Gaza: inizia l’offensiva di terra – Ma che succederà dopo?

L’esercito israeliano, dopo numerosi indugi, ha infine dato inizio alle operazioni di terra a Gaza, alla fine della scorsa settimana. Ma non si è trattato di un’invasione vera e propria. I generali dell’esercito israeliano sono del tutto coscienti del grande rischio al quale esporrebbero i propri soldati se incominciassero una battaglia casa per casa, con le truppe sul terreno. Inoltre, non vogliono fornire a Hezbollah la scusa di cui ha bisogno per estendere il conflitto, aprendo un secondo fronte al confine settentrionale con il Libano. Allora, quali sono i piani di Netanyahu e dei suoi generali?

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Secondo il Financial Times, Amiri Avivi, l’ex vice-comandante della divisione di Gaza dell’esercito israeliano, ha affermato: “Non stiamo correndo alcun rischio. Quando i nostri soldati eseguono le manovre, lo fanno con un’imponente copertura di artiglieria, con 50 aeroplani in volo che distruggono tutto quello che si muove”.

In effetti, lo scorso venerdì i bombardamenti hanno raggiunto la maggiore intensità registrata fino a adesso, colpendo fino a 600 obiettivi. Questo ha portato la cifra dei morti palestinesi a più di 8300, una cifra che è tragicamente destinata a crescere.

Linguaggio bellicoso

Le dichiarazioni di Netanyahu, del suo ministro della Difesa e di molte importanti figure e commentatori politici all’interno di Israele appaiono estremamente aggressive e insistono sul fatto che sono in guerra e che adesso non è il momento di parlare di “tregue umanitarie” o di un cessate il fuoco. Sono determinati a schiacciare e distruggere Hamas, quali che siano le conseguenze per la popolazione civile a Gaza.

Netanyahu ha fatto un discorso il 29 ottobre, nel quale annunciava la “seconda fase della guerra” e ha detto: “Dovete ricordare ciò che Amalek vi ha fatto, dice la Santa Bibbia”. E cosa avrebbe detto Dio, in quel libro ameno, agli antichi israeliti? Nel Primo Libro di Samuele (15:3), leggiamo quanto segue: “Va’ dunque e colpisci Amalek e vota allo sterminio quanto gli appartiene, non lasciarti prendere da compassione per lui, ma uccidi uomini e donne, bambini e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini”. Nel Deuteronomio (25:19), troviamo: “…cancellerai la memoria di Amalek di sotto al cielo…”.

Il linguaggio dell’Antico Testamento è senza dubbio genocida. Queste parole non significano altro che il totale annichilimento di un popolo. Gli amaleciti erano un antico popolo che viveva nel deserto di Negev ed erano considerati nemici giurati degli israeliti. E il buon Dio degli antichi ebrei – lo stesso dio al quale sia cristiani che musulmani si affidano – non era un tipo da “porgi l’altra guancia” o “ama il prossimo tuo”. No, era come tutti gli dei del mondo antico: un dio vendicativo e irascibile, che avrebbe appoggiato i suoi fedeli in qualsiasi guerra avessero intrapreso contro i propri nemici. E questo è il dio che Netanyahu invoca oggi!

Questo linguaggio sanguinario può essere spiegato solo con la sua fragile posizione all’interno della politica israeliana. Netanyahu è il primo ministro, ma è noto che, se le elezioni si fossero tenute prima dell’attacco del 7 ottobre, molto probabilmente le avrebbe perse. Anche dopo l’attacco, i sondaggi mostrano che Netanyahu è molto impopolare e viene ritenuto responsabile per il colossale fallimento di intelligence che ha permesso ad Hamas di cogliere di sorpresa le forze di sicurezza israeliane. Una larga maggioranza vuole che Netanyahu si dimetta appena la guerra avrà fine.

Nel tentativo di fare rientrare le critiche, ha cercato di scaricare su altri la colpa della totale impreparazione del governo e delle forze di sicurezza. Domenica, ha twittato che i vertici dei servizi di sicurezza gli avevano assicurato che fosse tutto sotto controllo, per quello che riguardava Hamas. Le reazioni nei suoi confronti sono state talmente ostili che, nel giro di qualche ora, ha dovuto cancellare il tweet e scusarsi.

Tutti sono consapevoli del fatto che la promozione di Hamas, come contrappeso all’Autorità Palestinese, è stata opera di Netanyahu. Infatti, un editoriale sul più antico giornale israeliano, Haaretz, ha recentemente accusato Netanyahu di aver permesso il trasferimento di miliardi di dollari a Hamas attraverso il Qatar. Lo avevano avvertito che si trattava di una strategia pericolosa, ma lui è andato avanti comunque, ritenendolo uno strumento per mantenere i palestinesi divisi tra Gaza e la Cisgiordania. Credeva che la politica di mantenere i palestinesi deboli e divisi avrebbe reso del tutto inverosimile l’idea di una soluzione a due stati e che avrebbe permesso di continuare la politica di annessione dei territori palestinesi.

Adesso, questa politica gli si è rivolta contro e sta manovrando disperatamente per mantenere la propria posizione di primo ministro. Questo spiega tutto il suo protagonismoe il suo atteggiarsi a comandante militare, con le citazioni dell’Antico Testamento e la necessità di spazzare via il popolo nemico.

Certo, Netanyahu potrebbe non avere il potere di annichilire un intero popolo, ma è intento a portare avanti la più grande carneficina di palestinesi che abbiamo mai visto. Al riguardo, vale la pena di vedere cosa dicono alcuni importanti personaggi israeliani. Ne vengono in mente due, Giora Eiland, ricercatore all’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale e ex-presidente del Consiglio Nazionale di Sicurezza Israeliano, e Naftali Bennet, il 13esimo primo ministro di Israele da giugno 2021 a giugno 2022, e leader del partito Nuova Destra dal 2018 al 2022.

Così è come Eiland ha aperto il suo discorso il 12 ottobre:

“… Israele non può ritenersi soddisfatta con nessun altro obiettivo che non sia l’eliminazione di Hamas a Gaza come organizzazione militare e di governo. Qualsiasi cosa meno di questo sarebbe un fallimento per Israele. […] Un’opzione è una massiccia e complessa operazione di terra, senza alcun riguardo per la durata e il costo, mentre una seconda opzione è creare le condizioni per cui la vita a Gaza diventi insostenibile. […] Israele ha bisogno di creare una crisi umanitaria a Gaza, costringendo decine di migliaia o persino centinaia di migliaia di persone a cercare rifugio in Egitto o nel Golfo”. (corsivo nostro)

Se pensate che le idee di Eiland siano marginali all’interno dell’élite dominante sionista, basterebbe guardare la crisi umanitaria che l’esercito israeliano sta già infliggendo al popolo palestinese a Gaza. Le sue parole sono state tradotte dalle parole ai fatti sul campo. Le attuali operazioni dell’esercito israeliano erano state anticipate da Eiland: “Dalla nostra prospettiva, ogni edificio a Gaza noto per avere basi di Hamas sotto di sé, incluse scuole e ospedali, è considerato un obiettivo militare. Ogni veicolo a Gaza è considerato un veicolo militare che trasporta combattenti…”.

Si spinge ancora oltre, quando afferma: “[L’attacco del 7 ottobre, nda] è paragonabile all’attacco giapponese a Pearl Harbor, che portò al lancio della bomba atomica sul Giappone. Di conseguenza, Gaza diventerà un luogo nel quale nessun essere umano possa vivere […] non c’è nessun’altra opzione per assicurare la sicurezza dello Stato di Israele. Stiamo combattendo una guerra per la nostra esistenza” (corsivo nostro).

Di nuovo, questo è quello che sta già succedendo a Gaza.

Se magari vi aspettavate un linguaggio simile da un’ex generale dell’esercito, date un’occhiata a cosa il “politico” Naftali Bennett (egli stesso un colono della Cisgiordania) ha da dire. Egli propone “un assedio totale” nella parte settentrionale di Gaza e raccomanda che le forze armate israeliane “usino costantemente la loro potenza di fuoco contro Hamas in tutta la Striscia”. E poi: “di creare una nuova striscia cuscinetto di 2 chilometri dentro il territorio della Striscia lungo tutto il suo confine. Questo attraverso l’utilizzo massiccio della potenza di fuoco, delle truppe di terra e del genio militare. Immaginate bulldozer che semplicemente spianano l’area”.

La “seconda fase” della guerra

Ottenere questo, a Gaza nella sua interezza, tuttavia non è così semplice. Per cominciare, i palestinesi si rifiuteranno di accettarlo passivamente. Stanno resistendo in qualsiasi modo e godono di una profonda simpatia da parte dei lavoratori e dei giovani di tutto il mondo.

Dunque, cosa sta succedendo sul terreno, da un punto di vista militare? L’esercito israeliano non ha intenzione di rivelare i suoi piani, chiaramente. Pertanto, dobbiamo basarci sulle operazioni che stanno conducendo adesso e cercare di comprendere la situazione a partire dalle opinioni dei commentatori più seri.

Il ministro della difesa israeliano, Yoav Gallant, ha dichiarato che l’esercito israeliano è entrato ora in “una nuova fase della guerra”. Non si tratta di un’invasione vera e propria con lo schieramento totale dell’esercito. Al contrario, essa prevede un aumento massiccio dei bombardamenti aerei, combinati con un numero limitato di carri armati e truppe di terra che avanzano. Questo è logico, se si considera quanto sanguinoso sarebbe un combattimento strada per strada, casa per casa, con un grande rischio per i soldati israeliani. L’esercito verrebbe rallentato nel dedalo delle strade della Striscia, molte delle quali ridotte in macerie, creando una situazione nella quale i combattenti di Hamas potrebbero condurre attacchi a sorpresa, imboscate e così via, anche utilizzando missili anti-carro, come è già successo nelle prime schermaglie.

I generali dell’esercito israeliano sono in contatto ravvicinato con i vertici dell’esercito americano, che sta fornendo consigli basati su passate esperienze di invasioni in aree densamente popolate, come Mosul (vedi il nostro articolo) o Fallujah, ancora prima. E in qualità di generale del Comando Centrale americano, il Generale Joseph Votel ha avvertito: “sarà un combattimento sanguinoso e brutale”. Lo stesso Gallant ha affermato che la guerra potrebbe durare per mesi. Bennet, citato sopra, è arrivato a dire che la guerra potrebbe durare “dai 6 mesi ai 5 anni”. Al di là di quanto possa durare, non sarà una operazione lampo di qualche settimana, come nelle invasioni passate di Gaza.

L’esercito israeliano si trova di fronte a due opzioni, 1) un grande invasione, oppure 2) una campagna più protratta nel tempo, nei fatti una specie di assedio di Gaza.

Vorrebbero evitare la prima opzione, dal momento che capiscono che potrebbe scatenare molto velocemente un conflitto più ampio, che trascinerebbe allo scontro con Hezbollah al confine settentrionale di Israele. Per adesso, sembra che Hezbollah stia limitando il suo coinvolgimento a scaramucce a bassa intensità, senza entrare in una guerra vera e propria.

Hezbollah non è una milizia raffazzonata. Dispone di truppe temprate dai suoi interventi nella guerra civile siriana e ha la capacità di mobilitare tra i 30mila e i 50mila soldati, facendo affidamento su un arsenale di più di 100mila missili. Nel 2006, l’esercito israeliano dovette ritirarsi dopo aver intrapreso una precipitosa invasione del sud del Libano. Già adesso, la semplice minaccia da nord ha visto la mobilitazione di 100mila soldati israeliani al confine con il Libano. L’esercito israeliano preferirebbe che tutto rimanesse a questo livello, senza doversi impegnare in una guerra su due fronti.

La minaccia di un coinvolgimento più ampio, non solo di Hezbollah, ma anche di altri fiancheggiatori dell’Iran nella regione, è reale. Già adesso, ci sono stati attacchi a basi americane in Iraq e in Siria, alle quali gli Stati Uniti sono stati obbligati a rispondere con il bombardamento di quelle che considerano come basi delle milizie filo-iraniane in entrambi i paesi. Hamas ha, infatti, lanciato un appello a attaccare gli interessi americani e israeliani nella regione, incluse le basi militari americane e tutto ciò che è collegato a uno dei due paesi.

Ci sono gruppi in Iraq, in Siria e in Giordania che sarebbero pronti a unirsi persino ai combattimenti contro Israele a Gaza. Il regime giordano è sottoposto a un’immensa pressione interna in questa situazione e sta diventando estremamente instabile. Corre il rischio di essere rovesciato da rivolte di massa nel paese. Questo destabilizzerebbe ulteriormente la regione, con l’emergere di un regime ostile giusto al di là del fiume Giordano, a differenza del regime attuale, che preferirebbe aspettare che il conflitto terminasse e si ripristinassero relazioni normali il prima possibile.

Gli Stati Uniti in particolare stanno facendo pressione per evitare qualsiasi escalation della guerra. Stanno utilizzando la questione degli ostaggi israeliani per spingere Netanyahu e il suo governo a agire con cautela. Questo sta causando divisioni interne anche nella società israeliana.

Immediatamente dopo l’attacco del 7 ottobre, l’opinione pubblica era nettamente favorevole a contrattaccare Hamas, ma da allora le opinioni sono in qualche modo cambiate. Uno studio dell’Università Ebraica di Gerusalemme rivela che la preoccupazione per gli ostaggi ha spostato l’opinione pubblica in favore della concessione di più tempo per negoziare il loro rilascio. Dal 65% di appoggio a un’invasione di terra immediatamente dopo l’attacco del 7 ottobre, il livello di appoggio è adesso diminuito al 46%.

Hamas ha annunciato che sarebbe favorevole a scambiare tutti gli ostaggi nelle proprie mani con tutti i palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Ma è evidente che Netanyahu si preoccupa poco degli ostaggi. Dice che Israele li salverà con un’invasione di terra. Questo è l’indicatore del fatto che le vite degli ostaggi sono l’ultimo pensiero nella mente di Netanyahu. Sotto pressione, è stato costretto a incontrare le famiglie degli ostaggi, ma era solo una mossa tattica per mettere a tacere le critiche a riguardo.

L’estrema destra israeliana si è spinta fino a dipingere le famiglie degli ostaggi come traditori per aver osato fare appello a un cessate il fuoco per permettere lo sviluppo di un negoziato. Per queste persone, qualsiasi concessione su questo fronte viene considerata una sconfitta che rafforzerebbe il ruolo di Hamas.

Tutto questo spiega perché l’esercito israeliano ha preferito procedere con una campagna protratta di assedio, piuttosto che con un’invasione in piena regola.

Il piano sembra prevedere incursioni veloci volte a colpire obiettivi di Hamas, per spingere i miliziani a venire allo scoperto e rivelare le proprie basi, i propri lanciarazzi e altre posizioni militari, e poi bombardare pesantemente queste posizioni. Il problema, ovviamente, è che i combattenti di Hamas sono del tutto coscienti di questo e, finché è possibile, agiranno in modo tale da ridurre la visibilità delle proprie posizioni. Questo processo sarà di certo sanguinoso, brutale e prolungato. Comporterà la distruzione catastrofica della città di Gaza e perdite umane nell’ordine delle decine di migliaia.

Che futuro per Gaza?

Questo è lo scenario a breve termine, ma che piani ha il governo israeliano per Gaza una volta che la carneficina sarà terminata? La semplice risposta è che non c’è un piano. Persino i funzionari americani hanno espresso il loro totale sbigottimento di fronte al fatto che nessuno ci abbia pensato. Gaza dovrà pure essere amministrata e governata da qualcuno. Chi sarà?

Gli israeliani affermano senza mezzi termini che non può essere Hamas. Preferirebbero che fosse l’Autorità Palestinese a prenderne il controllo. Ma Abbas, il presidente della ANP, ha già affermato che non entrerà a Gaza seduto su un carro armato israeliano. È già appeso a un filo, dal momento che l’ANP è totalmente screditata tra i palestinesi, anche in Cisgiordanoa. Non può apparire come colui che amministra Gaza per conto degli israeliani.

Il ministro della difesa Gallant ha affermato che ci sono quattro fasi in questa guerra. La prima è stata l’iniziale campagna di intensi bombardamenti aerei, che è durata tre settimane. La seconda è quello che si sta svolgendo ora, e che prevede di stanare ogni base di Hamas, ogni combattente, ogni lanciarazzi e di distruggerli completamente. Come abbiamo spiegato, questo durerà molto a lungo – e potrebbe non concludersi mai del tutto. Ma dopo di ciò, che succederà?

Secondo il Times of Israel (29 ottobre 2023):

“[…] l’esercito si sta preparando per una terza fase intermedia di combattimento, durante la quale comincerà a cercare un nuovo governo per l’enclave devastata, mentre sradica le “sacche di resistenza”.

Solo dopo questo conflitto a minore intensità, che si ritiene durerà anch’esso parecchi mesi, Gallant ha detto, Israele passerà alla sua fase finale: la disconnessione dalla Striscia di Gaza” (corsivo nostro).

Cosa implica questa “disconnessione” secondo il governo israeliano? Ebbene, questo neanche Gallant lo sa. Come nota lo stesso articolo:

“Oltre a dire che né Israele né Hamas controlleranno Gaza dopo la guerra, il ministro della difesa non è entrato nel dettaglio di cosa questa disconnessione in sostanza implicherebbe. […] “Qualsiasi cosa succederà sarà meglio di oggi, qualsiasi cosa sia”, ha detto Gallant”.

Ebbene, se Gallant non ha idea di cosa fare una volta che la guerra sarà finita, dobbiamo tornare da Naftali Bennet – che, non dimentichiamolo, è stato pochissimo tempo fa primo ministro di Israele – e vedere se può darci un’idea di cosa abbiano in mente.

Nel breve termine, spiega che i residenti di Gaza devono o spostarsi tutti a sud – sebbene anche lì vengano bombardati – oppure andarsene via del tutto dalla Striscia di Gaza e diventare dei rifugiati dei quali dovrà preoccuparsi qualche altro paese. Questo costituisce una minaccia di una vera e propria pulizia etnica su larga scala, che evoca i ricordi della Nakba del 1948 e l’espulsione di 750mila palestinesi, cacciati dalle proprie case e villaggi.

Bennet è consapevole di questa accusa e perciò suggerisce che questa evacuazione sarebbe temporanea! E una volta che si sarà consumata la totale distruzione della città di Gaza, ai palestinesi verrà permesso di tornare alla proprie case, che non esisteranno più. A quel punto, Israele si laverebbe le mani dei palestinesi di Gaza, smettendo di fornire acqua e elettricità, di commerciare con l’enclave, tagliandola completamente fuori da tutto.

Questa sarebbe la quarta e ultima fase di questa guerra, che vedrebbe, secondo Gallant, “la rimozione della responsabilità israeliane per la vita nella Striscia di Gaza e la creazione di una nuova realtà di sicurezza per i cittadini di Israele”. Questo – come abbiamo visto – verrebbe garantito da una striscia- cuscinetto lunga due chilometri, una terra di nessuno dentro la Striscia, lungo il confine con Israele.

Una guerra che prepara altre guerre

Dunque, quello a cui stiamo assistendo sarà una guerra lunga e protratta, con la distruzione su larga scala delle infrastrutture di Gaza, cifre elevate di morti tra i civili, alla fine della quale Israele si laverebbe le mani di ogni futura responsabilità su Gaza, lasciando i palestinesi al proprio destino. Se quelli che governano Israele oggi credono che questa sia una soluzione, devono vivere su un altro pianeta!

Gli analisti seri stanno ripetendo che Hamas non può essere distrutta. Certo, puoi uccidere molti dei loro combattenti, puoi distruggere molte delle loro basi e puoi provare a uccidere i suoi dirigenti. Il problema è che parte della sua direzione e della sua base di appoggio non è a Gaza ma si trova al di fuori di essa. La distruzione della città di Gaza significa anche che una parte di Hamas e dei suoi combattenti avranno preparato delle basi nella parte meridionale della Striscia, il che implica che l’esercito israeliano dovrebbe continuare la guerra bombardando pesantemente anche il sud.

Credere che, in queste condizioni, il popolo di Gaza accetterebbe un’amministrazione imposta da fuori, su richiesta di Israele, significa veramente vivere in un mondo di fantasia. C’è solo una cosa certa che l’invasione israeliana riuscirà a ottenere, ed è che una intera generazione di palestinesi avrà accumulato un immenso risentimento. Per ogni combattente di Hamas ucciso, ci saranno dieci giovani che saranno disposti a prendere le armi, come risultato di questo conflitto. Si creerà il terreno per ulteriori e più sanguinosi conflitti tra palestinesi e israeliani.

Gli imperialisti occidentali sono del tutto consapevoli di ciò, ma sono in una posizione molto fragile. Quello che risalta maggiormente è quanto si siano indeboliti gli Stati Uniti in questa situazione. Qui abbiamo la più potente nazione imperialista che il mondo abbia mai visto, con una poderosa forza militare e più di 700 basi militari in circa 80 paesi in tutto il mondo e tuttavia si sta dimostrando incapace di mantenere il controllo della situazione. Si è limitata a “consigliare” a Netanyahu cosa fare, a avvertirlo di non spingersi troppo in là, a pensare con cura prima di fare delle mosse arrischiate.

La debolezza dell’imperialismo americano emerge anche da quello che sta accadendo alle Nazioni Unite. Vengono presentate risoluzioni al Consiglio di Sicurezza da parte dei russi, dei brasiliani, degli americani, e tutte vengono bloccate dal veto americano, mostrando al mondo la vera natura di questo organismo.

Ma la recente approvazione di una risoluzione non vincolante proposta dagli stati arabi all’Assemblea Generale, che faceva appello a una tregua umanitaria a Gaza, approvata con 120 voti contro 14, con 45 astensioni, sebbene non abbia conseguenze pratiche immediate, ha rivelato quanto gli Stati Uniti e i suoi alleati siano sempre più isolati. Questo riflette un mutamento nei rapporti di forza tra le maggiori potenze. La raffazzonata “coalizione dei volenterosi”, formata da 12 paesi che appoggiano gli Stati Uniti e Israele, ha reclutato al suo interno potenze della caratura dell’Austria, dell’Ungheria, delle Isole Marshall e del Regno di Tonga.

Questo spiega anche perché Biden è costretto a continuare a ripetere il mantra degli “aiuti umanitari” a Gaza, mentre sta ancora fondamentalmente appoggiando il regime israeliano. Ha persino recuperato la posizione che, una volta finita la guerra, ci sarà bisogno di trovare una risposta politica (piuttosto che militare) e che una soluzione a due stati dovrà essere presa in considerazione.

Queste sono solo chiacchiere, dal momento che la base materiale per una soluzione a due stati è stata distrutta da decenni di colonizzazione della Cisgiordania. Questo è un fatto che i media occidentali preferiscono non sottolineare troppo. Prima dell’attacco di Hamas nel sud di Israele, l’esercito israeliano stava concentrando le sue operazioni militari nella Cisgiordania, e a che scopo? Allo scopo di dare man forte agli sconfinamenti continui dei coloni ebrei nel territorio palestinese.

Dall’inizio dell’anno fino alla scorsa estate, sono stati uccisi dall’esercito israeliano e dai coloni circa 200 palestinesi, molti dei quali in Cisgiordania (vedi Israele intensifica l’espansione degli insediamenti nella Cisgiordania occupata). Questo è avvenuto prima dell’attacco di Hamas a ottobre. Da allora, approfittando della situazione, i coloni armati hanno esteso le proprie operazioni, totalmente spalleggiati dalle forze armate israeliane. Ciò ha portato all’uccisione di più di 100 palestinesi In Cisgiordania. Il programma di insediamenti illegali, piuttosto che rallentare, ha subito una brusca accelerazione. È un fatto che, già oggi, non esiste un territorio palestinese unificato di cui parlare. Così, la soluzione politica cui si riferisce Biden non esiste.

L’attuale scenario da incubo che il popolo palestinese sta affrontando è stato preparato da Netanyahu e da tutta la classe dominante sionista, con l’appoggio dell’imperialismo americano e di tutte le potenze imperialiste occidentali, dalla Gran Bretagna, alla Francia, alla Germania, e di tutte le altre potenze minori che si sono schierate dietro la foglia di fico del “diritto di Israele alla difesa”.

I marxisti, quando analizzano una guerra come quella che si sta svolgendo adesso a Gaza, non si abbassano al livello di cercare di capire “chi ha iniziato”. Non ignoreremo 75 anni di brutale occupazione che hanno preceduto l’attacco del 7 ottobre e non ci uniremo al coro imperialista che scarica tutta la responsabilità su Hamas. La logica di ciò è quella di dare la colpa alla gente di Gaza per l’incubo che stanno attualmente attraversando: un po’ come dare la colpa del crimine alla vittima.

Questo conflitto è la continuazione di una politica che ha le sue radici nella fondazione di Israele nel 1948, quando 750mila palestinesi subirono una pulizia etnica che scacciò dalla propria patria. E in questo conflitto storico, è il popolo palestinese quello che è stato spogliato di una propria terra e che ha reagito ogni volta che un ulteriore pezzo di terra gli è stato sottratto.

Oggi, il popolo palestinese si sta rammentando della Nakba come mai prima. E la classe dominante sionista non sta neanche nascondendo il fatto che appoggia, nello specifico, la colonizzazione della Cisgiordania. Stavano attuando questa politica prima del 7 ottobre e adesso la stanno ulteriormente intensificando, arrivando a più di 700mila coloni ebrei che vivono in Cigiordania, a Gerusalemme Est e nelle alture del Golan (territorio siriano occupato).

Questo è ciò su cui si basa questa guerra: i palestinesi sono stati assassinati, aggrediti, cacciati dalla propria terra e, a Gaza, portati alla disperazione e rinchiusi in una gigantesca prigione a cielo aperto. E i comunisti devono spiegare tutto questo; devono utilizzare tutte le proprie forze, le proprie energie, e i limitati mezzi a propria disposizione per contrastare dappertutto il fuoco di fila della propaganda capitalista.

Tuttavia, controbattere a questa propaganda non è abbastanza. Così come non basta fare appello a un cessate il fuoco (che in ogni caso gli israeliani e i loro sostenitori imperialisti non hanno intenzione di garantire), o ancor meno una “tregua umanitaria”, a cui i riformisti traditori e un settore degli imperialisti fanno appello per permettere l’ingresso di aiuti con il contagocce a Gaza, dopodiché il massacro potrà continuare. Noi, come comunisti, non stiamo lottando per un ritorno alla stessa situazione che ha portato alla attuale distruzione di Gaza e all’uccisione di migliaia di persone.

Dobbiamo spiegare che le sofferenze del popolo palestinese derivano dal capitalismo stesso. È questo sistema che produce guerre, come la guerra in Ucraina e quella in Yemen. Esse derivano da un sistema che da molto tempo avrebbe dovuto essere sepolto. I popoli del Medio Oriente simpatizzano in maniera istintiva per il popolo palestinese e molti di essi sarebbero disposti a lottare in difesa dei loro diritti.

Ma le élite dominanti nella regione, dal Cairo a Riad, e tutti gli altri, non hanno alcun interesse a una lotta vera per una Palestina libera. Essi sono gli oppressori dei propri popoli e temono che qualsiasi coinvolgimento nel conflitto dalla parte della Palestina potrebbe infiammare la situazione in patria, minacciando il loro potere e i loro privilegi. A giudicare dalle proteste di massa che sono scoppiate in tutto il mondo arabo in solidarietà con la Palestina, questa è una paura giustificata.

I comunisti spiegano che una soluzione alla presente crisi può essere trovata solo attraverso la lotta di classe in tutta la regione, la lotta dei lavoratori e dei poveri contro i ricchi e i potenti e contro i loro governi corrotti. Mettendo assieme tutte queste lotte si può cominciare a vedere i contorni di una futura Federazione Socialista del Medio Oriente, che metterebbe fine una volta per tutte a decenni di guerra e distruzione.

Inoltre, l’oppressione dei palestinesi è diventata un catalizzatore della rabbia dei lavoratori e dei giovani in tutto il mondo, persino nei paesi imperialisti, testimoni anch’essi di grandi proteste, che hanno sfidato la repressione borghese e le calunnie. Questo rende il presente conflitto un fattore nella lotta della classe operaia a livello mondiale.

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