La rivoluzione boliviana a un bivio

Il processo rivoluzionario boliviano ha sempre più amici intorno al mondo: sono i lavoratori e gli attivisti politici che vedono nella nostra lotta, la lotta del popolo lavoratore boliviano, una speranza per il futuro contro la crisi del capitalismo.

Questo è un bene: è l’espressione autentica del naturale istinto internazionalista del movimento operaio mondiale. Ai questi nostri compagni italiani vogliamo offrire questa testimonianza dall’interno, per conoscere meglio le dinamiche di un processo ancora aperto che ha mobilitato intere masse di lavoratori, contadini, indigeni e giovani per l’emancipazione dalla barbarie capitalista.

Una condanna per il capitalismo

La propaganda della destra nazionale, amplificata dai grandi media di comunicazione internazionali, non perde occasione per gridare al totalitarismo, allo spirito antidemocratico che caratterizzerebbe il governo di Evo Morales condannando senza appello la lotta per il socialismo. Quanta falsità e quanta ipocrisia in queste campagne mediatiche orchestrate da chi ha sempre inteso la democrazia come il diritto di fare quel che vuole sulla passività e la miseria popolari. In realtà i passi in avanti compiuti finora dal governo del Movimento al Socialismo ed Evo Morales sono la più inappellabile delle condanne per il capitalismo, un sistema che ha costretto la nostra gente alla povertà più nera per secoli.

Evo Morales ha nazionalizzato integralmente una serie di società di servizi: centrali elettriche e società di trasporto dell’energia, la telefonica ENTEL (che fu di TELECOM ITALIA). Nel settore della produzione è stata nazionalizzata integralmente la più grande miniera di stagno del paese, a Huanuni, dando lavoro a 5000 operai contro gli 800 impiegati prima da una multinazionale, ed ultimamente un’altra miniera che era di proprietà del colosso svizzero mondiale dello zinco Glencore. La più grande fabbrica tessile del paese, dichiarata in fallimento dalla proprietà, è stata nazionalizzata per – come dichiarato dal governo – “preservare un patrimonio produttivo e salvare il posto di lavoro dei 1500 operai”.

La nazionalizzazione del gas, ancorchè ridotta a dichiarazione costituzionale che il gas è bene nazionale incedibile mentre la produzione reale continua ad essere gestita dalle multinazionali, ha incrementando le entrate dello Stato dai 100 milioni di dollari o poco più che si ricevevano fino al 2006, ai più di 2600 milioni di dollari del 2011. Con questo denaro il governo ha aumentato i salari come mai prima, ha introdotto assegni di sostegno per le madri, gli anziani e i bambini in età scolare, per combattere il lavoro minorile, ha aperto ospedali e aumentato il personale medico, ha creato società di produzione nei settori della carta, la trasformazione ed il commercio di prodotti agricoli, l’oro ecc.

I risultati nella battaglia contro la povertà estrema e per il lavoro sono unici nella storia boliviana. Un milione di persone – su 10 milioni di abitanti – sono uscite dalla condizione di povertà estrema e nello stesso periodo, tra il 2006 ed oggi, sono stati creati mezzo milione di posti di lavoro “buono”, di quello cioè coperto dalle norme legali e della previdenza. Mentre in tutto il mondo si eleva l’età pensionabile, in Bolivia questa è stata ridotta a 58 anni, 55 per le donne con tre figli e fino a un minimo di 51 anni per i minatori.

Tutto questo sarebbe stato impossibile senza le nazionalizzazioni. In occasione di una riunione della FAO a Roma Evo Morales ebbe modo di consigliare la stessa politica di nazionalizzazioni a tutti i paesi poveri. In realtà questi dati sono una speranza anche per i lavoratori di tutti i paesi ricchi colpiti dalla inevitabile crisi del capitalismo. Quello che irradia dalla Bolivia è un messaggio chiaro da questo punto di vista: un altro mondo è necessario, con il socialismo.

Un cammino aperto

Questo non vuol dire che la Bolivia sia già socialista, nè che la strada al socialismo sia tutta in discesa. In primo luogo c’è la questione di dove andiamo. Nelle fila del MAS e tra i contadini si parla di “socialismo comunitario”, un socialismo cioè emanazione della comunità indigene dove, tra infinite contraddizioni che non è il caso di spiegare qui, esiste una proprietà collettiva della terra. L’espressione è affascinante senza dubbio, ma come tutti i concetti indefiniti si presta a troppa confusione.

Secondo il Vicepresidente Alvaro Garcia Linera, che cerca di darne una interpretazione vicina al marxismo, socialismo comunitario è la comunità agraria in un contesto di sviluppo delle forze produttive. Altri considerano questa espressione come la difesa della comunità agraria così com’è oggi, con tutte le sue arretratezze e dipendenze sempre maggiori dai meccanismi della economia verde. Molti ne fanno un’espressione di folclore, indianista o marxista.

In secondo luogo, il processo rivoluzionario che viviamo sta attraversando innumerevoli contraddizioni proprio a partire dalla storica elezione del 2009, quando 2/3 dei lavoratori, contadini e ceti medi boliviani votarono per Evo Morales e il MAS. Sono le contraddizioni proprie del “modello” per cosi dire di transizione al socialismo che attraversiamo e che fanno della nostra economia un capitalismo di Stato, caratterizzato da un massiccio intervento dello Stato in una economia nella quale il capitale privato e multinazionale giocano ancora un ruolo centrale. Le conseguenze inevitabili di questo modello sono la redistribuzione della ricchezza non solo verso il basso ma anche, e forse soprattutto, verso l’alto e un sempre maggiore grado di corruzione che irrigidisce e chiude gli stessi spazi democratici aperti dal processo.

Problemi interni

L’inflazione che ha accompagnato i primi anni di spese pubbliche è stata “domata” con il solito trucco di cambiare il paniere dei prodotti. Così ad aprile del 2008 avevamo una inflazione dell’11% mensile, da allora la variazione dei prezzi non ha mai raggiunto l’1% mensile. Inoltre si continuano ad emettere titoli di debito dello Stato con tassi fino al 5,40%  che sono accaparrati dalle banche private, i cui profitti sono cresciuti fino al 200% negli ultimi anni. Quella salariale è una bomba a tempo destinata ad esplodere ripetutamente in una economia erosa dall’inflazione e dove la maggioranza dei lavoratori guadagnano ancora meno di 10 euro al giorno mentre i padroni tra sabotaggio della produzione, indennizzi alle nazionalizzazioni e speculazione finanziaria portano a casa la fetta maggiore della torta.

La speculazione, la corruzione e il contrabbando sono esplosi quando il governo ha cercato di orientare la produzione agricola al mercato interno. L’importazione da parte dello Stato di prodotti di prima necessità per far fronte a questo sabotaggio della borghesia nazionale e delle multinazionali, significa un enorme drenaggio di risorse dell’erario. L’attività mineraria continua ad essere totalmente dominata dalle multinazionali, che hanno approfittato del rialzo dei prezzi internazionali realizzando enormi guadagni e lasciando allo Stato imposte di appena il 9% sui loro utili.

Sebbene lo Stato guadagni di più ora con la parziale nazionalizzazione del gas, anche le multinazionali realizzano maggiori profitti l’aumento dei prezzi, e questo continua a rappresentare un problema politico enorme. Il sabotaggio della produzione, esclusivamente orientata alla esportazione, da parte delle principali multinazionali del paese (PETROBRAS e REPSOL) ha provocato un paradosso: Bolivia produttore ed esportatore di gas spende un terzo delle sue entrate da questo attività per mantenere le sovvenzioni pubbliche al prezzo dei carburanti.

Esportiamo gas e petrolio non raffinato e importiamo dalle stesse multinazionali bombole di gas ad uso domestico, benzina e diesel. L’anno scorso il governo, sorprendendo tutti, emise un decreto che fu sepolto in una settimana dall’ondata di scioperi che incendiò il paese, con il quale riportava all’arbitrio del mercato il prezzo interno dei carburanti, con l’obiettivo di incentivare la produzione delle multinazionali. Questo cedimento alle pressioni delle multinazionali ha provocato un improvviso scetticismo in molti strati della popolazione, specie quelli meno organizzati.

Stato e organizzazioni sociali

Il Vicepresidente, ad un convegno con i dirigenti delle multinazionali del gas dove ha citato Lenin, sosteneva che non è vero che per costruire il socialismo sia necessario nazionalizzare tutte le leve principali della economia e che uno Stato che sia del popolo può fare accordi con le multinazionali. La presenza di multinazionali, banche e imprese private non solo permette ai capitalisti accaparrare ancora la quota maggiore della ricchezza nazionale, mentre, secondo le statistiche ufficiali, la quota destinata ai salari si è ridotta del 7%. Soprattutto fa di essi un attore indesiderato del processo capace di condizionarlo. Per esempio i conflitti per la terra con alcuni settori indigeni dell’Oriente sono esacerbati dal fatto che il governo fa ampie concessioni ai latifondisti e al loro sistema di produzione estensivo e non intensivo, basato cioè sulla massiccia occupazione e concentrazione di terre.

Dire che il nostro sia uno Stato del popolo lavoratore è poi un riflesso di una pericolosa concezione riformista. Il Vicepresidente Linera cita come prove di questa teoria la presenza maggioritaria di esponenti delle organizzazioni sociali tra deputati, governatori regionali e funzionari statali. Ma non è cambiando il personale dello Stato che si cambia la natura del suo potere.

In primo luogo, come affermato da Rafael Puentes, il responsabile nazionale della formazione politica del MAS, il fatto che il partito fosse il canale più sicuro verso il lavoro nell’apparato statale, ha attratto una infinità di opportunisti che controllano molte delle sue strutture locali. Nel Congresso Nazionale celebrato ad aprile le varie frazioni clientelari si sono scontrate a pugni e calci davanti ad Evo Morales, dando prova della degenerazione nelle fila del partito. La spesa pubblica è fonte di una corruzione dilagante ed è frenata da una burocrazia sempre più famelica e improduttiva.

Solo con una vera democrazia operaia è possibile risolvere questi problemi pratici e stimolare tra i lavoratori l’attaccamento al processo e al socialismo. Si è molto parlato per esempio delle pretese salariali dei lavoratori boliviani, e dell’estremismo dei “trotskisti” della COB afferrati a interessi corporativi. Nel 2009 i minatori di Huanuni decisero in assemblea di congelarsi il salario per un anno per favorire investimenti nell’azienda e far fronte ad una caduta del prezzo dello stagno. Lo decisero autonomamente, perché Huanuni è una azienda statale sulla quale i 5000 minatori esercitano, orgogliosamente, il controllo operaio.

L’anno scorso invece un aumento improvviso nella domanda di energia elettrica, non soddisfatta dalle società private, cadde sulla centrale statale di Guarachi provocando lo scoppio di una turbina. I lavoratori in questa come quasi in tutte le società dello Stato non solo non hanno nessun ruolo nella pianificazione economica, ma non hanno neppure diritto al sindacato, perché considerati “servitori dello Stato”. Quella del controllo operaio come si vede è una questione estremamente pratica e centrale per ulteriori sviluppi.

Problemi internazionali

A queste contraddizioni interne se ne sommano altre di carattere internazionale, che la crisi mondiale del capitalismo acuisce. In America Latina e contro il Brasile è in atto una offensiva imperialista. Il “progressista” Perù insieme ai governi di destra di Messico, Colombia e Cile hanno aperto un area di libero mercato che è un muro eretto contro la penetrazione brasiliana verso il Pacifico. Lo stesso colpo di Stato in Paraguay va letto anche a partire degli interessi statunitensi a collocare una base militare al confine con il Brasile, questione rispetto alla quale il governo di Lugo è stato peraltro, fin troppo ambiguo.

La Bolivia rappresenta il principale fornitore di gas per il Brasile (circa il 40% del consumo) e il suo corridoio verso il Pacifico. Chi controlla la Bolivia estende le sue mani al collo dell’economia brasiliana. Ed è anche per questo che la sola presenza di un governo nato dalle lotte popolari e permeabile ad esse, è considerato un pericolo per l’imperialismo. Evo ha espulso l’ambasciatore statunitense Goldberg – già copartecipe della distruzione della Yugoslavia – per le sue implicazioni nel tentativo di colpo di Stato del 2008. L’ambasciata USA ha aperto un ufficio sulle “questioni indigene” attraverso il quale consiglia e finanzia alcune delle organizzazioni indigene d’opposizione. L’agenzia della cooperazione internazionale degli USA – USAID – è la comoda copertura per finanziare e provocare la destabilizzazione del governo.

Tuttavia è la stessa unità dei governi “progressisti” latinoamericani ad essere messa in discussione dalla crisi. Il Brasile ha esercitato enormi pressioni per la realizzazione di una autostrada che distruggerebbe un parco naturale e territorio indigeno al centro della Bolivia e gli servirebbe ad accelerare il suo transito verso il Pacifico. Questo ha messo in difficoltà il governo boliviano verso la sua base indigena, permettendo infiltrazioni imperialiste in essa. In reazione ai timidi tentativi boliviani di costruzione di fabbriche per la trasformazione degli idrocarburi in fertilizzanti ed alla rescissione di alcuni contratti con società brasiliane, il governo di Dilma Rousseff ha concesso asilo politico a un senatore boliviano della opposizione, corrotto e assassino: uno schiaffo diplomatico alla Bolivia.

A questo si sommano l’esplosione di misure protezioniste, specie in Argentina, i cedimenti alle multinazionali in Perù o anche in Ecuador, le lotte commerciali dentro del MERCOSUR ecc. La conclusione è che quella dei “campi antiimperialisti” è una stupidaggine. Le deboli e/o dipendenti economie latinoamericane ballano al vento della crisi. L’antiimperialismo ancor di più a queste latitudini o è lotta per il socialismo o è una farsa, destinata a capitolare al nazionalismo borghese e ripeterne gli errori.

Le minacce golpiste

I tentativi golpisti o di infiltrare le organizzazioni sociali e sindacali sono stati, per tutte queste ragioni, frequenti nel corso di questi anni. Si cominciò nel settembre del 2008, quando le bande fasciste della UJC , l’ “unione” dei giovani di Santa Cruz, assaltarono istituzioni pubbliche per preparare il terreno ad un colpo di Stato. Evo Morales chiese all’esercito di intervenire, ma il comando generale delle Forze Armate ordinò di restare nelle caserme. Fu una strepitosa mobilitazione popolare che portò migliaia di lavoratori alle porte di Santa Cruz a sventare e sconfiggere il colpo di Stato.

Questi tentativi si basano sulla “strategia di massa” che fu sperimentata già nel 1972 in Cile, quando uno sciopero dei camionisti finanziato dalla CIA, preparò il terreno a Pinochet. Ma questa strategia di massa golpista è possibile solo se il governo e il MAS abbandonano il terreno dell’ iniziativa di massa,  separandosi dalle masse  invece di appoggiarsi ad esse e promuoverne il protagonismo a partire dai settori più avanzati. A differenza di Allende nel 1972, Evo Morales ha i 2/3 del parlamento ed avrebbe la possibilità di controllare la situazione con la partecipazione delle masse e con il loro appoggio far fronte alle pressioni interne e internazionali.

Negli ultimi conflitti invece il governo ha scelto una strada diversa. Tra aprile e maggio medici e lavoratori della sanità sono stati in sciopero per 60 giorni contro un decreto che estendeva l’orario di lavoro da 6 a 8 ore. Il governo ha gridato al golpe, la propaganda nei canali ufficiali tirava in ballo la militanza politica del dirigente dell’associazione dei medici di La Paz, della destra del MNR (Movimento Nazionalista Rivoluzionario), “dimenticando” di ricordare che il dirigente nazionale dei medici è del Partito Comunista Boliviano. Soprattutto ha polarizzato l’attenzione attorno a questo settore privilegiato, quando la totalità di quelli che manifestavano erano infermieri e ausiliari che si dicevano d’accordo all’estensione della giornata lavorativa, a patto che fossero loro riconosciuti i diritti all’associazione sindacale, che come detto sono preclusi ai “servitori pubblici”. Non è un semplice errore di gestione di un conflitto, è il sintomo di una mentalità ancora maggioritaria che relega la classe lavoratrice a un ruolo di stampella del governo e non di costruttore materiale del socialismo.

Negli ultimi giorni c’è stato uno sciopero della polizia. Questo sciopero era sostenuto nell’ombra dagli ufficiali della polizia, che soffrono l’intromissione del governo in una delle istituzioni più corrotte del paese. Ma, come hanno giustamente ricordato alcuni esponenti nazionali del MAS, quella del golpe non era l’intenzione delle migliaia di poliziotti di base boliviani che sono realmente dei morti di fame. Un poliziotto guadagna 1200 bolivianos al mese lordi (100 euro), quando, secondo statistiche ufficiali, il minimo perché una famiglia di due persone possa vivere è di 3500 bolivianos (300 euro).

Un solo proiettile vagante avrebbe potuto far precipitare la situazione, che lo volessero o no i poliziotti ammutinati. Che chiedevano diritti sindacali, che hanno espulso dalle loro fila gli elementi della destra che il governo individuava come provocatori. Basti pensare che nella delegazione eletta nelle caserme di polizia che ha trattato con il governo c’erano anche poliziotti conosciuti, anche da chi scrive, per essere simpatizzanti del MAS.

Il pallino del gioco ce l’ha ancora il MAS, che invece sta commettendo gli stessi errori del passato. Invece di nazionalizzare tutte le leve fondamentali dell’economia e stabilire con i lavoratori una politica salariale di largo respiro, stimolando il controllo operaio e contadino sulla produzione, il governo, come a suo tempo fece Allende e più recentemente Lugo, ha aperto le sue porte e quelle del partito alla destra. La maggioranza della UJC oggi controlla la gioventù del MAS a Santa Cruz ed ha espulso nostri compagni. Voltagabbana e trasformisti politici sono deputati nazionali e regionali. I servizi segreti sono gestiti da un ex collaboratore del dittatore Banzer. Le Forze Armate senza le quali non è possibile nessun colpo di Stato, sono coccolate con la concessione di privilegi e la garanzia dell’impunità. I militari sono i meglio pagati del paese e gli unici ai quali è garantita una pensione pari al 100% dell’ultimo salario.

L’illusione è di poter stabilizzare così le Forze Armate al lato del processo rivoluzionario. Come già è successo infinite volte nella storia, la verità è che i militari stanno solo aspettando che il governo tagli il ramo su cui è seduto per poter intervenire. Ed i segnali in questo senso sono molto preoccupanti, molto più delle semplificazioni che paragonano quello che è successo in Bolivia con i poliziotti a quello che successe in Ecuador un paio d’anni fa. Nelle ultime 3 tornate elettorali, elezioni dei giudici e municipali di due grandi città, le astensioni sono cresciute a più del 40%.

Mentre nel 2008 di fronte al pericolo del colpo di Stato le masse si sono mobilitate in tutto il paese e i militari restavano chiusi in caserma, oggi con un governo che denunciava trame golpiste dietro lo sciopero dei poliziotti, a La Paz c’è stata solo un presidio di un migliaio di attivisti del MAS, alla quale abbiamo partecipato, e una manifestazione di contadini in numero molto inferiore a solo un anno fa. Mentre i militari si preparavano ad intervenire.

Le “colpe” del troskismo

Il processo rivoluzionario boliviano è evidentemente una battaglia aperta, viva e non conclusa, nella quale si scontrano differente tendenze nella società e si mettono in pratica idee, teorie sulla rivoluzione. Qualcuno, in Bolivia e fuori, invece di affrontare i problemi politici concreti del processo preferisce rinverdire un ciarpame della storia e concentrarsi nell’accusa di “trotskismo” verso chiunque si mobiliti o critichi, intendendo, come ai “bei vecchi tempi”, per “trotskismo” una tendenza estranea al movimento operaio che col suo estremismo è complice, più o meno coscientemente, dei golpisti.

Se in Bolivia a guidare il processo c’è un partito come il MAS e non un grande partito comunista, c’è una ragione. Le teorie, secondo le quali in paesi come la Bolivia sia necessario separare la borghesia “buona” dalla “cattiva” ed appoggiare la prima in chiave antiimperialista, riducono la lotta antiimperialista a vigilanza poliziesca. Le stesse teorie che sostengono che sia necessario prima sviluppare le forze produttive con la borghesia “buona” e poi parlare di socialismo hanno prodotto aberrazioni indelebili nella coscienza dei lavoratori boliviani.

Dopo la rivoluzione del luglio del ’46 gli stalinisti entrarono nel governo rappresentante degli interessi degli imprenditori minerari e a Potosì spararono e massacrarono decine di minatori in sciopero per il reintegro di 3 loro compagni. Dopo la rivoluzione del ’52 diedero un sostegno critico, come adesso, puramente formale, al governo del MNR pensando di poter fare da tramite tra questi e l’URSS, quando l’intenzione dei nazionalisti era ricostruire lo Stato borghese travolto dalla rivoluzione. Nell’82 sostennero il governo della UDP (Union Democratica y Popular) responsabile di una inflazione del 600% colpevole di non aver saputo frenare la fuga di capitali con l’unica misura possibile: la nazionalizzazione delle banche. Sempre in nome di un appoggio servile ai governi considerati progressisti, dietro ai quali imbalsamare i lavoratori senza dargli nessuno spiraglio di indipendenza di classe.

All’ultimo Congresso della COB (Central Obrera Boliviana) c’era un enorme striscione dietro la presidenza dove, attorno alla frase “l’emancipazione dei lavoratori sarà opera di loro stessi” di Marx, c’erano stampati i busti di Marx, Engels, Lenin, Trotskij, Guillermo e Cesar Lora (principali dirigenti del Partito Operaio Rivoluzionario, vecchia sezione della 4 internazionale), Federico Escobar (fondatore del PC-ML, maoista) ed altri dirigenti operai. La COB non esisterebbe senza queste figure ed i lavoratori lo sanno bene: questo è il trotskismo in Bolivia altro che tendenza estranea al movimento operaio!

Questo Congresso, celebrato all’inizio di quest’anno, è stato vinto dalla delegazione dei minatori di Huanuni con un documento dal significativo titolo “Unità rivoluzionaria contro il capitalismo vetusto e agonizzante per costruire una Bolivia socialista”. In questo documento i minatori di Huanuni – vera avanguardia del proletariato nazionale – sostenevano autocriticamente la necessità di passare “dal sostegno passivo alla partecipazione attiva organica e militante” nel processo per ricondurlo a “un cammino socialista”, appoggiando tutte le misure progressiste del governo e lottando contro i suoi cedimenti e le tendenze procapitaliste interne al MAS.

Durante l’ammutinamento della truppa della polizia, il sindacato di Huanuni ha emesso due comunicati. Nel primo dicevano “appoggiamo lo sciopero dei poliziotti di base e chiediamo per loro diritti sindacali e politici”; nel secondo, avvertendo che i minatori non sarebbero rimasti a guardare se qualcuno pensava di utilizzare lo sciopero per fini golpisti, affermavano: "l’unico modo di fermare l’offensiva della destra golpista è riducendo i suoi interessi economici con la nazionalizzazione delle nostre risorse ancora in mano al capitale multinazionale, tradizionale finanziatore dei colpi di Stato. Questo è approfondire il processo rivoluzionario, qualsiasi altro cammino è il riformismo e ci porterà inevitabilmente alle situazioni di incertezza che abbiamo vissuto per decenni”.

Questa è la posizione che la Tendenza marxista “El Militante” ha sostenuto dalla sua fondazione nel 2008, come testimonia la nostra militanza, e le posizioni politiche che rendiamo pubbliche attraverso la nostra pagina web e la nostra rivista. Ma è anche la posizione di Trotskij, leggere per credere gli scritti polemici con i suoi stessi sostenitori messicani sulle nazionalizzazioni realizzate da Lazaro Cardenas, che per il rivoluzionario russo rappresentavano per i lavoratori “le più grandi opportunità e i più grandi rischi. Questi consistono nel fatto che il capitalismo di stato, attraverso sindacati controllati, può contenere gli operai, sfruttarli e paralizzare la loro resistenza. Le possibilità rivoluzionarie consistono nel fatto che, basandosi sulle posizioni in settori industriali di grande importanza, i lavoratori portino l’attacco contro tutte le forze del capitale e dello stato borghese”.

Probabilmente i lavoratori di Huanuni non hanno letto queste righe di Trotskij. Ma hanno fatto valere una esperienza storica. Hanno utilizzato scioperi per il salario come leva per esigere al governo misure radicali per avanzare al socialismo. Così hanno ottenuto la riforma delle pensioni, la nazionalizzazione della miniera di Colquiri e l’abrogazione di quel decreto supremo che nell’85, in risposta alla superinflazione, privatizò le miniere e liberalizzò i prezzi. Sostengono il processo attivamente e non sono disposti a restare con le braccia incrociate. Sono, con le masse contadine, il motore della rivoluzione. Ma quando scesero in piazza per queste rivendicazioni progressiste e fecero saltare in aria un blindato lancia acqua della polizia o le inferriate del Ministero delle Miniere, furono definiti “golpisti” da vari esponenti del governo.

Noi stiamo con i minatori di Huanuni: con chi stanno i compagni che li accusano di “troskismo”? E cominciamo anche poco a poco a conquistare la loro fiducia, mentre cerchiamo di costruire per loro una organizzazione che possa vincolarli alla lotta internazionale e dei vari settori sociali boliviani. Nella riunione del Comitato Centrale del sindacato nazionale dei minatori, organizzata a Santa Cruz durante lo sciopero dei medici e dove la delegazione di Huanuni diede battaglia per scongiurare l’idea di uno sciopero generale contro il governo lanciata da delegati di base venduti alle multinazionali, i nostri compagni che erano andati lì per volantinare e diffondere la nostra rivista furono ammessi a partecipare alla riunione. Un piccolo riconoscimento importante perché le riunioni dei minatori non ammettono estranei, reso ancor più eccezionale dal fatto che delegati di Huanuni leggessero ampi stralci della nostra dichiarazione per sostenere i loro argomenti contro lo sciopero contro il governo e per uno sciopero per la nazionalizzazione delle miniere e soprattutto la lotta per il controllo operaio.

Infine, speriamo che questo testo possa servire a chiarire molti aspetti della situazione in Bolivia. Ci abbiamo lavorato con uno scopo: invitare i militanti, i lavoratori ed i giovani italiani ad analizzare, discutere e studiare la situazione boliviana, i successi di un processo rivoluzionario che condanna senza appello il capitalismo, i termini della battaglia attuale. Preparatevi ed organizzatevi, questo è il miglior aiuto che possiate dare alla rivoluzione in Bolivia e nel mondo. Dal canto nostro facciamo tesoro delle parole del padre del marxismo latinoamericano, Josè Carlos Mariategui, che una volta scrisse: “siamo antiimperialisti perché siamo marxisti, perché siamo rivoluzionari, perché opponiamo al capitalismo il socialismo come sistema antagonista destinato a succedergli, perché nella lotta contro gli imperialismi stranieri facciamo il nostro dovere di solidarietà con le masse rivoluzionarie dell’Europa”.