Il voto francese e l’ipocrisia dell’Europa

Dalla Francia un pericolo per lʼEuropa”, “Il voto per Marine Le Pen rischia di dividere il continente”.

Queste alcune delle dichiarazioni della borghesia illuminata e della “sinistra progressista” davanti al risultato delle amministrative francesi che ha visto il crollo del Partito socialista al governo e lʼascesa del Front national, formazione di estrema destra.

Il tutto nel contesto di unʼastensione record, che sfiora il 40% dellʼelettorato.

Le urne dʼOltralpe sono solo una cartina tornasole dellʼenorme rabbia e insoddisfazione che cova allʼinterno della società e che ha trovato unʼespressione nellʼastensione e nel voto di protesta. Solo chi vive in stanze dorate, lontano mille miglia dalla gente comune, può essere stupito dal risultato.

Si parla di “pericolo di frattura” dellʼEuropa. Ma lʼEuropa è già divisa e frantumata in mille pezzi. È una divisione, profonda, di classe, operata da questo sistema economico. Prendiamo lʼesempio della Francia, la seconda economia del continente. Alla fine del 2012 cʼerano 4,9 milioni di poveri (900mila in più rispetto a tre anni prima), i disoccupati sono 3,3 milioni, mentre il 10% dei francesi possiede il 62% della ricchezza del paese (fonte: humanite.fr).

Sono cifre comuni a tutti paesi. Quando Napolitano ripete in maniera accorata che bisogna “salvare lʼEuropa”, qualcuno dovrebbe rivolgergli la domanda: quale Europa? Quella dei padroni e dei banchieri o quella dei lavoratori? La prima è già salva, anzi non è mai stata così bene. È la seconda, quella dei lavoratori, che affoga.

E se, come in Francia, a trascinarli a fondo è un governo “di sinistra” che aveva promesso di cambiare le politiche reazionarie di Sarkozy, non cʼè da sorprendersi se alla fine un settore di elettorato disperato e scontento, vota a destra o si astiene. Soprattutto se manca una vera alternativa da parte della sinistra “radicale”, che conferma un suo insediamento ma spreca un’occasione. In queste amministrative infatti, il Partito comunista ha stretto in almeno la metà dei comuni unʼalleanza con i socialisti, mentre il Parti de gauche di Melenchon si è coalizzato con lʼaltro partito di governo, i Verdi.

In periodi di crisi del capitalismo come questo, il riformismo dimostra ancor di più tutto il suo fallimento. Ma in questa recessione vediamo un salto di qualità: sono proprio i riformisti e le organizzazioni legate al Partito socialista europeo i più fedeli esecutori del programma della borghesia.

Lʼesempio italiano ne è la riprova. Il governo Renzi ha prodotto unʼaccelerazione allʼesecu-zione dei diktat della borghesia internazionale. Attraverso un decreto legge ha approvato la precarizzazione del mercato del lavoro, come spieghiamo nellʼarticolo a fianco, facendo impallidire la riforma Fornero. Ha in programma tutta una serie di privatizzazioni e affonderà il coltello nella spesa pubblica: il taglio alle pensioni e lʼesubero di 85mila dipendenti pubblici sono solo le prime misure che lʼesecutivo dovrà affrontare, dietro allo specchietto per le allodole della promessa di uno sconto fiscale per un settore di lavoratori dipendenti.

Tagli della spesa, ma non quella militare perché, in ossequio al padre-padrone di Washington che lo ha onorato di una visita, il Presidente del consiglio ha confermato che lʼacquisto degli F35 ci sarà.

Per avere maggiore libertà dʼazione, Renzi vuole accentrare sempre più potere nelle mani del governo, attraverso la proposta del premierato forte e lʼabolizione (che strappa facili applausi) del senato elettivo.

I poteri forti chiedono un cambio di passo anche nei rapporti con le “parti sociali”: Renzi e i suoi ministri si sono lanciati in una serie di vere e proprie provocazioni che non è azzardato paragonare a quelle che fece il primo governo Berlusconi nel 1994. Quando il governatore della Banca dʼItalia, Visco, chiede di “liberarsi dei lacci e lacciuoli” dei sindacati, quando il Ministro del lavoro Poletti afferma che “la concertazione non esiste” quando Renzi ribadisce “ascoltiamo tutti, ma alla fine decidiamo noi”, lʼintento non è semplicemente quello di mettere allʼangolo Camusso e compagnia. Lʼintenzione è di colpire al cuore la forza del sindacato, in quanto espressione organizzata del movimento operaio.

Il sogno, finora proibito, della classe dominante è quello di abolire in sostanza il contratto nazionale di lavoro. Renzi crede a riguardo di avere vita facile, sfruttando la linea compromissoria del gruppo dirigente della Cgil. In realtà queste provocazioni produrranno inevitabilmente unʼaccelerazione della lotta di classe in Italia. E questa accelerazione porterà con sé lʼaumento delle lacerazioni interne al governo che, nonostante i proclami roboanti di Renzi, si regge sulla medesima maggioranza di Letta e su un Partito democratico ogni giorno più lacerato e diviso.

Lʼaccumulazione delle contraddizioni si farà sempre più difficile da contenere. Il movimento operaio italiano può recuperare il terreno perduto in questi anni rispetto al resto dellʼEuropa in maniera molto rapida, vista la rabbia e lʼinsoddisfazione verso il sistema che è palpabile fra le masse della penisola.

Questa carica antisistema è anche lʼelemento determinante nella situazione europea, è la spiegazione del voto amministrativo in Francia ma soprattutto è la chiave di lettura delle enormi proteste di massa a cui abbiamo assistito in diversi paesi dʼEuropa, e di cui lʼultimo entusiasmante capitolo è stata la “Marcha de la dignidad” in Spagna. A Madrid il 22 marzo scorso sono confluite oltre un milione di persone, contro il governo, contro la troika e per non pagare il debito.

Queste proteste e mobilitazioni da una parte, e la rabbia spesso inespressa d’altra, hanno in comune la critica radicale alle politiche di austerità, ma anche allʼEuropa dei potenti e dei banchieri e al suo establishment.

Chi vuole costruire unʼalterna-tiva in Italia e dare un riferimento politico a queste mobilitazioni deve chiarire se si posiziona su una linea di mera riforma dellʼEuropa o su una di rottura con lʼUnione europea capitalista.

Lʼausterità della troika si può ammorbidire (come recitano i primi spot elettorali della lista Tsipras) o si deve rigettare? Rivendichiamo il rifiuto del pagamento del debito o una sua ristrutturazione? I 15 milioni di disoccupati in più allʼinterno dei paesi dellʼUe dallʼinizio della crisi necessitano di un salario garantito o devono sprofondare nella miseria?

Lʼunica unione che vogliamo è quella degli oppressi di tutto il continente, una unità di classe imperniata su un programma rivoluzionario. In caso contrario, avranno gioco facile gli slogan reazionari dellʼestrema destra, con lʼutopia reazionaria di una sovranità popolare entro i confini nazionali e all’interno del capitalismo.

Il nostro sostegno alla lista Tsipras si concretizza sulla base di un programma di rottura con le compatibilità capitaliste e dunque in una critica serrata alle illusioni riformiste che oggi caratterizzano la lista stessa.

Se allʼinterno degli attivisti prevalesse la consapevolezza che la via rivoluzionaria è quella giusta, ciò costituirebbe un passo in avanti per la costituzione di una sinistra di classe in Italia, lʼunico strumento che possa dare una voce a quei milioni di lavoratori e giovani che oggi voce non hanno. È questa l’essenza della battaglia del nostro movimento politico Sinistra, Classe, Rivoluzione.

31 marzo 2014

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