Austerità senza fine?

Cosa è successo al vertice di Bruxelles che doveva salvare l’Europa, la sua moneta unica, la civiltà e il benessere? Ne conserviamo un vago ricordo.

[L'editoriale del nuovo numero di FalceMartello]

Puntuale come il rialzo dello spread, dopo il vertice è invece arrivata una nuova stangata sul Belpaese.

Seguendo un copione già visto, al grido di “l’Europa lo vuole” (che si alterna a “Dio ci salvi dallo spread”), il governo Monti affonda questa volta la mannaia sulla spesa pubblica.

Nel decreto approvato dal Consiglio dei ministri, sono in programma tagli per 26 miliardi in tre anni. Cinque miliardi verranno risparmiati nella sanità, con la riduzione di 18mila posti letto a livello nazionale entro novembre. Mille sarebbero i reparti ospedalieri a rischio. Tagli pesanti anche agli enti locali: sette miliardi in meno di trasferimenti fino al 2014.

La scure cala anche su tutti i dipendenti pubblici: ne saranno mandati a casa il dieci per cento (si parla per ora di 24 mila persone) in un provvedimento che è sinistramente simile a quello già adottato in Grecia lo scorso febbraio, quando il governo annunciò il licenziamento di 15mila dipendenti pubblici…

Per quanto riguarda le tutele, il pubblico diventerà privato e l’amministrazione “potrà risolvere unilateralmente il rapporto di lavoro” con i propri dipendenti, senza alcun intralcio da parte dei sindacati. Sindacati che avevano firmato un accordo solo due mesi fa col governo proprio sul pubblico impiego e gongolavano per l’imprevisto ritorno alla concertazione…

Insomma in questi nove mesi di governo tecnico Monti è riuscito ad arrivare laddove Berlusconi non si poteva nemmeno immaginare. È intervenuto pesantemente su pensioni, liberalizzazioni, mercato del lavoro e ora stato sociale e pubblico impiego.

È utile chiedersi perché. C’entra l’unità nazionale e il consenso creatosi attorno al governo, c’entra la propaganda dei mass media. L’esecutivo ha raggiunto i suoi obiettivi principalmente per la collaborazione del più grande partito di opposizione, il Pd, e della principale organizzazione sindacale, la Cgil. Ricordiamo che, ad oggi, l’unico sciopero generale nazionale convocato dalla Camusso da quando si è insediato Monti è stato quello del 12 dicembre 2011, di tre ore insieme a Cisl e Uil, sulla controriforma pensionistica. Le grandi promesse della primavera di avviare una nuova stagione di lotte a difesa dell’articolo 18 sono svanite come neve al sole.

Subito dopo il decreto governativo, la segretaria generale della Cgil ha spiegato che non ci sono le condizioni per uno sciopero generale. Se ne riparlerà a settembre, quindi a decreto approvato, per non disturbare troppo.

La Camusso si lamenta pubblicamente dell’atteggiamento del governo in un confronto faccia a faccia con Squinzi, il nuovo presidente di Confindustria (che, entusiasta, dice di “essere d’accordo con la Camusso al cento per cento”, poveri noi!). “Non ha neanche provato a cercare soluzioni condivise”, dice sconsolata la segretaria.

Davanti a strategie così fallimentari da parte di chi dovrebbe dirigere il movimento operaio, è del tutto naturale il disorientamento da parte di tanti lavoratori. Ma è una confusione temporanea data la gravissima situazione sociale ed economica. Le cifre che ci giungono confermano ciò che proviamo sulla nostra pelle quotidianamente. A maggio la disoccupazione per gli under 25 è arrivata al 36,2%. E questi dati non potranno che peggiorare.

Quando la borghesia italiana scelse la via della moneta unica, sostenuta dai vertici dei partiti di sinistra e del movimento operaio, scelse anche di precludersi la via della svalutazione competitiva della lira, che aveva salvato la classe dominante nei momenti più bui delle crisi del secondo dopoguerra. Per non essere cacciati fuori dai mercati, i padroni devono oggi adottare una specie di “svalutazione interna”. Tagliare il costo del lavoro, licenziare centinaia di migliaia di lavoratori in “eccesso” nel pubblico e nel privato, terrorizzare con l’introduzione della precarietà più selvaggia coloro che rimangono al lavoro, mettere fuori gioco i sindacati.

Questo è il vero programma della borghesia, dei Marchionne, dei Monti e della Fornero. E non si fermeranno davanti a nulla. Non è a caso che Marchionne abbia definito folklore la sentenza del tribunale di Roma che ordina di reintegrare i lavoratori. Sa benissimo che la giustizia borghese è come la tela del ragno di Solone per lorsignori, una tela che gli insetti più grossi rompono senza problemi.

I padroni hanno dunque capito che il loro futuro si giocherà sul terreno della più aspra lotta di classe, che essi devono stravincere sbaragliando ogni resistenza della classe operaia.

I dirigenti sindacali credono che il terreno di confronto sia quello della conciliazione fra le classi e sono sicuri che il governo Monti e le strategie di Marchionne siano delle parentesi dolorose ma comunque temporanee.

Nulla di più lontano dalla realtà. Il sistema del diritto del lavoro si sta conformando alle azioni, un tempo unilaterali, del manager in pullover. Sul terreno politico, si sta lavorando perché si configuri una maggioranza che porti avanti il programma di Monti anche dopo le elezioni della primavera del 2013. Il rigore continuerà, e qualcuno si consolerà pensando che sia un “rigore di sinistra”, come quello varato da Hollande in Francia.

Per tale motivo oggi l’avversario principale del movimento operaio non è una destra berlusconiana a pezzi che difficilmente si risolleverà nei prossimi anni, ma proprio chi si propone di continuare le politiche dei “professori”.

La sinistra può risalire la china solo da un terreno di totale opposizione e alternativa a uno schieramento che ha simili propositi. Questa è la vera lezione del successo di Syriza. Tale coalizione, che nasce non dal big bang dei partiti ma dal ruolo trainante del Synaspismos, parte integrante del movimento comunista greco, ha potuto godere di un successo elettorale sbalorditivo perché si è fatta interprete del rifiuto generalizzato delle politiche di austerità e delle alleanze con tutti i partiti che lo rappresentavano.

Una lezione quindi che ha ben poco a che spartire con chi dice di costruire un polo di sinistra (la “Syriza italiana”) che poi si sieda al tavolo delle alleanze con il Pd.

E non ci serve nemmeno un “centrosinistra alternativo”, dominato da populisti vecchi e nuovi che non rompono con i dogmi del capitalismo (l’Idv ha votato a livello europeo il fiscal compact).

Con queste discussioni sui “contenitori” e non sui contenuti (contenitori che oltretutto cambiano a ogni stagione) non rendiamo onore al meraviglioso esempio che ci danno le masse in Grecia ma soprattutto contribuiamo a mantenere tanti lavoratori e giovani ostaggio di Bersani oggi e, forse, dei Grillo o dei Di Pietro domani. Uno scenario che, francamente, il proletariato italiano non si merita.

La classe operaia italiana scenderà in campo e travolgerà tutta la confusione e il pessimismo che oggi prevalgono tra le file degli attivisti. Anzi, ci spingiamo a dire che, dialetticamente, proprio perché il movimento in questo paese si sta sviluppando più in ritardo rispetto ad altri paesi (Grecia, Spagna, Portogallo) che hanno ricevuto attacchi simili, esploderà in maniera improvvisa e generalizzata e, con un ritmo impetuoso, recupererà il terreno perduto.

Il nostro compito di comunisti è favorire tale esplosione, tessendo i legami fra i settori più avanzati della classe, offrendo un’organizzazione, un programma e una prospettiva di trasformazione della società.

Source: Falce Martello (Italy)