Egitto - Dove va la rivoluzione?

La fase che oggi sta attraversando l’Egitto riflette inesorabilmente alcuni limiti del processo rivoluzionario che ha spinto le masse nelle piazze a partire dal 25 gennaio 2011, di cui pochi giorni fa si è celebrato il terzo anniversario.

Con le manifestazioni di massa di stampo insurrezionale del 30 giugno scorso milioni di egiziani hanno chiesto a gran voce la caduta di Morsi. L'insurrezione popolare lo ha deposto, ma la mancanza di una direzione rivoluzionaria ha favorito il successivo colpo di stato militare di el Sisi ed ha generato nel paese un generale clima di fiducia verso l’esercito, considerato come difensore della rivoluzione.

La massiccia propaganda delle televisioni taccia di terrorismo i Fratelli Musulmani, che vengono accusati molto superficialmente di essere i responsabili di ogni bomba esplosa nel Paese, e mostra solamente le  manifestazioni dei sostenitori del movimento islamista, tacendo sistematicamente l’esistenza di quei gruppi che si oppongono sia al ritorno della Fratellanza, sia al governo dei militari (Revolutionary Socialist, Movimento 6 aprile). Nello stesso tempo i militari hanno messo in campo un massiccio piano di opere edilizie; ad esempio lo sviluppo della viabilità al Cairo. Il traffico è uno dei problemi che attanaglia la vita degli egiziani e così spuntano ponti e strade costruiti a tempo record. Un po' come dire “Guardate, vi stiamo sistemando tutto”.

La nuova Costituzione

Il 14 e il 15 gennaio si è votato per l’approvazione della Costituzione scritta dopo la deposizione di Morsi. La nuova costituzione è stata approvata con il 98.1% dei voti favorevoli. L’affluenza alle urne non è stata elevatissima: poco meno del 50 %, anche se ben più alta dell’affluenza con cui era stata approvata la  costituzione del 2012, presentata dal parlamento islamista, che si era fermata al 32,9% (63,8% voti favorevoli, 36,2% voti contrari).

Al di là della battaglia sui numeri non si può negare non sia stato un successo per i generali, che fin dal gennaio 2011 si sono mostrati abili strateghi politici. El Sisi è praticamente un mito nazionale. La classe media, con la sua, almeno apparente, libertà e autonomia da Washington lo vede come un eroe capace di risvegliare la “grandeur” egiziana. Per le classi più deboli, lavoratori e giovani, rappresenta un nuovo Nasser. Incarna quel sogno di giustizia sociale che sono con Gamal Abdel Naser si è parzialmente realizzato. In ogni manifestazione si vedono striscioni in cui campeggiano i due generali, in ogni angolo di strada si trovano poster che raffigurano Nasser sullo sfondo e el Sisi in primo piano. Per i cristiani copti è il protettore che li ha salvati dalla paura di possibili persecuzioni (durante l’estate scorsa sono state bruciate numerose chiese e uccisi alcuni cristiani. Se è molto probabile che gli autori di tali atti siano in qualche modo legati ai movimenti islamisti, le autorità sono state accusate da fonti indipendenti di non aver garantito la sicurezza né delle persone né degli edifici). In questa febbre collettiva gli scioperi sono drasticamente diminuiti.

Il 25 gennaio, nell’anniversario della rivoluzione, lo scenario ben rappresenta la situazione politica attuale: piazza Tahrir, dove i militari hanno organizzato una manifestazione celebrativa era gremita di gente che celebravano la rivoluzione, e ovviamente el Sisi. Poco lontano, vicino la stazione della metro Nasser, davanti al sindacato dei giornalisti, la manifestazione contro i militari e i Fratelli Musulmani è stata dispersa rapidamente, con qualche arresto. A Mohandessin, quartiere abbastanza centrale del Cairo, c’era la manifestazione dell’Alleanza anti-golpe (i sostenitori di Morsi) duramente repressa, in cui ci sono stati numerosi morti.

I militari, pilastro del capitalismo egiziano

Ovviamente ben presto l’illusione si dovrà infrangere. Molti sembrano dimenticare che in realtà i militari sono un tutt’uno col vecchio regime. Sono quelli che hanno sparato contro i rivoluzionari a Mohammed Mahmoud Street dove, tra il 19 e il 24 novembre 2011 le forze militari, che allora reggevano il governo provvisorio, sotto la guida del generale Tantawi, attaccarono manifestanti in questa strada, facendo una carneficina. Sono coloro che hanno promosso leggi repressive contro il diritto allo sciopero durante il post Mubarak. Sono gli stessi che continuano ad arrestare insieme agli islamisti chi lotta per la giustizia sociale e per proseguire realmente la rivoluzione in Egitto.

Si può tranquillamente affermare che l’esercito egiziano è uno dei principali gruppi economici del Paese: è proprietario di fabbriche, imprese edilizie, stazioni di benzina, clubs, ospedali. I dati sono controversi: si stima che i militari controllino tra il 15 e il 40% dell’economia del Paese. Le attuali condizioni economiche nazionali e internazionali implicano non sia possibile nessun intervento che modifichi sensibilmente le condizioni di vita dei meno abbienti senza che siano messe in discussione le fondamenta del sistema su cui si reggevano le diseguaglianze sociali. Il sistema capitalista appunto, di cui l’esercito egiziano è esponente di spicco. In altre parole non sono possibili riforme, diventa difficile pensare che i militari possano rinunciare ai loro privilegi, alle loro entrate e a un sistema economico che garantisce loro potere e ricchezza per onor di patria; nessuna delle due costituzioni post-rivoluzionarie, né quella di gennaio, né tanto meno quella islamista del 2012, hanno messo minimante in discussione i privilegi economici dei militari. Come abbiamo già spiegato, il 30 giugno i militari sono interventi non tanto per disaffezione verso Morsi e i Fratelli Musulmani, ma per l’incapacità di quest’ultimi di controllare la piazza. Di fronte alle manifestazioni di massa e alla possibilità che la situazione sfuggisse di mano e il processo rivoluzionario si approfondisse, i militari sono intervenuti presentandosi come paladini della Rivoluzione, sfruttando la debolezza della dirigenza rivoluzionaria (se una dirigenza sia mai esistita) e della sinistra egiziana.  

 

Riprendono gli scioperi

Si diceva degli scioperi, diminuiti ma non scomparsi. Le punte più avanzate continuano a lottare. Il 10 febbraio 12000 lavoratori della Ghazl el Mahalla, la più importante fabbrica tessile del Paese, di proprietà pubblica, hanno iniziato uno sciopero, che continua tutt’ora (12 febbraio). Questa fabbrica, sita a Mahalla el Kubra, città industriale sita nel Delta del Nilo, è stata il laboratorio della rivoluzione contro Mubarak. I lavoratori chiedono il pagamento del dividendo dei profitti (circa 2 mensilità), l’applicazione della legge sul minimo salariale, le dimissioni dell’amministratore della fabbrica Fuad Abdel Aleem, sotto la cui guida la fabbrica ha accumulato una quantità impressionante di debiti. Il governo già da lunedì (10 febbraio)  aveva promesso di investire 157 milioni di Le nell’azienda, ma i lavoratori hanno giudicato questa misura insufficiente e hanno deciso di continuare lo sciopero, occupando la fabbrica e organizzando cortei per la città.  2000 lavoratori delle aziende pubbliche Tanta Delta Textile Company e Zaqaziq Spinning and Weaving Company hanno seguito i lavoratori di Mahalla.

Il Ministro degli investimenti l’11 febbraio ha promesso 6 miliardi di LE nei prossimi 33 mesi destinati ad aumentare i salari e a migliorare le condizioni di lavoro. Anche i medici hanno scioperato lunedì (10 febbraio), e mercoledì è previsto  un altro stop, chiedono un aumento dei salari, un miglioramento delle condizioni di lavoro e degli ospedali, un incremento del budget annuo destinato alla Sanità (a titolo informativo, il sistema sanitario egiziano di stampo nasseriano pubblico e gratuito è stato riformato con il patrocinio, finanziario, dell’UE, sul modello americano. Le conseguenze in un Paese come l’Egitto sono facilmente immaginabili). Recentemente quattro medici sono morti contraendo il virus H1N1, la febbre suina, che in Egitto miete parecchie vittime all’anno.

Tra poco ci saranno le elezioni presidenziali, che precederanno quelle parlamentari. Il Consiglio Generale delle Forze Armate ha dato il via libera alla candidatura di el Sisi, anche se non è ancora chiaro se il generale correrà o meno alle elezioni. Certi per il momento sono la candidatura di A. Sabbahi (esponente della sinistra nasseriana, che durante l’ultimo periodo della presidenza Morsi ha più volte invocato l’intervento dei militari, anziché della piazza) e il boicottaggio  da parte degli esponenti vicini alla Fratellanza, compreso Abu el Fotuh, ex esponente di spicco dei Fratelli Musulmani, arrivato quarto alle scorse presidenziali.

Emerge a questo punto tutta la debolezza di quella che doveva essere la dirigenza della rivoluzione. I “giovani di Piazza Tahrir” e la sinistra hanno sostanzialmente fallito nel conquistarsi la fiducia da parte dei lavoratori, cercando di collegare le rivendicazioni vertenziali con le questioni politiche (giustizia sociale, fine del governo militare). Subito dopo la rivoluzione del 25 gennaio, i lavoratori hanno continuato in maniera radicale gli scioperi, venendo tuttavia  accusati di minare l’economia e di avere richieste fi’awi (di parte). Se in un primo momento erano i Generali e i Fratelli Musulmani ad accusare i lavoratori, presto l’accusa si è fatta largo anche all'interno di settori di sinistra, creando uno scollamento tra il movimento rivoluzionario e gli operai che cercavano di organizzarsi. D’altro canto, Sabbahi che a lungo è stato uno dei leader più in vista e rispettato della rivoluzione durante la presidenza Morsi non ha mai invocato e cercato di costrire uno sciopero generale né ha mai tentato di creare un’alternativa radicale alle due opzioni controrivoluzionarie in campo, Fratelli Musulmani e Militari.

In questa fase si avverte un generale riflusso della lotta. Ma i problemi e le condizioni di vita drammatiche che hanno spinto in piazza milioni di persone negli ultimi tre anni non sono stati minimente risolti. E la profonda convinzione e consapevolezza di avere la forza collettiva di cambiare le cose, di vincere ancora brilla negli occhi dei giovani e dei lavoratori egiziani. Occorre ora più che mai organizzare i settori più avanzati tra lavoratori e i giovani perché quando una nuova ondata rivoluzionaria arriverà sappiano impadronirsene, conducendola fino alla vittoria.

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