Il pantano mediorientale e la lotta del popolo curdo

La città curdo-siriana di Kobane sta per cadere. In queste ultime settimane i combattenti curdi hanno fatto fronte praticamente da soli agli attacchi dell'Isis, che ormai controlla tre delle quattro vie di accesso alla città. Nonostante tutti i proclami, l'Occidente assiste immobile a questo scempio.

L'aviazione degli Stati uniti ha praticamente azzerato da giorni i bombardamenti sulla regione e la Turchia che ha posizionato 10mila soldati al confine con la Siria, pochissimi chilometri da Kobane, ma si guarda bene dall'intervenire.

La ragione è presto detta. Il governo Erdogan aspetta cinicamente che la resistenza curda sia annientata. La repressione delle manifestazioni di ieri nelle principali città turche a sostegno della resistenza di Kobane, che ha lasciato sulla strada ben 12 morti, ne è la riprova. L'intervento di terra invocato da Ankara mira ad occupare stabilmente la parte del Kurdistan siriano oggi difeso dalle milizie dell'Ypg al fine di impedire ogni rafforzamento del regime di Assad, nemico storico nella regione.

L'avanzata dell'Is è totalmente funzionale a tale obiettvo: solo in un secondo momento Erdogan penserà a ridimensionare lo Stato Islamico. D'altra parte Ankara fa transitare il greggio del califfato per i propri porti e i suoi servizi segreti hanno addestrato i miliziani islamici.

La guerra al terrore di Obama si è tramutata quindi nella alleanza con il terrore contro i movimenti popolari.

L'articolo che segue, pubblicato sul numeno di FalceMartello in uscita in questi giorni, traccia una storia della resistenza del popolo curdo e ne delinea le prospettive.

Viva la resistenza di Kobane! Nessuna fiducia nell'intervento dell'imperialismo!

Per una federazione socialista del Medio oriente, unica garanzia per l'autodeterminazione del popolo curdo!

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Mentre scriviamo, i partigiani kurdi delle Unità di protezione del popolo (YPG e YIA) sono impegnati in un’eroica resistenza a Kobane, Kurdistan siriano, contro i tagliagole fondamentalisti dell'ISIS. La loro vittoria, ostacolata anche dalla chiusura del confine turco-siriano operata da Erdogan, costituirebbe un parziale punto di resistenza alla barbarie imperialista calata su quell'area. La loro sconfitta, un disastro. Le organizzazioni di sinistra dovrebbero portare solidarietà a questa lotta e non accodarsi ai raid della coalizione statunitense, finalizzati al recupero del controllo sul Kurdistan iracheno, zeppo di pozzi petroliferi e controllato dai miliziani di Mas'ud Barzani,  da decenni marionetta dell'imperialismo USA.

Il governo turco blocca militarmente la frontiera turco-siriana presso Kobane per impedire ai kurdi del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) di dare appoggio ai propri compagni accerchiati. Nell'articolo della pagina a fianco analizziamo meglio la strategia di Ankara. Lavoratori e giovani hanno tutto l’interesse a sostenere la lotta del popolo kurdo contro la sua oppressione. Tuttavia, è anche necessario spiegarne le cause ed  individuare una via d’uscita all’impasse attuale.

La questione curda

I kurdi sono 35-40 milioni. Il Kurdistan è un territorio grande quanto la Francia. Spartito fra l’impero ottomano e quello persiano nel 1638, da allora è stato preda del dominio straniero. I kurdi son divisi fra Turchia, Iran, Iraq e Siria, oltre ad alcune enclaves in Armenia e Nagorno-Karabakh. Alla fine della Prima guerra mondiale, l’impero ottomano crollò e la questione kurda riesplose. Il Trattao di Sèvres (1920), firmato dalla Turchia e dalle potenze alleate, conteneva promesse di indipendenza che divennero lettera morta dal momento in cui si seccò l’inchiostro usato per firmarlo. L’imperialismo britannico e quello francese, e tantomeno lo Stato turco, non avevano alcuna intenzione di concedere ai kurdi un loro Stato. La lingua e la cultura curda vennero proibiti, a dispetto dell'articolo 39 del successivo trattato di Losanna (1923). In reazione, scoppiò un movimento di resistenza che nel 1927-1930 proclamò una repubblica, repressa dall'esercito turco. La popolazione kurda venne poi “turchizzata” e denominata “turchi delle montagne”. 


Parallelamente, i kurdi iracheni, rivoltatisi negli anni ‘60, sono stati in costante conflitto con lo Stato iracheno, soprattutto a causa della centralizzazione e del dispotismo imposto dal partito nazionalista pan-arabo Ba'ath, al potere dal 1968. Una guerra scoppiò tra il 1975 ed il 1991 e l'Iran, pur continuando ad opprimere i “suoi” kurdi, sostenne in funzione anti-Saddam Hussein i kurdi iracheni, per questo puniti dal regime di Baghdad con razzie e armi chimiche. Nel contempo, la regione autonoma curda nata nel nord dell’Iran sull'onda del rovesciamento dello scià, nel 1979, fu stroncata appena il regime teocratico iraniano ne ebbe la forza. In Iraq, quando Saddam Hussein subì una sconfitta nella guerra del Golfo del 1991, i kurdi si ribellarono ancora. La rivolta scoppiò nelle città industriali e petrolifere del nord, Suleymania e Kirkuk. Gli operai formarono shoras (consigli), ma furono schiacciati dalla Guardia Nazionale repubblicana, risparmiata dal comando USA perché s’incaricasse del “lavoro sporco” contro gli insorti. Schiacciata la ribellione, gli USA crearono una "zona franca" kurda in Iraq e dal 1994 al 1998 le due fazioni principali - il Partito democratico del Kurdistan (PDK) di Barzani e l’Unione patriottica del Kurdistan (UPK) di Talabani - combatterono una guerra sanguinaria per il potere. Come spesso accade, i dirigenti borghesi delle piccole nazioni, sotto la parvenza dell’autodeterminazione, finiscono con l’essere agenti di una potenza imperialista o di un’altra.

PKK e “confederalismo democratico”


Inizialmente, il PKK proclamava l’obiettivo di uno Stato che unisse i curdi di Turchia, Iran, Iraq e Siria. L’imperialismo occidentale ed i regimi della zona hanno sempre considerata inaccettabile una simile prospettiva. Il sostegno per questo o quel movimento nazionalista kurdo, che ogni regime nella zona può dare, riflette solamente i propri ristretti interessi nazionali. Ma aiutare i kurdi per formare un loro stato significherebbe creare un precedente foriero d’instabilità. Questo spiega perché gli Usa appoggiano i kurdi iracheni ma mai permetterebbero loro di costruire un proprio Stato, che metterebbe sotto pressione la Turchia. Il popolo curdo non può riporre fiducia in nessuna potenza imperialista che periodicamente sembra stare dalla sua parte. La ricchezza del Kurdistan in risorse petrolifere e minerarie rende la regione ancor più sottoposta a pressioni imperialiste.

Negli anni ‘90 Ocalan, il leader del PKK imprigionato in Turchia, abbandonò la rivendicazione del Kurdistan indipendente, appellandosi all’Unione europea per ottenere un'autonomia limitata. Dal 2012 questo è l’oggetto di vuoti negoziati col governo turco di Erdogan, che peraltro hanno spinto la direzione del PKK ad essere timida quando nel 2013 scoppiarono nel paese proteste contro Erdogan dopo Gezy Park. Non sono posizioni che ci si aspetta da una direzione comunista. Un aiuto concreto ai kurdi oppressi non verrà mai né da un governo conservatore come quello di Erdogan – per quanto sia ai ferri corti coi generali – né dalle borghesie dell’Europa occidentale. L’UE ha importanti legami commerciali con la Turchia, compresa la fornitura di armi! La ricerca d’una soluzione negoziale rivela più che altro l'impasse nella lotta kurda. La posizione della dirigenza PKK è stata sistematizzata teoricamente da Ocalan, il quale ha abbracciato l'idea del “confederalismo democratico”, prendendo a prestito idee sulla “democrazia partecipativa” dal pensatore eco-anarchico Bookchin. Sorprende l'entusiasmo col quale siti web “libertari” accolgono questa svolta che, in realtà, copre con concessioni al municipalismo ed all’alter-mondialismo l’abbandono anche formale della prospettiva della rivoluzione. Il “Confederalismo democratico” - anche quello della “Carta del Rojava” - propone una vita politica plasmata dall'etica ma glissa sulla proprietà dei mezzi di produzione. Peraltro, poiché il Kurdistan è un’area con strutture sociali arcaiche, l’orientamento municipalista - contrario all'egemonia di una classe, anche quella proletaria, in nome d’un astratto pluralismo – finirebbe per consegnare il potere, specialmente nelle aree agricole, ai clan più influenti.

Di nuovo l’unità nazionale?

L’attuale politica del PKK rimuove le ragioni delle passate sconfitte del movimento nazionale. Infatti, appellarsi all’Unione Europea – come fa il Consiglio Nazionale Kurdo – ed al loro presunto senso morale piomberà in un vicolo ancora più cieco la lotta. Alla faccia della svolta eco-libertaria, la politica di unità nazionale dei dirigenti del PKK – includente l’alleanza politica coi dirigenti reazionari del Kurdistan iracheno – è una ripetizione della politica dei “due tempi”, il fronte popolare staliniano, che solo disastri ha provocato. Infatti, costretti alla scelta tra la solidarietà nazionale con tutti i kurdi e l’obbedienza al padrone Usa, i dirigenti del Kurdistan iracheno alla fine sceglierebbero di tradire i loro “fratelli”. 

Del resto, quanto si è visto negli ultimi mesi sul terreno militare conferma questa tesi e la necessità di una lotta indipendente da parte delle milizie del PKK e dei siriani del PYD. I peshmerga iracheni, infatti, hanno combattuto soltanto per il controllo sulle aree ricche di petrolio governate dal governo autonomo di Barzani e per conquistare a Kirkuk. Ad agosto, mentre i kurdi Yezidi erano sopraffatti dalle bande dell’ISIS, i peshmerga se la sono svignata.  La loro fuga da Sinjar è stata confermata anche da numerose testimonianze di Yezidi pubblicate dal quotidiano tedesco Der Spiegel. Senza l’intervento delle milizie kurde, siriane e turche, sconfinate in Iraq, la tragedia degli Yezidi sarebbe stata ancora peggiore.

La stessa liberazione dall’ISIS di Maxmur, Kurdistan iracheno, è stata opera di quelle milizie. Che poi Barzani sia corso a Maxmur per ringraziare il PKK indica soltanto la sua ipocrisia, non un ravvedimento. Non neghiamo la possibilità di sfruttare sul terreno militare le contraddizioni tra blocchi imperialisti. Però, la politica attuale delle direzioni kurde di sinistra vorrebbe avanzare verso alleanze stabili con partiti che sono avversari della liberazione nazionale e sociale. Il Medio Oriente presenta una catena intricata e sanguinosa di conflitti della quale sarà impossibile vedere la fine fino a quando non rinasca un movimento di massa degli oppressi contro l’imperialismo, i suoi fantocci e le cricche borghesi locali responsabili di questa barbarie.