola vera azione militare intrapresa contro Isis in Iraq (a parte quella dei curdi che combattono soltanto nelle proprie aree) è stata portata avanti non dal cosiddetto esercito iracheno appoggiato dagli USA, ma dalla milizia sciita appoggiata dall’Iran e da elementi dell’esercito iraniano.

In pratica, gli americani sono stati costretti a riconoscere questa situazione e ad accettare la richiesta di Russia e Iran per cui Bashar al-Assad deve rimanere al potere nel prossimo futuro. Questo è il motivo per cui Obama è arrivato ad un accordo sugli armamenti nucleari con l’Iran, accordo inviso ad Arabia Saudita ed Israele e ai loro amici repubblicani nel Congresso. In breve, deve affrontare tutti contemporaneamente. Questo lo fa sembrare debole. Il leader russo è tornato a Mosca convinto del fatto che riguardo alla Siria gli americani si sarebbero comportati esattamente come riguardo all’Ucraina, vale a dire non avrebbero fatto nulla che avrebbe potuto provocare delle conseguenze, e aveva ragione.

I russi hanno raddoppiato i rifornimenti a Damasco, in termini di armi ed equipaggiamenti. Hanno lanciato una serie di raid aerei contro Isis e altri obiettivi. I raid russi hanno effettivamente cambiato l’equilibrio delle forze in campo. Questo ha costretto gli USA e i loro alleati occidentali ad intensificare i loro bombardamenti, che fino ad ora erano stati poco convinti e volti a contenere Isis piuttosto che a sconfiggerlo. Quindi ad ogni passo i russi hanno stretto il cappio attorno alla diplomazia americana. In Siria Washington ha dovuto mettere da parte il proprio orgoglio e accettare le condizioni di Mosca. Questo ha modificato in modo determinante i rapporti di forza non solo in Siria, ma nell’intero Medio Oriente.

Il Medio Oriente

“C’est pire qu’un crime, c’est une faute” (“È peggio che un crimine, è un errore”). Queste parole celebri attribuite a Luigi Antonio Enrico di Borbone-Condé duca di Enghien potrebbero fare da meritato epitaffio alla politica estera dell’imperialismo Usa negli ultimi decenni.

Le fiamme che avvolgono l’intero Medio Oriente sono una conseguenza diretta della criminale invasione dell’Iraq e della continua interferenza dell’imperialismo americano in quella regione infelice. Avendo destabilizzato l’Iraq e avendolo ridotto a una rovina fumante devastata dalla guerra, gli americani e i loro alleati hanno aiutato e sorretto forze reazionarie in Siria che ora pongono una seria minaccia ai loro stessi interessi. La cosiddetta guerra contro il terrore che teoricamente starebbero combattendo da quasi quindici anni in Iraq non ha però ottenuto un bel niente.

I politici a Washington non hanno capito niente e non hanno previsto niente. Ironicamente, distruggendo la vecchia macchina statale di Saddam Hussein e l’esercito iracheno, hanno sconvolto l’equilibrio di forze nell’area e hanno creato un vuoto in cui si è inserito il loro vecchio nemico, l’Iran. Quando l’esercito statunitense ha aggredito l’Iraq, Al-Qaeda non era presente in quel Paese. Ora l’intera regione subisce la morsa della follia jihadista. Questo è il risultato diretto dell’ingerenza dell’imperialismo Usa.

Gli americani hanno aperto gli occhi in ritardo sul disastro che hanno creato essi stessi e che ora li minaccia. Ora gli Usa si trovano davanti la minaccia crescente della violenza jihadista che si spande come un’epidemia incontrollabile in tutto il Medio Oriente e il Nord Africa, attraversando il deserto del Sahara per riesplodere in Nigeria, trascinando con sé i Paesi confinanti come il Niger, il Ciad e il Camerun.

Come risponde a questa minaccia la potenza militare più forte del mondo? È stata obbligata a limitarsi a bombardamenti da grandi altitudini, ma è un segreto di Pulcinella che i bombardamenti da soli non fanno vincere le guerre, tantomeno guerre come quella in Iraq e in Siria. Gli Stati Uniti e i loro alleati hanno bombardato le posizioni dell’Isis per più di un anno, ma gli effetti sull’Isis sembrano essere stati minimi.

È vero che il sedicente Stato islamico con le sue punizioni crudeli e inumane, con le sue crocefissioni, con la sua oppressione delle donne e con gli attacchi alla cultura e all’istruzione rappresenta un’aberrazione reazionaria: una regressione a un passato buio e primitivo. Tutto questo però è il mero riflesso dei crimini dell’imperialismo, dei bombardamenti indiscriminati, della tortura e degli abusi contro i prigionieri di Abu Ghraib e di Guantanamo. Gli interventi imperialisti in Medio Oriente dal 2001 sono costati da 1,3 a 2 milioni di vite e hanno portato al dislocamento forzoso di altri milioni di persone che ora vivono in condizioni barbariche. Tutto ciò è derubricato a “effetto collaterale”.

Agli imperialisti serve una scusa per la loro aggressione criminale in Medio Oriente, ed essa è comodamente fornita dalle azioni sanguinose dei jihadisti. La macchina propagandistica imperialista ha assiduamente alimentato l’immagine di un Isis onnipotente. Gli eventi, tuttavia, mostreranno che l’Isis non è onnipotente come sembra. Sin dall’intervento dei russi, l’Isis e altri gruppi jihadisti sono stati rapidamente obbligati a mettersi sulla difensiva.

L’intervento russo ha cambiato tutto. Ha obbligato gli americani a intensificare la propria attività, ma per sconfiggere l’Isis hanno bisogno di truppe sul campo di battaglia, solo che le truppe in questione dovrebbero non essere americane. Un piccolo numero di Forze Speciali americane sono state mandate sul campo, ma non è chiaro quale ne sia l’entità.

Purtroppo per Obama, se vuole sconfiggere l’Isis non basteranno forze minime, ne serviranno invece di sostanziali. Come si potrà risolvere questo problema? Alcuni inguaribili ottimisti hanno riposto le loro speranze nell’esercito iracheno, ma questa è la più pia delle pie illusioni. Quando hanno distrutto l’esercito iracheno nel 2003, gli americani hanno rimosso l’unica forza militare nell’area capace di agire come contrappeso alla potenza dell’Iran. Ora i patetici resti di quella forza frantumata sono demoralizzati e inadatti a combattere contro l’Isis o contro chiunque altro. La loro completa mancanza di capacità di combattere si è vista l’estate scorsa quando l’esercito iracheno è fuggito come un coniglio impaurito, lasciando Mosul alle amorevoli cure delle orde jihadiste dell’Isis.

Al tempo stesso, “l’opposizione moderata” in Siria si è dimostrata una completa fantasia. Con eccezioni minori, quasi tutti i gruppi che combattono Assad sono fanatici islamisti di un tipo o di un altro. Sono più interessati a combattere il governo di Assad che a combattere l’Isis. Il ruolo principale di questi “moderati” è quello di agire come testa di ponte per incanalare gli armamenti inviati dagli americani fino ai gruppi jihadisti. Gli americani hanno annunciato che avrebbero formato una forza combattente di 5mila “moderati”, ma ora ammettono che ne sia rimasta solo una manciata sul campo (dove siano e cosa stiano combinando resta un mistero assoluto). Gli altri sono stati uccisi dai gruppi qaedisti (che hanno ricevuto informazioni sulla loro posizione da un alleato degli Usa, la Turchia) oppure sono passati ad Al-Qaeda consegnando le proprie armi.

Alla fine gli Usa sono stati costretti a rinunciare a tutti i propri piani in Siria. Il sostegno ai ribelli “moderati” è stato ridimensionato in modo significativo. Nel frattempo sono stati obbligati a far pesare il proprio sostegno alle forze curde dell’Ypg. Attorno all’Ypg hanno organizzato le Forze Democratiche Siriane (Sdf) e il Congresso Democratico Siriano.

L’Ypg si è dimostrato estremamente efficace in Siria, principalmente perché è una milizia popolare basata su un programma democratico e non settario. Con 50-70mila truppe è superata soltanto dall’esercito di Assad che le è inferiore in addestramento, morale e motivazione. Con la formazione del Congresso Democratico Siriano è diventata di fatto uno staterello curdo.

Al momento l’Ypg è indubbiamente il movimento più progressista nel Medio Oriente. Tuttavia, viene usato dagli Usa per motivi completamente reazionari. L’imperialismo statunitense punta a spezzare la Siria in molti staterelli governati da diverse milizie e signori della guerra che possono manovrare uno contro l’altro per mantenere il proprio controllo. In bocca agli imperialisti lo slogan dell’autodeterminazione delle piccole nazioni è sempre un inganno reazionario e una trappola. Attualmente sono obbligati a fare uso dei curdi perché combattano l’Isis al posto loro; però, a un certo punto, gli imperialisti inevitabilmente cercheranno di usare questa tattica del divide et impera contro gli stessi curdi. Pur sostenendo gli aspetti progressisti del movimento curdo e difendendo il diritto del popolo curdo all’autodeterminazione, i marxisti devono segnalare i rischi del combinare la causa curda con gli intrighi dell’imperialismo Usa e criticare le incoerenze e i limiti della dirigenza curda.

Lo spostamento nella politica statunitense verso i curdi ha approfondito le divisioni tra Washington e il suo alleato turco i cui burattini collegati ad Al-Qaeda finiranno per perdere l’appoggio diretto e indiretto degli Usa. La Turchia considera l’Ypg e la sua organizzazione sorella, il Pkk, come minacce ed è frustrata dalla nuova linea degli Usa. Questo ha portato alla situazione paradossale di una guerra a bassa intensità incombente tra l’Sdf sostenuto dagli Usa e i burattini islamisti dell’Arabia Saudita e della Turchia. Potrebbe esplodere una guerra a tutto campo in qualsiasi momento.

Oltre al sostegno ai curdi gli Usa si sono resi conto di aver bisogno delle forze sostenute dall’Iran, così come del regime di Assad, per stabilizzare la Siria e impedire che venga infestata dai gruppi fondamentalisti islamici. Tutti sanno che il fardello del conflitto in Iraq, a parte i curdi che sono principalmente interessati a combattere per le proprie regioni, è stato portato dalle milizie sciite sponsorizzate dall’Iran e dai Guardiani della Rivoluzione e che l’esercito iracheno viene addestrato e comandato da ufficiali iraniani. Il tentativo di costruire una forza combattente basata sugli “islamisti moderati” è così destinato a fallire. Le diverse fazioni sono più impegnate a combattere il governo di Assad e a scontrarsi l’una contro l’altra che a muovere guerra all’Isis. Sono aumentati gli scontri tra i gruppi qaedisti e quelli appartenenti alle neonate Forze Democratiche Siriane (un gruppo sostenuto dagli Usa che consiste nell’Ypg curdo e in dubbi, seppure non jihadisti, rimasugli dell’Esercito Libero Siriano).

Conseguentemente, tutta l’insistenza sul cambio di regime in Siria è stata bellamente dimenticata e gli americani sono stati costretti ad abbandonare il precedente atteggiamento bellicoso verso Teheran raggiungendo un traballante compromesso con l’Iran sul suo programma nucleare con la promessa di ridurre le sanzioni. Questo è stato indubbiamente un umiliante ammorbidimento da parte di Washington e un enorme trionfo diplomatico per Teheran. Ora l’Iran ha il controllo effettivo dell’Iraq meridionale, orientale e centrale (l’Isis e i curdi controllano l’Ovest e il Nord) e un’influenza di prima grandezza in Siria, così come su buona parte del Libano dove ha base il potente partito filoiraniano Hezbollah.

Stringendo i denti, Washington è stata obbligata a considerare l’unica opzione praticabile: un accordo con l’Iran – e con la Russia. Ma non è lo stesso Iran che non molto tempo fa era demonizzato nella stampa americana come parte dell’“Asse del Male”? Pochi mesi fa John Kerry sputava fuoco e lapilli denunciando bellicosamente Teheran. Ora d’improvviso tutto è rose e fiori nelle trattative di Washington con Teheran. Kerry fa discorsi concilianti, esibendo un sorriso smagliante mentre si complimenta con i leader dell’Iran per la loro grande saggezza e moderazione.

Lo stesso vale per le trattative americane con la Russia, solo in peggio. Non molto tempo fa Vladimir Putin era considerato fuori dal consesso civile, un reietto da boicottare. Ora, di colpo, è l’eroe del momento in Siria. Questi sviluppi stanno sollevando delle serie preoccupazioni ad Ankara e a Riad. Gli imperialisti americani stanno cercando di guardare in due direzioni opposte simultaneamente, e nel far questo si trovano in nuove contraddizioni insolubili. Queste contorsioni diplomatiche sono un’ulteriore indicazione del caos in cui gli americani si sono ficcati in Medio Oriente. Il governo di Baghdad è fortemente dipendente dall’Iran. La paura dell’Arabia Saudita e di altri Paesi dell’area è che l’Iraq stia trasformandosi in nient’altro che una satrapia iraniana. Questo non è affatto il risultato che Washington desideri, ma è la conseguenza logica di tutte le azioni degli Stati Uniti.

Il loro atteggiamento verso la Siria è ancora più contraddittorio. Pubblicamente continuano a denunciare Assad e si lamentano della “interferenza” russa in Siria, quando in realtà c’è una distensione di fatto. Gli americani si lamentano rispetto alla scarsità di informazioni date dai russi sui loro obiettivi in Siria, sull’impossibilità di coordinare i bombardamenti, sul rischio di incidenti ecc. Deplorano rumorosamente che i russi non stanno bombardando soltanto obiettivi legati all’Isis ma anche le forze dell’“opposizione moderata” sostenute dall’Occidente le quali stanno attaccando l’esercito siriano ad ovest; ma i russi non prestano loro attenzione e continuano a colpire i loro bersagli senza rimorso.

L’Arabia Saudita e lo Yemen

È una vecchia massima della diplomazia che le nazioni non hanno amici, solo interessi. In Medio Oriente gli Stati Uniti cercano di bilanciarsi tra quattro potenze regionali principali, l’Iran, l’Arabia Saudita, Israele e la Turchia, appoggiandosi ora verso l’una, ora verso l’altra, in un perpetuo equilibrismo. In Iraq, i caccia Usa portavano avanti i loro attacchi in parallelo con truppe di terra iraniane, mentre in Yemen gli Stati Uniti appoggiano i raid aerei sauditi contro gli Houthi che sono sostenuti dall’Iran. Gli Stati Uniti dicono che stanno velocizzando le consegne di armi all’Arabia Saudita, eppure al tempo stesso l’amministrazione Obama sta disperatamente segnalando a Teheran che non intende scontrarsi con l’Iran sullo Yemen.

La cricca saudita al potere è il massimo centro controrivoluzionario di tutta l’area. Per decenni i leader occidentali hanno costantemente sostenuto la monarchia reazionaria saudita, prostrandosi e ignorando cinicamente le crudeltà delle creature che la fanno da padroni a Riad, come abbiamo visto al funerale del non compianto Re Abdullah.

Questi devoti musulmani, i “protettori dei Luoghi Santi” e finora tra gli alleati più leali dell’America, hanno decapitato più di 50 persone in un solo anno, per non parlare di altre piccole piacevoli abitudini come le frustate e le crocefissioni. Ma il marcio regime saudita si regge su fondamenta molto traballanti. C’è un fermento crescente fra la popolazione oppressa sciita dell’Arabia Saudita così come fra una parte significativa dei giovani. Ciò potrebbe condurre a una sollevazione popolare a un certo punto. C’è però anche un’impazienza crescente tra gli integralisti reazionari wahabiti, che simpatizzano più per l’Isis e per Al-Qaeda che per la famiglia reale, che vedono come illegittima. Questa contraddizione indebolisce il regime che cerca a tutti i costi di mantenersi al potere.

Questi sono i fattori principali che hanno determinato la reazione saudita agli eventi in Yemen. Il voltafaccia della politica estera americana riguardo all’Iran ha portato a ulteriori complicazioni per Washington. Ha fatto infuriare i sauditi e gli israeliani che vedono l’Iran come il nemico principale. L’Iran ha buone relazioni con le milizie sciite Houthi che imperversano in Yemen e che hanno preso il controllo di Aden, cacciando via la marionetta dei sauditi. In risposta, l’Arabia Saudita ha ordinato alla sua flotta aerea di bombardare i ribelli.

In fretta e furia i sauditi hanno messo in piedi una coalizione di dieci Stati che punta ad annegare nel sangue l’insurrezione yemenita. Con riluttanza gli Usa e la Gran Bretagna si sono uniti a questa coalizione sebbene abbiano evitato una partecipazione diretta ai bombardamenti. Le forze della Coalizione hanno brutalmente bombardato il Paese, polverizzandone le infrastrutture, distruggendo scuole e ospedali e uccidendo un grande numero di civili. Venti milioni di persone hanno un estremo bisogno di aiuto. A dispetto dei cruenti bombardamenti, gli Houthi non sono stati annientati e c’è un odio generale verso i sauditi e i loro alleati tra la massa della popolazione. Il fatto che l’esercito pakistano abbia respinto la richiesta dei sauditi di partecipare nella loro campagna militare contro i ribelli Houthi è una prova sufficiente che un’offensiva di terra in Yemen terminerebbe in un disastro.

L’attuale cricca dominante sta scherzando col fuoco. Il vecchio re Abdullah era un uomo molto cauto che tendeva ad evitare il coinvolgimento diretto in rischiose avventure all’estero che potessero sbilanciare la stabilità del suo regime. I suoi successori, tuttavia, sono dei parvenu degenerati, ignoranti, stupidi e presuntuosi. Accecati dal loro senso di invulnerabilità hanno lanciato una guerra che non può essere vinta. Intervenendo militarmente in Yemen, l’Arabia Saudita rischia di destabilizzare il proprio stesso regime o anche di provocare un’insurrezione.

L’Arabia Saudita sta deliberatamente fomentando l’odio confessionale contro gli Houthi. Ciò ha portato al rafforzamento di Al-Qaeda in ampie zone del Paese. L’esecuzione di Nimr-Al-Nimr è stato un omicidio per via giudiziaria ordinato dalla cricca regnante saudita; è stata una provocazione voluta per esacerbare la discordia interconfessionale tra sciiti e sunniti e spingere il governo di Teheran a intraprendere un’azione militare contro l’Arabia Saudita, che avrebbe così chiesto aiuto agli americani.

Ciò ha condotto immediatamente all’assalto all’ambasciata saudita a Teheran e alla rottura delle relazioni diplomatiche con l’Arabia. Tutto questo è stato attentamente premeditato. Gli eventi sono proceduti uno dopo l’altro, come i passi di un ballerino; ma questo balletto era una danza della morte. È stato l’atto disperato di un regime che si ritrova in guai profondi e vede la prospettiva di essere rovesciato.

I banditi sauditi hanno sbagliato i loro calcoli sullo Yemen. Hanno suscitato l’ira degli sciiti che costituiscono almeno il 20% della popolazione saudita e che sono uno dei settori più poveri e oppressi della popolazione. Manifestazioni di massa sono esplose nelle città saudite con slogan come “Morte alla Casa di Saud!”. Facendo il passo più lungo della gamba, la cricca regnante saudita ha seminato vento e raccoglierà tempesta.

La Turchia

Insieme all’Arabia Saudita e a Israele, lo Stato turco rappresenta la principale forza controrivoluzionaria nella regione. Sebbene sia formalmente parte della Nato, sotto il regime reazionario di Erdogan la Turchia in pratica ha sostenuto l’Isis e le altre forze islamiste in Siria.

Le ambizioni regionali di Erdogan sono ben note: spera di ricostruire qualcosa di somigliante al vecchio Impero Ottomano, portando ampie zone dell’Asia Centrale e del Medio Oriente sotto controllo turco. Per perseguire questa ambizione cerca di usare le popolazioni turcofone come i turcomanni per i suoi cinici scopi, proprio come lo zarismo russo utilizzava gli slavi del sud in passato come pedine di una politica estera espansionista.

È anche un malcelato segreto che Erdogan abbia sostenuto l’Isis e altre bande islamiste nel tentativo di rovesciare il presidente Assad e conquistare fette di territorio siriano. Ecco perché ha consentito a un grande numero di combattenti islamisti di varcare il confine turco per entrare in Siria, bloccando invece gli approvvigionamenti di armi e volontari alle forze anti-Isis in Siria e schiacciando brutalmente i curdi che stanno combattendo l’Isis.

L’abbattimento di un aereo russo da parte dei turchi è stata una provocazione che aveva l’intento di creare un conflitto tra gli Usa e la Russia. La Turchia è un Paese membro della Nato e ha fatto appello ai suoi alleati affinché la aiutassero; ma mentre pubblicamente esprimeva sostegno al “diritto della Turchia di difendere la sua sovranità nazionale”, la Nato non ha fatto nulla, e intanto Putin utilizzava l’incidente come scusa per spostare un sistema di difesa missilistica S-400 in Siria, prendendo così controllo dello spazio aereo siriano.

La provocazione di Erdogan non ha ottenuto nulla. Non ha dissuaso il presidente Hollande da visitare Mosca né da invocare una coalizione internazionale più larga contro l’Isis. In realtà, il regime di Erdogan non è stabile.

L’anno scorso, quando l’AKP di Erdogan non ha ottenuto la maggioranza parlamentare assoluta per consolidare il suo potere, si è scatenato un attacco senza precedenti contro il movimento curdo e l’intera sinistra. Nelle elezioni parlamentari del giugno 2015, la sinistra curda dell’HDP ha sorprendentemente ottenuto il 13 per cento dei voti che poneva una minaccia all’AKP di Erdogan; in particolare alla luce degli innumerevoli scandali per la corruzione e il nepotismo. Anche dopo le nuove elezioni, che si sono svolte in un clima di estremo terrore per la sinistra e il movimento curdo, l’HDP è riuscito a superare l’ostacolo del 10 per cento.

È su queste basi che Erdogan ha cercato di rimestare nel nazionalismo, avviando una guerra civile contro i curdi e le forze di sinistra turche. Questo è un riflesso della crisi del regime di Erdogan che, dopo anni di stabilità sulla base del boom economico, sta affrontando una crescente ondata di insoddisfazione e disillusione ora che l’economia entra in crisi, colpita dal rallentamento economico mondiale e dalle mosse avventate di Erdogan. Sotto la copertura di una guerra civile, Erdogan sta tentando di consolidare ulteriormente il suo governo traballante. Ma in questo modo destabilizza l’intera società turca e getta le basi per la disintegrazione del paese.

Il capitalismo turco non può risolvere i problemi delle masse ed è il motivo per cui la lotta di classe nell’ultimo periodo è in crescita. Ne abbiamo visto il potenziale nel movimento di Gezi Park del 2013 e nell’ascesa dell’HDP. Le contraddizioni tra la classe operaia turca e il regime non possono essere nascoste a lungo con la repressione e la divisione su linee nazionali. I numerosi scioperi e le mobilitazioni, come gli scioperi che si sono diffusi rapidamente nel settore automobilistico e le numerose mobilitazioni dopo gli attentati di Ankara – nonostante importanti operazioni militari e di polizia – sono solo un assaggio delle prossime lotte.

Israele

La questione palestinese resta irrisolta e continua ad avvelenare la vita politica del Medio Oriente. I tentativi di Abu Mazen e dell’Autorità Palestinese di isolare Israele diplomaticamente all’Onu e in altri consessi internazionali sono esercizi futili.

I rapporti tra l’amministrazione Obama e il governo di Israele sono diventati apertamente ostili da quando Netanyahu ha accettato un invito dei repubblicani a tenere un discorso al Congresso Usa l’anno scorso.

Quando Netanyahu è stato eletto, la Casa Bianca ha evitato le congratulazioni di rito. Non c’è stata nessuna telefonata da Obama; al suo posto, è il segretario di Stato John Kerry che ha fatto una breve chiamata al primo ministro. Questo piccolo incidente, di per sé di scarso rilievo, è indicativo delle crescenti contraddizioni tra gli Usa e Israele.

In un tentativo di mettere Washington sotto pressione, Netanyahu ha fatto ricorso al ricatto più sfacciato. I servizi segreti israeliani hanno ottenuto dettagli segreti sui negoziati sul nucleare tra Iran e Stati Uniti da note “confidenziali” di ufficiali Usa e da informatori, contatti diplomatici in Europa e intercettazioni; hanno consegnato queste informazioni delicate a membri del Congresso.

Con simili mezzucci, Netanyahu stava cercando di sabotare l’accordo con l’Iran. Il “Wall Street Journal” ha citato un ufficiale americano d’alto rango che ha sostenuto che “un conto è se gli Usa e Israele si spiano a vicenda; tutto un altro conto è se Israele spia i segreti americani e li rispedisce al legislatore americano per tagliare le gambe alla diplomazia americana”.

Il gelo si è irrigidito ancor più quando Netanyahu ha esplicitamente escluso la cosiddetta soluzione “due popoli due Stati” – la pietra angolare degli sforzi di pace di Washington. La Casa Bianca ha avvertito che l’amministrazione Obama avrebbe potuto “ricalcolare” la sua posizione nelle trattative con Netanyahu.

Israele ha mantenuto la sua morsa sulla Cisgiordania. Gaza viene lentamente strangolata e gli insediamenti ebraici nei Territori Occupati vengono espansi spietatamente. La dirigenza palestinese è totalmente impotente, il che porta ad azioni di disperazione da parte dei giovani arabi, azioni che porteranno acqua proprio al mulino di Netanyahu. Questo è un altro colpo ad Obama e all’imperialismo Usa che ha fallito nei suoi tentativi di trovare una soluzione di compromesso.

L’ascesa della Cina

In Oriente, gli Usa si trovano di fronte un’altra sfida: l’ascesa della Cina. Dopo la crisi del 2008 la Cina ha salvato l’economia mondiale assorbendo una grande quantità di capitale in eccesso (cioè di sovrapproduzione). Ora però il ruolo della Cina nel mondo si è trasformato nel suo opposto. Come potenza economica emergente, affamata di materie prime per nutrire le sue industrie, la Cina è penetrata in Africa e in Sud America dove fondamentalmente ha estratto risorse naturali. Adesso però deve affrontare una crisi di sovrapproduzione.

Come in Germania prima del 1914, le forze produttive ammassate in Cina non possono essere contenute entro i suoi confini. Questo sta portando a conflitti con gli Stati circostanti così come con le grandi potenze imperialiste. Gli enormi programmi di stimolo economico non hanno avuto effetti duraturi. La Cina si trova costretta a ricorrere al dumping per scaricare vaste quantità di beni a basso prezzo sul mercato mondiale. Così, il ruolo della Cina nell’economia mondiale si è invertito.

Sempre come la Germania in passato, la Cina si sforza di ottenere un potere e un’influenza negli affari mondiali che riflettano la sua forza economica. Sta cercando di avere una redistribuzione delle sfere d’influenza. Agli occhi delle potenze esistenti, specialmente il Giappone e gli Stati Uniti, le ambizioni propulsive della Cina sono sempre più percepite come una minaccia. Pubblicamente gli Stati Uniti plaudono all’apoteosi della Cina fino allo status di grande potenza, nella misura in cui i cinesi rispettano le norme internazionali e recitino una parte adatta a loro nel “sistema multipolare”; concretamente, però, ogni volta che la Cina fa qualcosa sullo scenario mondiale, gli Usa cercano di tenerla a bada.

L’America ha sistematicamente impedito alla Cina di aumentare il proprio peso in organismi finanziari internazionali come il Fondo Monetario Internazionale. Anche una blanda proposta di aumentare le risorse dell’FMI (dando leggermente più voti alla Cina) è stata ostracizzata per anni dal Congresso. Gli Usa hanno anche frustrato gli sforzi di accrescere il peso della Cina nella Banca Mondiale. Per controbilanciare il peso crescente della Cina nell’area, gli Usa stanno anche facendo intrighi con undici altri Paesi delle due rive del Pacifico per formare la Partnership Trans-Pacifica, che esclude la Cina, sebbene sia l’economia più importante del Pacifico occidentale; ma la Cina continua ad allargare la sua influenza nella regione, con gran disappunto degli americani.

Questo l’abbiamo visto nel caso della Banca di Investimento Infrastrutturale Asiatica (AIIB). Come al solito, l’America ha adottato una politica di contenimento; nel concreto, però, questa politica ha fallito. Ora la Cina ha nelle sue mani le maggiori riserve di valuta estera del mondo, con cui progetta di lanciare questa nuova banca per contribuire alla costruzione di ponti, strade e altre urgenze infrastrutturali in Asia.

L’élite dominante cinese vuole assicurarsi che la sua potenza militare e la sua influenza politica siano allineate alla sua forza economica. Le sue tendenze all’espansionismo la stanno portando a scontrarsi con l’imperialismo statunitense nel Pacifico, che è destinato a diventare l’area decisiva nella storia mondiale. Temendo (giustamente) che la nuova banca sia un veicolo di influenza cinese in un’area vitale per i loro interessi, gli Stati Uniti cercano di sabotare il piano. Dietro le quinte, gli americani hanno esercitato pressioni sui loro alleati perché non entrino a farne parte.

Quando la Gran Bretagna è diventata il primo Paese extra-asiatico a fare domanda di ammissione alla AIIB, un funzionario americano si è lamentato dell’atteggiamento britannico volto a un “costante accomodamento” con la Cina. Questo non ha però dissuaso Cameron dall’invitare il presidente della Cina Xi Jinping a Londra per una visita di Stato con tanto di tappeto rosso e cena con la regina a Buckingham Palace. Le potenze europee si fanno in quattro per corteggiare Pechino e conquistarne i favori. Seguendo l’esempio britannico, la Germania, la Francia e l’Italia hanno annunciato che anche loro vogliono essere membri fondatori della banca.

Una linea ad alta velocità da Shanghai a Kunming sarà completata nel 2016, promuovendo così l’espansione della Cina nel Sud-Est Asiatico. E la Banca di Investimento Infrastrutturale Asiatica, la prima istituzione finanziaria multilaterale a guida cinese, fondata nel 2015, dà alla Cina la possibilità di usare le sue enormi riserve per alimentare le sue ambizioni politiche.

Nel corso degli ultimi due anni la Cina è stata impegnata in una gigantesca campagna di costruzione di isole artificiali nel sud del Mar della Cina. In risposta, gli americani hanno mandato un cacciatorpediniere in quella che hanno chiamato “operazione per la libertà di navigazione” vicino a una delle isole artificiali. I vertici della marina cinese probabilmente non sono stati gli unici a vedere tutto questo in termini di “minaccia velata” – se non fosse che non era veramente velata.

L’ammiraglio Wu Sengli ha detto che le sue forze avevano mostrato “enorme controllo” in risposta alle “azioni provocatorie” degli Stati Uniti nel Mar della Cina meridionale. In passato tensioni come questa avrebbero condotto a una guerra, ma il rapporto di forze è cambiato drammaticamente: la Cina non è più una nazione povera, soggiogata, semicoloniale che potrebbe essere invasa dal Giappone, dalla Gran Bretagna o dagli Stati Uniti. Gli americani non possono neanche permettersi di intraprendere azioni militari contro la Corea del Nord, che li provoca in continuazione; tantomeno possono osare sfidare la potenza militare della Cina moderna. Sebbene gli Usa possono definire come propri “alleati” contro la Cina la maggior parte dei Paesi nell’area, come il Vietnam, l’ascesa della Cina metterà alla prova questo equilibrio di forze più e più volte. Ogni volta che gli Usa rinunciano a intervenire, come hanno fatto in Ucraina e in Siria, questo fatto viene registrato non solo a Pechino ma anche ad Hanoi, a Taipei e a Seul. La Cina è il maggiore partner commerciale di tutti questi Paesi e la sua quota del loro commerciale potrà solo aumentare. Queste contraddizioni in futuro causeranno instabilità politica nei Paesi del Pacifico occidentale in conseguenza della competizione per l’influenza tra Usa e Cina.

La nuova strategia da mille miliardi di dollari denominata Silk Road (Via della Seta), che coinvolge in particolare il Pakistan, l’Afghanistan e l’Asia Centrale, è motivata in parte da considerazioni strategiche (evitare lo Stretto di Malacca) ma anche dalla necessità di esportare la sovrapproduzione. Il 70% dei prestiti ai Paesi della nuova strategia Silk Road sono fatti su condizione che siano coinvolte imprese cinesi; ciò però sta anche provocando conflitti con questi Paesi e all’interno di essi.

Il Corridoio Economico Cina-Pakistan, un immane progetto che punta a connettere il Porto di Gwadar nel Sud-Ovest del Pakistan con la regione autonoma cinese dello Xinjiang, è un’estensione dell’iniziativa della Via della Seta del XXI secolo proposta dalla Cina. Si presume che porti benefici al Pakistan nei trasporti, nelle infrastrutture, nelle telecomunicazioni e nell’energia; in realtà, è un piano per trasformare il Pakistan in un satellite cinese.

La Cina avrà i maggiori benefici dall’apertura di rotte commerciali dalla Cina occidentale e conquistandosi un accesso diretto tramite il Mar Arabico all’area mediorientale ricca di risorse naturali, aggirando le rotte logistiche più lunghe che attualmente passano dallo Stretto di Malacca. Il progetto contempla la costruzione di autostrade, ferrovie, gasdotti e oleodotti che collegheranno la Cina al Medio Oriente. La Cina punta a Gwadar anche per espandere la sua influenza sull’Oceano Indiano, una rotta vitale per i trasporti petroliferi tra l’Atlantico e il Pacifico.

Lo Stato cinese ha queste mire per servire gli interessi geopolitici e strategici dell’élite cinese. Il progetto incontra l’opposizione dell’imperialismo Usa e anche di una sezione importante dei nazionalisti beluci. Non porta benefici agli abitanti di Gwadar che vivono e lavorano in condizioni disperate; al contrario, sono privati dei loro diritti sulla regione. C’è anche del risentimento tra i sindh e altre nazionalità per i cui territori questo corridoio non è previsto che passi. Così, la politica espansionista della Cina finisce per aggravare le contraddizioni nel Pakistan e nell’intera regione.

Il Pakistan, l’Afghanistan e l’India

Più di un quinto della razza umana vive nel subcontinente sud-asiatico, che ha risorse naturali più che sufficienti a creare un paradiso in terra. Eppure dopo quasi sette decenni di indipendenza formale, questa terra di antica civiltà è un mare di miseria, povertà, analfabetismo e oppressione. È tormentata dalla piaga delle guerre e di terribili violenze etniche e tribali. Le borghesie dell’India e del Pakistan si sono mostrate completamente incapaci di risolvere qualsiasi dei compiti basilari della rivoluzione democratico-borghese. Sono più dipendenti dall’imperialismo di quanto fossero prima dell’indipendenza. Il Pakistan non è riuscito a sradicare completamente il feudalesimo, mentre l’India non è neppure riuscita ad abolire il sistema crudele e reazionario delle caste.

In Pakistan la situazione delle masse non è affatto migliore che in India. In entrambi i paesi lo sfruttamento delle masse è peggiorato di molto dal cancro della corruzione e dal saccheggio dello Stato da parte di politici avidi, di uomini d’affari e di generali dell’esercito. In entrambi i paesi vaste somme sono sprecate in spese militari a danno della spesa sanitaria e per l’istruzione.

La strategia controrivoluzionaria della cricca dominante in Pakistan ha prodotto una situazione da incubo sia in Afghanistan sia nello stesso Pakistan. La classe dominante e l’esercito sono pesantemente coinvolti nel gigantesco racket del contrabbando di droga e in altre attività criminali.

Questa è la vera base su cui prosperano i talebani e altri mostri fondamentalisti. Le faide tra cricche fondamentaliste rivali e lo Stato sono in fondo una lotta per gli enormi flussi di denaro sporco generato dal commercio della droga. Questa situazione è stata originariamente creata e incoraggiata dal Servizio di Intelligence Pakistano (l’Isi), con la piena consapevolezza e il pieno sostegno dell’imperialismo Usa, per finanziare la controrivoluzione in Afghanistan. Il risultato è stato una assoluta catastrofe.

I bigotti rabbiosi talebani e di altri raggruppamenti fondamentalisti sono ora fuori controllo. Questo si è visto nel modo più brutale con l’attentato sanguinoso a una scuola pubblica dell’esercito a Peshawar nel dicembre 2014, in cui i talebani pakistani hanno ucciso almeno 132 bambini e 9 lavoratori. Gli studenti erano tutti figli di ufficiali dell’esercito pakistano. Il risultato è stato che l’esercito è stato costretto ad incrementare i suoi attacchi contro i talebani, che un tempo erano i loro tirapiedi e i loro fantocci.

Gli imperialisti e le loro marionette locali sono responsabili della distruzione di quella che era una delle più ricche culture asiatiche. Hanno creato dei mostri di Frankenstein: cagnacci rabbiosi che non esitano a mordere la mano del loro padrone. In Afghanistan, dopo quindici anni di occupazione imperialista, non è migliorato nulla per la gente comune. L’oppressione delle donne continua indisturbata. E la situazione dei diritti umani, su cui strombazzano tanto i commentatori occidentali, è solo peggiorata.

Il governo di Kabul è disperatamente diviso e in crisi. La sua impotenza è stata rivelata da una serie di attacchi cruenti lanciati dai talebani in quelle che si presumeva fossero aree sicure. Come risultato, gli imperialisti sono stati obbligati a mantenere una presenza militare che intendevano ritirare. Il governo di Kabul si poggia sulle baionette americane; senza di esse sarebbe rovesciato immediatamente.

Fino a poco tempo fa, Un barlume di luce sembrava brillare nelle tenebre del Subcontinente. La borghesia indiana si vantava della crescita della sua economia. Parlavano di “tigre asiatica”. Quello però avveniva in un periodo di espansione dell’economia mondiale e in ogni caso i benefici di quella crescita andavano soprattutto a una minoranza privilegiata. Le condizioni per la stragrande maggioranza della popolazione non migliorarono. Ora l’economia indiana sta sentendo il vento freddo di una crisi mondiale. La rupia è crollata velocemente. Il destino dell’India è legato a quello del mercato capitalista mondiale. Non può sfuggire agli effetti della crisi globale del capitalismo.

A dispetto di tutto il suo trionfalismo demagogico, il governo di Narendra Modi è in guai profondi. Il suo Bharatiya Janata Party (BJP) ha perso un’elezione chiave nello Stato del Bihar. Gli elettori si sono lamentati, in gran parte, dell’inflazione sui prezzi alimentari. Grazie alla caduta del prezzo del petrolio, l’inflazione complessiva è stata sotto controllo da quando Modi è diventato primo ministro. Tuttavia, i prezzi crescenti di alcuni prodotti alimentari hanno fatto crescere l’inflazione nei prezzi al dettaglio negli ultimi mesi. Nel mezzo della campagna elettorale, il prezzo del arhar dal – legume rosso che è una parte essenziale della dieta popolare – è schizzato in alto, diventando un punto centrale della campagna.

La situazione reale si è vista nello sciopero generale convocato dalle dieci principali confederazioni sindacali nel settembre 2015, che hanno paralizzato l’India. I dirigenti sindacali e comunisti avevano previsto un massimo di 100 milioni di lavoratori coinvolti nello sciopero. Quella cifra da sola rivela la colossale potenza che può sprigionare il proletariato indiano. In effetti, però, più di 150 milioni di persone hanno incrociato le braccia quel giorno in uno sciopero generale totale di 24 ore, il più grande della storia.

Solo il proletariato e il suo alleato naturale, i contadini poveri, possono mostrare una via di uscita dall’incubo in cui il capitalismo e l’imperialismo hanno precipitato questa terra antica e potenzialmente prospera.

Sudafrica e Nigeria

Il Sudafrica è la chiave al continente africano. È la seconda più grande economia dell’Africa, mentre la Nigeria è la più grande in termini assoluti. La differenza in termini di livello di sviluppo tra i due paesi può essere vista tramite una statistica, il consumo di energia elettrica pro capite. Nel periodo 2011-2015 è stato di 142 kWh pro capite in Nigeria e 4328 kWh pro capite in Sud Africa. [statistiche della Banca mondiale]. La Nigeria in termini di PIL pro capite è anche ancora dietro il Sudafrica. Il Sudafrica ha anche una classe operaia forte e organizzata. Furono le masse rivoluzionarie e non le capacità negoziali dei leader dell’ANC ha portare al rovesciamento del regime dell’apartheid nel 1992. Ciò nondimeno, dopo ventiquattro anni di democrazia formale borghese sotto il dominio dell’ANC, la situazione non è cambiata di molto per la maggioranza della popolazione del secondo produttore di minerali al mondo.

Ciò ha posto le basi per un ambiente sempre più radicalizzato, specialmente tra le giovani generazioni che non hanno illusioni nei vecchi capi del movimento di liberazione, molti dei quali si sono uniti ai ranghi della borghesia. Il massacro di Marikana, dove lavoratori neri sono stati uccisi a sangue freddo dalle forze del governo dell’ANC in difesa dei proprietari (bianchi e neri) dell’industria mineraria, ha avuto un effetto profondo sull’atteggiamento di molti nei confronti del partito di governo. L’ANC oggi è visto da molti come un verminaio di corruzione e ladrocinio.

Il sindacato dei metalmeccanici NUMSA, su posizioni radicali e con quasi 400mila iscritti, si è separato dall’alleanza tripartita. I dirigenti del NUMSA parlano di fondare un nuovo partito, cosa che, se avvenisse, rappresenterebbe una seria sfida all’ANC. Ma i capi del NUMSA stanno tirando questa faccenda per le lunghe, dedicandosi piuttosto a futile battaglie burocratiche e giudiziarie con la destra dell’ANC.

In questo vuoto si è fatto avanti Julius Malema, l’ex leader della Lega Giovanile dell’ANC, coi suoi Economic Freedom Fighters [letteralmente: Combattenti per la libertà economica. NdT]. La loro retorica radicale li ha resi molto popolari, in particolare tra i giovani, anche se il loro programma consiste nello sviluppare il capitalismo nazionalista “nero” in Sud Africa. Tutto questo riflette l’enorme potenziale rivoluzionario che si sta sviluppando nella società sudafricana.

La rivoluzione riguarda anche il resto dell’Africa subsahariana, con gli avvenimenti dell’anno scorso in Togo, Burundi e il caso più importante: il Burkina Faso. Dei movimenti rivoluzionari sono scoppiati in questi Paesi e in Burkina Faso siamo stati testimoni ancora una volta di un movimento di massa che rovescia un golpe militare. Ciò evidenzia le condizioni enormemente favorevoli per la rivoluzione anche in paesi relativamente sottosviluppati.

Molto è stato fatto dalla Nigeria per diventare il “gigante d’Africa”, in quanto la sua economia ha superato quella del Sud Africa in termini di PIL assoluti, ma questo è più il risultato del ricalcolo dei dati della sua economia nel mese di aprile 2014, che sulla carta ha prodotto un aumento di tre quarti del suo PIL complessivo per il 2013 rispetto al 2012. Il dato rivisto posiziona la Nigeria come il 26-più grande economia del mondo. Ma la situazione reale è rivelata dal fatto che in termini di reddito pro capite (2688 dollari Usa) si classifica al 121 posto. E’ il sesto più grande esportatore di petrolio grezzo, ma non ha raffinerie di petrolio funzionanti e deve importare tutto il suo carburante.

Continua ad essere un’economia molto poco sviluppata dove il petrolio fornisce ancora oltre il 90% dei guadagni conseguiti dalle esportazioni e quasi l’80% delle entrate statali. Le riserve in valuta estera nel 2008 – quando il prezzo del petrolio era ancora molto alto – erano di circa 68 miliardi di dollari ma ora sono scese fino a 27 miliardi, e sono ancora in calo.

Il vero quadro della vita che deve affrontare il nigeriano medio viene rivelato dai dati della indice di sviluppo umano (HDI), che fornisce una misura dello sviluppo del capitale umano in tre campi: reddito, salute e istruzione. Gli ultimi dati mostrano che la Nigeria in termini HDI è classificata al 156 posto su 187 paesi

Nel 1998-99 la classe dominante nigeriana, consigliata e spinta dai suoi padroni imperialisti, rimosse il regime militare al fine di evitare lo scoppio dal basso della lotta di classe e si affidò a un regime parlamentare che ha visto Obasanjo eletto presidente per il PDP. Il PDP è rimasto al potere fino allo scorso anno da quando era ormai diventato molto impopolare.

Un punto di svolta nel corso della lotta di classe in Nigeria è stata la rivolta del gennaio 2012 “Occupy Nigeria”, innescata dal rialzo dei prezzi del carburante da parte dell’amministrazione del PDP guidata allora da Jonathan e che arrivò sulla scia della rivoluzione araba, identificandosi apertamente con il movimento in Egitto e Tunisia dell’anno precedente. Quel movimento ha cambiato radicalmente l’equilibrio delle forze di classe nel paese, ha accelerato il processo di perdita di fiducia nel partito borghese allora dominante, il PDP, e seminato i semi della implosione e della scissione di quest’ultimo , e della sua successiva massiccia sconfitta nelle elezioni del 2015.

Di fronte alla scomparsa del vecchio PDP, la classe dominante nigeriana si è rivolta a Buhari per la salvezza. Ha promosso la formazione della APC e proposto Buhari come proprio candidato. Tutto ciò per sfruttare la sua immagine di leader non corrotto, che conduceva presumibilimente uno stile di vita frugale, e presentarlo come “l’uomo del popolo” che avrebbe messo fine alla corruzione e la povertà. Avevano bisogno di una figura come Buhari per riempire il vuoto lasciato dalla scomparsa del PDP. Il fatto che la borsa è salita quando Buhari ha vinto le elezioni lo scorso anno è stata una chiara indicazione che la borghesia ha creduto di poter gestire il sistema per la loro migliore rispetto al presidente uscente Goodluck Jonathan.

Buhari è stato eletto da masse entusiaste, nella speranza che potesse portare un reale cambiamento. Ma il suo programma rimane quello della continuazione delle privatizzazioni e della svendita del patrimonio statale. La sua recente decisione di permettere la vendita del carburante a un prezzo molto più elevato lo ha parzialmente esposto agli occhi almeno dei settori avanzati. Non passerà molto tempo prima che settori più ampi delle masse nigeriane comprendano la vera natura del regime Buhari dalla propria esperienza di vita.

Una cosa che è chiara: se ci sono voluti 16 lunghi anni per svelare la vera natura del PDP e per la sua implosione, l’APC non godrà di un tale lusso. Dovrà governare con l’economia in una situazione molto più difficile e portare a termine le sue politiche tra una popolazione enorme che si è già risvegliata e ha messo alla prova il proprio potere. L’implosione del PDP si è sostituito con successo con un APC traballante in modo che lo status quo potrebbe continuare. Una volta che la vera natura di Buhari diventa chiara alle masse, possiamo aspettarci un nuovo movimento al livello di quello del 2012.

Il Venezuela e i limiti del riformismo

La situazione in America Latina si è trasformata. Dieci anni di relativa stabilità garantiti dalla crescita economica si sono conclusi. Ciò sta avendo profondissime implicazioni sociali e politiche.

La situazione in Brasile è cambiata drammaticamente con l’entrata dell’economia in un grave declino, col PIL che l’anno scorso è diminuito del 4,5%. Ciò, insieme a una serie di misure impopolari e antioperaie introdotte dal governo, ha messo a fuoco con più chiarezza il fatto che il PT sta difendendo gli interessi del capitalismo, non quelli dei lavoratori. Questo ha enormemente indebolito il PT. Sono passati i giorni in cui il partito poteva comandare eterna lealtà dalle masse. Al suo posto abbiamo una radicalizzazione, specie giovanile, che si esprime in una serie di scioperi e proteste.

La vittoria di Mauricio Macri alle elezioni presidenziali argentine mette la parola fine di dodici anni di governi kirchneristi che si sono conclusi con un’economia in crisi, riserve di valuta estera deteriorate, inflazione circa al 25% e un deficit di bilancio oltre il 6% del PIL. Ciò ha creato le basi per la vittoria della destra. Ora Macri sta portando avanti una brutale politica di austerità con decine di migliaia di licenziamenti nel settore pubblico, tagli brutali ai finanziamenti per i servizi di base e alla spesa sociale e una dura repressione contro gli attivisti dei movimenti sociali. Anche se avesse vinto Daniel Scioli, avrebbe dovuto portare avanti politiche simili. La crisi del capitalismo lo avrebbe lasciato con poca scelta.

Quanto detto manifesta i limiti della demagogia nazionalista della “sinistra”, che cerca di risolvere le contraddizioni del capitalismo senza portare avanti l’esproprio della borghesia e dell’imperialismo. Ovvero, cerca di quadrare il cerchio. Ripulito dalla sua terminologia radicale e “rivoluzionaria”, questo nazionalismo di sinistra si rivela come poco più che una variante del riformismo di sinistra adattata alle tradizioni e alla psicologia dell’America Latina.

Tuttavia, il kirchnerismo mantiene una base di sostegno significativa. La brutalità con cui Macri e la borghesia argentina stanno applicando la politica di austerità sta già causando, dopo alcuni mesi di shock e disorientamento, una riorganizzazione delle agitazioni popolari con mobilitazioni di massa molto importanti. Questa situazione crea condizioni molto favorevoli per i marxisti per raggiungere lo strato più avanzato delle masse che sta cominciando a cercare una guida e una soluzione che vada oltre la fallimentare politica demagogica del kirchnerismo.

Chávez in Venezuela è arrivato più vicino di tutti a sposare la rivoluzione socialista; ma non l’ha mai portata fino in fondo. In seguito alla sua morte, tutte le contraddizioni sono emerse con conseguenze disastrose.

Nicolas Maduro non possiede né il carisma né la chiarezza di visione del suo illustre predecessore. Ricorda Robespierre, che continuava e continuava a convocare le masse in piazza per salvare la rivoluzione… finché un giorno le masse non risposero. Quando Robespierre si muoveva verso destra, agiva come un uomo che seghi il ramo d’albero su cui si sta seduto. Deludendo e demoralizzando la sua base di massa, la leadership bolivariana ha preparato il terreno per la propria distruzione.

La sconfitta elettorale in Venezuela il 6 dicembre 2015 è stata il risultato diretto del rifiuto di condurre la rivoluzione a compimento espropriando la classe dominante e distruggendo lo Stato capitalista. Il tentativo di regolare il capitalismo attraverso i controlli sui prezzi e sulla valuta estera hanno invece portato a immani distorsioni economiche. La dirigenza bolivariana ha usato i ricavi del petrolio per finanziare programmi sociali e un programma massiccio di lavori pubblichi. Il crollo del prezzo del petrolio nel mercato mondiale la ha privata di margine di manovra.

Le distorsioni create dal tentativo di regolamentare il capitalismo ha portato inevitabilmente a una situazione caotica: un circolo vizioso di iperinflazione, contrabbando, mercato nero, corruzione e crimine. Il governo Maduro, restando fermamente entro i limiti del capitalismo, è stato incapace di affrontare questi problemi. Una sezione importante delle masse ha perso fiducia nel governo e ciò ha portato direttamente alla sconfitta elettorale. Tra le elezioni presidenziali del 2013 e le elezioni parlamentari del 2015 il PSUV e le forze sue alleate sono passate da 7.587.532 voti a 5.599.025. In altre parole, i bolivariani hanno perso quasi due milioni di voti. L’opposizione controrivoluzionaria dal canto suo è andata da 7.363.264 a 7.707.422 voti, guadagnandone appena 344mila.

A fallire non è stato il socialismo o la rivoluzione, ma, al contrario, il riformismo, le mezze misure, la corruzione e la burocrazia. L’opposizione controrivoluzionaria, avendo una maggioranza di due terzi nell’assemblea nazionale lancerà un’offensiva per abolire le leggi più progressiste della rivoluzione; per riconquistare il controllo sulle leve fondamentali dell’apparato statale; per privatizzare le aziende e le terre nazionalizzate; per cancellare le regolamentazioni dei prezzi e della valuta estera; e per far partire un referendum revocatorio del presidente.

Questi avvenimenti hanno sbugiardato la vacuità dell’illusione del “socialismo petrolifero”, così come la capitolazione di Tsipras in Grecia ha fatto con i limiti e le contraddizioni del riformismo di sinistra. In pratica, si tratta della stessa cosa: un tentativo utopico di fare politiche socialiste senza una rottura radicale col capitalismo. Linee politiche di questo tipo finiscono sempre per demoralizzare le masse, distruggere la loro fiducia nel socialismo e preparare la strada alla vittoria della reazione in una forma o in un’altra.

Marx ha spiegato che la controrivoluzione può fare da pungolo per spingere avanti la rivoluzione. Dopo un periodo di inevitabile disorientamento, le masse rivoluzionarie cercheranno di resistere agli attacchi della controrivoluzione mediante la mobilitazione e l’azione diretta. La sconfitta elettorale servirà anche ad accelerare il processo di differenziazione interna nel campo bolivariano. All’interno della direzione ci sarà una forte pressione a scendere a compromessi con l’opposizione. Gli elementi più corrotti e degenerati faranno il salto della barricata per unirsi alle file della destra. Ma gli attivisti rivoluzionari di base trarranno conclusioni più avanzate e saranno aperti alle idee marxiste. Questo creerà nuove condizioni favorevoli per il rafforzamento della tendenza marxista nel movimento bolivariano.

La tattica e le organizzazioni di massa

Le prospettive sono una scienza, ma la tattica è un’arte. Al fine di elaborare una tattica corretta non possiamo basarci su schemi generali e prospettive per il futuro. Dobbiamo anche ricordarci che le prospettive sono condizionali, un’ipotesi di lavoro, non sono i dieci comandamenti scolpiti nella pietra, validi per tutte le stagioni e in tutte le situazioni. Le prospettive devono essere sviluppate e aggiornate, e devono essere sempre confrontate con la realtà. Sulla base degli eventi, bisogna modificare e cambiare le prospettive, o, se necessario, gettarle nel cestino e ricominciare.

La tattica deve basarsi sulle circostanze concrete, che sono in continua evoluzione. Quando si parla di tattica, dobbiamo ricordare che non siamo alla ricerca di una formula che si adatti ad ogni possibile scenario. Abbiamo bisogno di un approccio flessibile, tenere d’occhio la situazione nei suoi cambiamenti, e nel frattempo, costruire le nostre forze organizzate in modo da essere in grado di intervenire quando giunge l’occasione.

Nel definire la nostra tattica dobbiamo prestare particolare attenzione ai processi che avvengono nelle organizzazioni di massa. Queste ultime mutano nel tempo, riflettendo i flussi e i riflussi del movimento di massa. Per lunghi periodi di relativa pace sociale il movimento operaio è sotto la pressione di classi aliene. I partiti di massa e sindacati acquisiscono una spessa crosta burocratica.

Senza la partecipazione attiva dei lavoratori, la loro vita interna diventa stagnante. I settori di vertice cadono sempre più sotto l’influenza della borghesia. Per decenni prima della crisi i cosiddetti partiti socialisti e socialdemocratici hanno portato avanti contro-riforme: deregolamentazione, privatizzazioni e tagli. Quando la crisi è scoppiata nel 2008, la borghesia in molti casi ha consegnato il potere ai riformisti perché svolgessero il lavoro sporco e salvassero il capitalismo, introducendo attacchi selvaggi nei confronti dei lavoratori (Spagna, Grecia, ecc). In tali condizioni, i partiti vecchi e consolidati possono perdere la loro base di massa abbastanza rapidamente. Il vecchio equilibrio è stato distrutto. Siamo entrati in un periodo caratterizzato da cambiamenti repentini, crisi, scissioni, la scomparsa di alcuni partiti e la nascita di nuove formazioni politiche.

E’ stato il declino e la degenerazione del PASOK che ha portato all’ascesa di Syriza in Grecia. Allo stesso modo, sono stati i tradimenti del PSOE e la degenerazione riformista del Partito comunista che hanno portato alla rapida ascesa di Podemos in Spagna. Questo tipo di fenomeno era stato già anticipato dall’ascesa di Chavez e del movimento bolivariano in Venezuela.

Dove tali movimenti emergano dovremo tenere d’occhio queste formazioni e lavorare al loro interno e intorno ad esse. Ma queste formazioni hanno anche dei limiti. Esse tendono ad essere ideologicamente confuse e organizzativamente fragili. Se non sviluppano radici all’interno della classe operaia e adottano una chiara politica anticapitalista, possono crollare tanto rapidamente come si sono sviluppate.

Nell’ultimo periodo la tendenza dominante nel movimento operaio è stata il riformismo di destra. Ma in base all’attuale situazione di crisi del capitalismo le organizzazioni riformiste tenderanno a entrare in crisi. Questo può portare a spostamenti verso sinistra nella direzione del riformismo di sinistra, come vediamo già in Gran Bretagna, o a un crollo di quelle organizzazioni in cui non si sviluppi alcuna sinistra.

Dove i tradizionali partiti di massa sono crollati o sono stati gravemente indeboliti abbiamo visto apparire nuove formazioni in alcuni paesi. Il punto principale che dobbiamo capire è che le masse non si muovono attraverso piccoli gruppi. L’idea dei settari che sia possibile creare un partito rivoluzionario semplicemente proclamandolo è assurda, ed è contraddetta dai fatti. Se le vecchie organizzazioni hanno tradito, le masse possono aggregarsi attorno a nuove formazioni, a patto che siano sempre formazioni di massa. Queste formazioni tenderanno verso il riformismo di sinistra, o anche verso il centrismo sotto la pressione degli eventi.

Non dobbiamo mai dimenticare che la differenza tra riformismo di destra e di sinistra è solo relativa. L’essenza del riformismo – sia di destra o di sinistra – è l’idea che non sia necessario rovesciare il sistema capitalista ma che sia possibile migliorare gradualmente le condizioni dei lavoratori e degli oppressi, nel quadro del capitalismo. Ma l’esperienza della Grecia, del Venezuela, e ovunque questo sia stato tentato dimostra che non è possibile. O si prendono le misure necessarie per distruggere la dittatura del Capitale, o il Capitale ti distruggerà.

Questo è ciò che intendiamo quando diciamo che il tradimento è insito nel riformismo. Non è una questione di tradimento deliberato ma il semplice fatto che se si accetta il sistema capitalista, allora è necessario accettare le leggi di quel sistema. Nella situazione attuale significa che è necessario effettuare una politica di tagli e austerità. Il caso di Tsipras è molto istruttivo al riguardo.

Pur dando sostegno critico ai riformisti di sinistra non dobbiamo fomentare illusioni, o accettare alcuna responsabilità per le loro azioni. Ricordiamo che Tsipras ha goduto di grande popolarità, fino a quando le sue politiche sono state messe alla prova. Alla fine ha accettato un compromesso e si è arreso alle pressioni della borghesia. Ora le persone che avevano illusioni in Tsipras e pensavano che fossimo troppo critici sono più aperti alle nostre idee.

Dobbiamo distinguerci. Naturalmente, dobbiamo evitare il tono di denuncia stridulo delle sette. Dobbiamo entrare in un dialogo, mantenendo un tono amichevole e sottolineando ciò che noi appoggiamo, ma anche spiegando la necessità di andare oltre, di procedere all’abolizione del capitalismo. Chiediamo: come si potranno pagare le riforme proposte se non nazionalizzando le banche e le industrie chiave?

Il forte spostamento a destra nelle organizzazioni di massa nel passato periodo ha indotto molti gruppi di sinistra a sviluppare conclusioni estremiste, considerando del tutto irrecuperabili le organizzazioni di massa. Credevano di poter costruire un’alternativa alla sinistra delle vecchie organizzazioni. Tuttavia, tutti i tentativi delle sette di dichiarare nuovi partiti rivoluzionari sono miseramente falliti. Gli estremisti falliscono perché ignorano il movimento reale delle masse e delle loro organizzazioni. Ma l’estremismo porta anche inevitabilmente all’opportunismo. Nel tentativo di ottenere un’eco fra le masse, finiscono per annacquare il programma, per cercare di trovare un pubblico più ampio.

Questo opportunismo, che di solito tenta di mascherarsi per mezzo di appelli volti all’adozione di”rivendicazioni transitorie”, finisce sempre in un vicolo cieco. Se le masse vogliono un programma riformista hanno già un sacco di leader riformisti a cui rivolgersi. Il programma di transizione non è una serie di richieste riformiste singole da scegliere come le ciliege e da collocare in una struttura riformista. Si tratta di un programma complessivo ed elaborato per la rivoluzione socialista internazionale, per il potere dei lavoratori.

La nostra priorità in questa fase è quello di orientarci a quel settore della società dove possiamo costruire ora, non nel futuro. Questo settore è generalmente quello giovanile, che è aperto alle idee rivoluzionarie. Conquistando i giovani e formandoli alle idee del marxismo stiamo gettando le basi per un lavoro di successo nelle organizzazioni di massa quando le condizioni si presenteranno.

Un nuovo periodo

Il lungo periodo di crescita economica che ha caratterizzato i due decenni prima della prima guerra mondiale è stato il terreno su cui il riformismo ha messo radici per la prima volta. Fu creata l’illusione che il capitalismo potesse essere riformato in modo pacifico e graduale attraverso l’attività parlamentare e sindacale. Queste illusioni sono andati in frantumi nel 1914. La guerra mondiale ha inaugurato un periodo del tutto nuovo – un periodo di guerra, rivoluzione e controrivoluzione.

Il periodo che è durato dal 1914 al 1945 è stato del tutto diverso da quello che l’ha preceduto. E’ stato un periodo di turbolenza in cui è stato distrutto il vecchio equilibrio. Attraverso l’esperienza di una lotta di classe burrascosa, gli operai stavano traendo conclusioni rivoluzionarie. La crisi sociale ed economica scosse le vecchie organizzazioni riformiste alle loro basi. I partiti della classe operaia entrarono in crisi. Correnti di sinistra di massa si cristallizzarono sotto l’influenza della rivoluzione russa, portando alla formazione di partiti comunisti di massa.

Questo non è il luogo per affrontare tali processi in dettaglio. Basti dire che le sconfitte delle rivoluzioni tedesca e spagnola, a seguito dei tradimenti delle direzioni socialdemocratiche e staliniste, hanno portato direttamente alla seconda guerra mondiale. La seconda guerra mondiale si è conclusa in un modo particolare, non previsto da Trotskij, così come non era stato previsto da Roosevelt, Stalin, Churchill e Hitler.

Abbiamo analizzato questo periodo in passato e non c’è bisogno di ripetere le ragioni per la ripresa del capitalismo dopo la Seconda Guerra mondiale. L’economia mondiale entrò in un periodo di ripresa che è durato per decenni e ha lasciato la sua impronta sulla coscienza delle masse nei paesi capitalisti avanzati dell’Europa, del Nord America e del Giappone. Come nel periodo che precedette la prima guerra mondiale questo ha portato ad un rafforzamento delle illusioni riformiste. Per decenni i marxisti sono stati isolati dalle masse e hanno lottato controcorrente.

Ci riferiamo qui alla situazione del mondo capitalistico industrializzato. La situazione era del tutto diversa per le masse di quelle che erano allora i paesi coloniali e semi-coloniali dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina. In tutto questo periodo, ci sono stati sconvolgimenti continui in Cina, Algeria, in Indocina, Bolivia, Cuba, Cile, Argentina, nell’Africa sub-sahariana, in Indonesia e nel subcontinente indiano. Ma la rivoluzione coloniale che ha sollevato milioni di persone è stata dirottata dallo stalinismo. In molti casi, gli stalinisti hanno condotto le masse a sconfitte terribili. Anche quando sono riusciti a prendere il potere, come in Cina, hanno creato regimi sul modello della Russia stalinista che non potevano attrarre i lavoratori dei paesi industrializzati di Europa e degli Stati Uniti.

Il ruolo negativo svolto dallo stalinismo in quel periodo è stato un fattore di enorme complicazione su scala mondiale. In relazione agli stati operai deformati burocraticamente in Russia e in Europa orientale, basti dire che gli sviluppi rivoluzionari nel 1953 a Germania Est e in Ungheria nel 1956 e i movimenti in Polonia e in Cecoslovacchia furono o dirottati lungo linee nazionaliste oppure brutalmente schiacciati dalla burocrazia russa. La borghesia in Europa occidentale e in America poteva puntare il dito contro gli stalinisti e dire ai lavoratori: “Vuoi il comunismo? Ecco il comunismo per te!” E la maggior parte dei lavoratori traevano la conclusione: “Meglio il diavolo che conosci che il diavolo che non conosci”.

L’enorme potenziale rivoluzionario del proletariato europeo è stato mostrato anche al culmine della ripresa del dopoguerra, nel 1968, quando i lavoratori francesi furono protagonisti del più grande sciopero generale rivoluzionario della storia. In realtà, il potere era nelle mani dei lavoratori francesi nel 1968, ma quel magnifico movimento fu tradito dai dirigenti stalinisti della CGT e del Partito comunista. Gli eventi francesi del 1968 sono stati una anticipazione degli sviluppi ancora più drammatici che sconvolsero l’Europa negli anni Settanta, che coincisero con la prima grave recessione economica grave dal 1945. Ci sono state rivoluzioni in Grecia, Portogallo e Spagna e movimenti rivoluzionari in Italia e in altri paesi.

Ancora una volta, come negli anni Trenta, ci fu la formazione di correnti riformiste di sinistra e addirittura centriste nelle organizzazioni di massa in Portogallo, Spagna, Grecia, Gran Bretagna, Francia e Italia. Ma questa tendenza è stato interrotta quando i movimenti rivoluzionari sono stati fatti deragliare dalla direzione. Quando i leader riformisti di sinistra si sono avvicinati al potere, hanno presto abbandonato la loro retorica di sinistra e si sono spostati bruscamente a destra. Questa è stata la premessa politica per un ripresa del capitalismo. Per tre decenni il pendolo ha oscillato verso destra. I lavoratori sono tornati di nuovo in uno stato di apatia. I settori avanzati sono diventati demoralizzati e scettici. Era iniziato un periodo che abbiamo caratterizzato come reazione morbida.

In queste condizioni la pressione della borghesia sui vertici del movimento operaio si moltiplicò mille volte. Questo processo è stato enormemente aggravato dal crollo dello stalinismo. La borghesia era euforica. Si vantavano della fine del comunismo e del socialismo e anche della fine della storia. Ma la storia ha finalmente preso la sua rivincita sulla borghesia e sui suoi apologeti nella leadership del movimento operaio. Dialetticamente, tutto si è trasformato nel suo opposto.

Conclusioni

Il nuovo periodo in cui siamo entrati sarà molto più simile agli anni tempestosi del periodo tra le due guerre che a quello dell’ultimo mezzo secolo. Ma ci sono anche profonde differenze. Negli anni Venti e Trenta una situazione pre-rivoluzionaria di solito non durava a lungo. La contraddizione veniva risolta rapidamente da un movimento nella direzione della rivoluzione o della controrivoluzione. In Italia l’occupazione delle fabbriche in 1919-1920 è stata separata dalla Marcia su Roma di Mussolini da soli due anni.

Ora, però, i processi sono più prolungati. La ragione fondamentale di questo è la correlazione mutata delle forze tra le classi. Nella maggior parte dei paesi europei i contadini erano una percentuale consistente della popolazione, anche dopo il 1945. In Grecia erano la maggioranza. Ciò ha fornito un serbatoio per la reazione fascista e bonapartista. Lo stesso valeva per gli studenti e colletti bianchi: insegnanti, funzionari statali, impiegati di banca, ecc. Ma ora i contadini sono in gran parte scomparsi in Europa; i colletti bianchi sono stati assorbiti nel proletariato e si sono trasformati in un settore di lavoratori molto combattivo. Gli studenti, che prima del 1945 fornivano una solida base per la reazione e il fascismo, ora sono passati prevalentemente nel campo della rivoluzione.

Per questo motivo la crisi può protrarsi per molto più tempo rispetto al passato prima di giungere all’epilogo finale. Ciò non significa che la situazione sarà più tranquilla, ma piuttosto il contrario. Ci saranno flussi e riflussi, sia politicamente che economicamente (il declino del capitalismo non significa la fine del ciclo di espansione e recessione, né esclude la possibilità di periodi di ripresa temporanei, che si sono verificati anche durante la Grande Depressione).

I flussi e i riflussi inevitabili del ciclo economico non risolveranno nulla dal punto di vista dei capitalisti. Dopo un lungo periodo di recessione economica e di elevata disoccupazione, anche una piccola ripresa (che è il meglio che possono sperare) porterà ad una crescita degli scioperi sul fronte economico, dato che i lavoratori lottano per riconquistare ciò che è stato tolto loro durante la crisi . In una crisi, tuttavia, ci può essere un riduzione del numero degli scioperi, ma ci potrà essere anche una tendenza alla radicalizzazione politica.

Già c’è un profondo malessere in ogni parte del mondo. Dopo un breve ritardo, la gente sta cominciando a capire che non c’è via d’uscita finché l’attuale sistema ingiusto e oppressivo rimarrà in vita. Il processo rivoluzionario si sta ancora sviluppando, diventando più ampio e profondo. Ci saranno ondate di scioperi e manifestazioni, che fungeranno da palestra di allenamento per le masse. Nuovi settori della popolazione saranno trascinati nella lotta – come gli specializzandi in Gran Bretagna, gli agricoltori greci e gli assistenti di volo di Air France. Ma tale è la profondità della crisi che anche gli scioperi e le manifestazioni più tumultuosi in sé risolvono nulla.

Solo un cambiamento fondamentale dell’ordine sociale sarà in grado di risolvere la crisi. Ciò richiede un’azione politica radicale. La scena politica sarà caratterizzata da violente oscillazioni verso sinistra e verso destra. I partiti esistenti entreranno in crisi e si spaccheranno. Si potranno sviluppare tutti i tipi di formazione politica, a sinistra e a destra. La classe operaia passerà di volta in volta dal fronte politico a quello sindacale. Nuovi attacchi, sempre più pesanti si stanno preparando nei confronti dei lavoratori. La lotta di classe sarà combattuta nelle strade.

L’attuale crisi può durare per anni – forse decenni – a causa della mancanza del fattore soggettivo: un partito rivoluzionario di massa con una direzione autenticamente marxista. Ma non procederà in linea retta. A un’esplosione seguirà un’altra. Cambiamenti bruschi e repentini sono impliciti nella situazione. Si verificheranno tutta una serie di movimenti e di lotte di massa in un paese dopo l’altro. Le vecchie organizzazioni saranno scosse alle fondamenta. Ricordiamo che Podemos è cresciuto da zero a 376.000 membri nel giro di 18 mesi.

In un paese dopo l’altro le masse alla fine diranno “basta”. Ma senza una politica e un programma marxista rivoluzionaria chiari, senza le idee del marxismo, non avremmo ragione di esistere come una tendenza a parte, indipendente dai riformisti di sinistra. La condizione preliminare per il nostro successo è quello di mantenere la nostra identità rivoluzionaria e le nostre idee chiare e precise. Qualsiasi tentativo di raggiungere la popolarità a breve termine, accodandoci ai riformisti di sinistra finirebbe in ultima analisi in un disastro.

La strada per le grandi vittorie è lastricata da innumerevoli piccoli successi. Il nostro compito è ancora quello di conquistare i singoli, per educarli sulla base di una solida teoria marxista, per costruire legami solidi con i settori più avanzati dei lavoratori e dei giovani e attraverso di loro costruire legami con le masse. Sulla base di eventi, le masse impareranno. Le idee che ora sono ascoltate da pochi saranno avidamente ricercate da decine e centinaia di migliaia di persone, preparando la strada ad una tendenza consistente di quadri marxisti che possono costituire la base per una corrente marxista di massa che sarà in grado di lottare per la direzione della classe operaia.

Attualmente siamo una piccola minoranza. Questo è principalmente il risultato di fattori storici oggettivi. Per un intero periodo storico le forze del vero marxismo erano deboli e isolate. Nuotavamo contro la corrente. Ma ora il corso della storia è cambiato. Stiamo cominciando a nuotare con la corrente. Il nostro compito è quello di ristabilire le tradizioni del bolscevismo a livello internazionale e costruire una forte Internazionale proletaria che sarà destinata a cambiare il mondo. Questo è l’obiettivo che ci siamo posti di fronte a noi: l’unico obiettivo vale la pena lottare e sacrificarsi. L’obiettivo sacro della emancipazione della classe operaia.

Torino, 31 luglio 2016