Antonio Gramsci, dagli scritti giovanili alla scissione di Livorno

Gramsci è stato un vero e proprio mito per la sinistra italiana e le sue idee hanno avuto un’eco in tutto il mondo. Su di lui esiste una letteratura smisurata. Eserciti di “gramsciologhi” hanno fornito le interpretazioni più disparate del suo pensiero, molto spesso utilizzando le parole di Gramsci per avvalorare le proprie idee. Con questo articolo non ci proponiamo, a nostra volta, di tirare Gramsci di qua o di là, a seconda di dove ci fa più comodo, magari a colpi di citazioni opportunamente selezionate. E nemmeno rincorreremo i gramsciologhi nelle loro dissertazioni erudite. Il nostro obiettivo è di provare a tornare all’origine, al contributo effettivo che Gramsci ha dato al movimento operaio in Italia, mettendone in luce tanto i punti di forza quanto i limiti. Non ci interessa dimostrare di “saperla più lunga” su Gramsci rispetto ad altri, ma di offrire qualche punto di riferimento utile a tutti quei lavoratori, a tutti quei giovani che sono interessati a saperne di più su come è nato il movimento comunista in Italia e a trarre dal passato tutte quelle lezioni che possono tornare utili ancora oggi per una lotta rivoluzionaria.


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In questo testo affronteremo la prima parte della vita di Gramsci, la sua formazione iniziale, il periodo de L’Ordine Nuovo e la nascita del Partito Comunista d’Italia. Altre fasi della sua militanza politica – la battaglia contro Bordiga, gli anni da dirigente del partito comunista, il carcere – sono trattate in altri articoli.

Le origini

Antonio Gramsci è originario della Sardegna, ma la sua effettiva formazione politica avviene a Torino, negli anni dell’università. Figlio di un modesto impiegato comunale in un piccolo paesino della Sardegna, ha conosciuto la povertà fin da piccolo e cominciato le prime letture di materiale socialista al tempo del liceo. Grazie ad una borsa di studio, nel 1911 si trasferisce a Torino per frequentare la facoltà di lettere. È un salto notevole da una realtà arretrata e prevalentemente rurale come la Sardegna, ad una grande città moderna e industriale. A quell’epoca Torino è il principale centro proletario del paese, con una classe operaia molto numerosa e combattiva. Nel 1912-1913 gli operai torinesi sono in grado di mettere in campo lotte molto dure e prolungate, con grandi scioperi che durano per settimane.

Il fermento operaio influenza anche gli universitari della città. È proprio all’università di Torino che, negli anni immediatamente precedenti alla prima guerra mondiale, si forma un gruppo di giovani studenti che ben presto diventano protagonisti nell’attività della sezione giovanile del partito socialista. In questo gruppo, oltre a Gramsci, troviamo anche Angelo Tasca, Palmiro Togliatti e Umberto Terracini, che nel dopoguerra saranno tutti nella redazione de L’Ordine Nuovo.

Gramsci si iscrive al partito socialista nel 1913, ma per il momento più che dal marxismo, è influenzato dalla filosofia idealista di Benedetto Croce. Nell’ottica del giovane Gramsci, l’idealismo di Croce rappresenta la principale alternativa contro quello che considera il pensiero ancora dominante nell’ambiente accademico italiano: il positivismo. Sviluppatosi sull’onda della rivoluzione industriale e diffusosi soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento, il positivismo è l’ideologia borghese per eccellenza, che vede nello sviluppo delle scienze e nel progresso tecnologico la chiave dell’evoluzione graduale e naturale della società. Gramsci in quel periodo considera Benedetto Croce come l’artefice di un processo quanto mai necessario di rinnovamento intellettuale e morale della cultura italiana. Le categorie, l’approccio e il linguaggio della filosofia idealistica avranno un peso preponderante in tutti i primi scritti di Gramsci e non mancheranno di lasciare tracce anche nei suoi lavori più maturi.

La polemica contro il positivismo ha però per il Gramsci che muove i primi passi nel movimento socialista, anche un importante risvolto politico in senso anti-riformista. Nella direzione del partito socialista italiano (PSI) è infatti presente una forte componente riformista, con a capo Filippo Turati e Claudio Treves, secondo la quale il socialismo può essere raggiunto solo attraverso uno lento sviluppo pacifico e graduale, con una paziente attività parlamentare di riforme all’interno del capitalismo, senza alcuna rottura rivoluzionaria con lo Stato borghese esistente. Gramsci si oppone fin da subito a questa impostazione, senza alcuna esitazione: dal suo punto di vista la fiducia positivista nell’evoluzione tecnico-scientifica dei suoi professori all’università e il “gradualismo” di dirigenti socialisti come Turati e Treves, non sono che due facce della stessa medaglia, due mali da combattere con le stesse armi politico-filosofiche.

Oltre che da Benedetto Croce, la formazione giovanile di Gramsci è influenzata anche da un’altra figura: quella di Gaetano Salvemini. Ex-esponente del partito socialista, Salvemini è il principale fautore del meridionalismo: il suo programma è incentrato sull’autonomia federalista come unica soluzione per risolvere la questione meridionale e sull’opposizione alle politiche protezioniste, considerate vantaggiose solo per la borghesia industriale del Settentrione e dannose per l’agricoltura del Mezzogiorno. Con il suo giornale intitolato L’Unità, Salvemini ha anche condotto alcune campagne propagandistiche molto efficaci, come quella contro la corruzione del governo Giolitti e quella contro l’intervento militare italiano in Libia nel 1911.

È a Salvemini che si può far risalire l’interesse di Gramsci per la questione meridionale. Altrettanto significativo è che, a molti anni di distanza, nel 1924, quando il Partito Comunista d’Italia inizierà a pubblicare un nuovo giornale, Gramsci deciderà di chiamarlo L’Unità, proprio come il vecchio giornale di Salvemini.

L’interventismo di Gramsci?

La prima importante presa di posizione di Antonio Gramsci nel corso della sua militanza politica, con un articolo scritto il 31 ottobre del 1914 su Il Grido del Popolo, il giornale dei socialisti torinesi, è un passo falso.

Nel 1914 scoppia la prima guerra mondiale e per il momento l’Italia rimane fuori dal conflitto. A differenza della maggioranza degli altri partiti socialisti europei, che appoggiano l’entrata in guerra dei rispettivi paesi, il PSI mantiene una linea di contrarietà alla guerra. L’opposizione dei socialisti alla guerra si concretizza però in una posizione favorevole al mantenimento della “neutralità” dell’Italia, posizione peraltro condivisa da un settore della borghesia italiana e da una parte dei suoi esponenti politici (Giolitti su tutti).

A questa politica si contrappone Benito Mussolini, che fino a quel momento era stato il leader principale dell’ala sinistra del partito socialista. Mussolini critica la posizione della “neutralità assoluta” e si esprime a favore di una “neutralità attiva ed operante”. Per il futuro Duce, non si tratta che di un veloce passaggio intermedio, prima di passare al più feroce interventismo, invocando l’entrata in guerra dell’Italia al fianco di Francia e Gran Bretagna. Ma prima che il suo passaggio dall’estrema sinistra all’estrema destra diventi palese, la presa di posizione di Mussolini a favore della “neutralità attiva e operante” suscita un certo dibattito tra le fila dei giovani socialisti torinesi, che avevano fortemente simpatizzato per le sue precedenti posizioni radicali.

Su Il Grido del Popolo compaiono prima un articolo di Angelo Tasca, che difende la linea ufficiale del partito della “neutralità assoluta”, e poi uno di Gramsci, che invece si esprime a favore della formula mussoliniana della “neutralità attiva ed operante”. Questo scivolone gli verrà rinfacciato per il resto della sua vita politica dai suoi avversari, sia all’interno del partito socialista che del partito comunista, che lo accuseranno di essere stato un interventista. In realtà si tratta di un episodio isolato e senza seguito, vista anche la successiva evoluzione di Mussolini. Gramsci non entrerà mai a fare parte dei cosiddetti “interventisti di sinistra”, che rivendicano l’entrata in guerra dell’Italia come un mezzo per difendere la democrazia contro il “dispotismo germanico” e tra le cui fila figura anche Salvemini.

Cosa lo spinge dunque a prendere un abbaglio così clamoroso? La verità è che Gramsci si rende conto correttamente del carattere passivo e rinunciatario della linea della “neutralità assoluta”, in cui non c’è uno spazio per l’iniziativa indipendente della classe lavoratrice, la palla viene lasciata nel campo della borghesia e i problemi vengono rimandati. Teme che la neutralità possa essere un modo in cui i riformisti tengono buone le masse, in attesa che passi la buriana. Purtroppo, però, Gramsci non ha ancora gli strumenti politici per elaborare un’alternativa e dunque prende una sonora cantonata.

Per comprendere quale poteva essere questa alternativa, è utile prendere in considerazione la politica di Lenin in quello stesso periodo, molto distante da quella dei dirigenti socialisti italiani. Per Lenin, il compito della classe lavoratrice non è quello di invocare la pace, ma di condurre una lotta rivoluzionaria per rovesciare le proprie borghesie e i propri governi nei rispettivi paesi. Una linea tutt’altro che astratta, che non solo verrà confermata dagli eventi della rivoluzione russa del 1917, ma per la quale ci sarebbe stato uno spazio anche in Italia, come dimostrano i moti operai di Torino del 17-18 maggio 1915.

Alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, infatti, la classe operaia torinese dà prova di essere pronta ad andare ben oltre la linea del PSI di opposizione meramente testimoniale alla guerra, paralizzando tutte le fabbriche della città con uno sciopero di due giorni, innalzando barricate e ingaggiando violenti scontri contro la polizia e l’esercito. La mobilitazione parte spontaneamente, su spinta dei lavoratori stessi, mentre i dirigenti sindacali e socialisti si adoperano non per promuoverla ed estenderla, ma per farla rientrare.

Ad ogni modo, il citato dibattito sulla neutralità evidenzia come la prima guerra mondiale, che è stata una linea di demarcazione fondamentale all’interno del movimento socialista internazionale tra opportunisti e rivoluzionari, trovi Gramsci ancora all’inizio del suo apprendistato politico e politicamente molto immaturo. Sarebbe quindi improprio fare paragoni tra dirigenti rivoluzionari sperimentati, che allo scoppio della guerra potevano contare su un vasto bagaglio di esperienza e di chiarificazione politica alle spalle (come Lenin, Trotskij e Rosa Luxemburg), e un giovane ancora inesperto, alle prime armi, come Gramsci.

La questione culturale

All’inizio del 1916 Gramsci diventa redattore della pagina torinese dell’Avanti!, il giornale nazionale del partito socialista. La sua rubrica, intitolata Sotto la mole, si occupa di fatti di cronaca locale, del mondo operaio, di note di costume, di aspetti culturali. Nello stesso periodo svolge, sempre per l’Avanti!, l’attività di critico teatrale, dedicando diversi articoli alle opere di Pirandello, Ibsen, ecc.

I suoi numerosi articoli di questo periodo rivelano una notevole vivacità intellettuale e una visione a tutto tondo, cui non è estraneo alcun aspetto della vita della classe operaia della sua città. Rivelano anche, però, che in questa fase il suo ruolo è ancora secondario nella vita della sezione socialista di Torino, dove sono altre le figure chiave che dirigono il lavoro.

È a questo periodo che è riconducibile la rilevanza attribuita da Gramsci all’attività culturale. Il 29 gennaio 1916 scrive per Il Grido del Popolo un articolo intitolato Socialismo e cultura, in cui sottolinea l’importanza della critica al capitalismo, della “cultura socialista”, per formare la coscienza collettiva della classe operaia. Il tema culturale resterà sempre centrale nel pensiero di Gramsci e può essere così sintetizzato: se la classe lavoratrice vuole emanciparsi e imporre la propria egemonia sulla società, non può limitarsi alla lotta economica per gli interessi materiali, ma deve essere in grado di sviluppare una propria visione d’insieme della vita, i propri valori, una propria morale.

Detto questo, sarebbe sbagliato fare di Gramsci il paladino di una mera battaglia culturale, scollegata dalla lotta di classe, come pure hanno tentato di fare numerosi gramsciologhi. Per Gramsci l’attività culturale deve necessariamente affiancarsi alla lotta politica ed economica, tanto che ne fa un elemento di polemica all’interno del partito socialista. Convinto che, dopo Antonio Labriola (padre del socialismo nel nostro paese e teorico marxista dotato), il movimento socialista italiano non abbia prodotto alcun pensatore di valore, Gramsci rimprovererà più volte alla vecchia generazione di dirigenti riformisti, ai Turati e ai Treves, il pressapochismo, la mancanza di rigore scientifico, l’assenza di uno studio approfondito sulla realtà economica italiana.

“Cosa avete fatto per rischiararci le dottrine socialiste? Quali sono i vostri libri? Dove sono le vostre ricerche sulle condizioni economiche della nazione italiana? Avete studiato e vi siete curati di ricercare e di studiare come si è svolta la storia economica e politica del popolo italiano? Sapete come è organizzata una fabbrica e come si è sviluppato in Italia il sistema di fabbrica? Avete studiato il modo di esistenza del capitalismo italiano?” [1]

Nel febbraio 1917, l’organizzazione socialista di Torino pubblica un nuovo giornale, La città futura. Si tratta di una pubblicazione speciale, di un numero unico, che viene redatto interamente da Gramsci. È proprio in questa raccolta che viene pubblicato uno degli scritti più conosciuti di Gramsci, Odio gli indifferenti, un vigoroso appello alla presa di coscienza, alla militanza politica.

La città futura rispecchia pienamente le influenze giovanili di Gramsci: sarà lui stesso ad ammettere successivamente di essere stato allora “tendenzialmente piuttosto crociano” [2] e in effetti nel giornale viene pubblicato un articolo di Benedetto Croce, Religione e serenità, in cui si esalta “l’immortalità della ragione”. Compare anche un articolo dell’altro mentore del giovane Gramsci, Gaetano Salvemini.

Ciò nonostante, dalle pagine de La città futura non manca di risuonare la polemica contro i riformisti, contro coloro che attendono “il socialismo da un decreto regio controfirmato da due ministri.”

L'influenza della rivoluzione russa

La rivoluzione russa del 1917 ha un enorme impatto sulla classe operaia italiana, tra le cui fila inizia a circolare con sempre più insistenza lo slogan “Facciamo come in Russia!”. Gramsci ne è fin da subito entusiasta, come traspare dall’articolo che scrive per Il Grido del Popolo del 29 aprile 1917, Note sulla rivoluzione russa:

“È l’avvento di un ordine nuovo, che coincide con tutto ciò che i nostri maestri ci avevano insegnato. E ancora una volta: la luce viene dall’oriente e irradia il vecchio mondo occidentale, che ne rimane stupito e non sa opporgli che la banale e sciocca barzelletta dei suoi pennivendoli.”

Sebbene le informazioni dalla Russia arrivino in Italia con il contagocce, in ritardo, incomplete e per giunta tagliate dalla censura, Gramsci rivela grande intuito nel prevedere gli sviluppi del processo rivoluzionario:

“Noi siamo persuasi che la rivoluzione russa è oltre che un fatto, un atto proletario e che essa naturalmente deve sfociare nel regime socialista.” [3]

Per Gramsci, dunque, la rivoluzione russa non si fermerà ad un fase democratica, ad uno stadio “borghese” di sviluppo del capitalismo e per questo si schiera con Lenin e i bolscevichi, nella cui audacia rivoluzionaria vede un’alternativa all’attendismo e al gradualismo dell’ala riformista del PSI. Anzi, nella foga della polemica Gramsci va fin troppo oltre. In un altro articolo del 28 luglio 1917, sostiene che i bolscevichi, curiosamente definiti come massimalisti russi,

“…richiamano l’idea-limite del socialismo: vogliono tutto il socialismo. […] sono persuasi che in ogni momento sia possibile realizzare il socialismo. […] Sono rivoluzionari, non evoluzionisti. E il pensiero rivoluzionario nega il tempo come fattore di progresso. Nega che tutte le esperienze intermedie tra la concezione del socialismo e la sua realizzazione debbano avere nel tempo e nello spazio una riprova assoluta e integrale.” [4]

Queste righe contengono certamente un elemento di esagerazione: sembra che la rivoluzione socialista non abbia bisogno di particolari condizioni oggettive e sia possibile “in qualsiasi momento”. Un’impostazione che varrà a Gramsci l’accusa di volontarismo e cioè un atteggiamento velleitario, di chi concepisce l’azione politica senza tener conto dell’equilibrio di forze esistente, di chi fa fughe in avanti e sostituisce i propri desideri alla realtà esistente.

È evidente che, perché un processo rivoluzionario possa essere portato alla vittoria, è necessario tanto una situazione oggettiva favorevole, quanto un fattore soggettivo, cioè l’azione cosciente di un partito rivoluzionario. Tuttavia è anche comprensibile che Gramsci, di fronte ai dirigenti riformisti italiani che si nascondono dietro le condizioni oggettive “non ancora mature” per negare qualsiasi possibilità di rivoluzione, esalti puramente il fattore soggettivo, in questo caso la determinazione rivoluzionaria dei bolscevichi.

Gramsci tornerà sull’argomento dopo la vittoriosa insurrezione guidata dai bolscevichi nell’ottobre 1917, scrivendo il 24 novembre un editoriale per l’Avanti!, intitolato La rivoluzione contro il Capitale (inteso come il libro di Marx). È uno degli articoli più celebri di Gramsci, posto alla base del mito di un Gramsci rifondatore del marxismo in senso non dogmatico – e utilizzato da generazioni di opportunisti nel partito comunista per giustificare le più vergognose deviazioni dai principi del marxismo. In realtà è un testo rivelatore sia dei punti di forza, che dei punti deboli di Gramsci in quel periodo. Per comprenderlo dobbiamo ricorrere ad una lunga citazione

“Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un'era capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico [...] se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente, vivificatore. Essi non sono ‘marxisti’, ecco tutto; non hanno compilato sulle opere del Maestro una dottrina esteriore di affermazioni dogmatiche e indiscutibili. Vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco, che in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche.” [5]

L’equivoco di fondo è che Gramsci attribuisce a Marx quella che invece è una distorsione del marxismo, effettuata dai riformisti russi (i menscevichi), che per la Russia prevedevano un lungo periodo democratico-borghese di sviluppo del capitalismo, prima che si potesse iniziare a parlare di socialismo. Nella loro polemica contro i menscevichi, i bolscevichi non avevano affatto preso le distanze dal marxismo, ma anzi avevano ribadito il carattere rivoluzionario del pensiero di Marx ed Engels, depurandolo da tutte le incrostazioni opportuniste e gradualiste.

Nell’articolo di Gramsci tutti i termini della questione vengono invertiti. Addirittura non è il marxismo a rappresentare uno sviluppo, un avanzamento rispetto alla filosofia idealista tedesca, ma è l’idealismo di Hegel e Croce a diventare l’antidoto al “positivismo” presente nelle teorie di Marx… Quindi, più che di un’innovazione di ampio respiro del marxismo, siamo in presenza di tanta confusione e, per una miglior comprensione, è decisamente consigliabile andare a leggere direttamente le opere di quegli stessi dirigenti bolscevichi elogiati da Gramsci, come Stato e Rivoluzione di Lenin o gli scritti di Trotskij sulla teoria della rivoluzione permanente.

Tuttavia, sotto lo strato di confusione e influenze crociane, lo spirito di Gramsci è sicuramente quello giusto e cioè quello della critica contro le concezioni riformiste, anche quando queste vengono ricoperte da uno spesso strato di erudizione pseudo-marxista. A chi lo accusa di “volontarismo”, rinfaccia il “determinismo”, ovvero una concezione meccanica e fatalista della storia, che relega la classe lavoratrice ad attendere l’evoluzione graduale delle cose. Il dottrinarismo contro cui Gramsci si scaglia non è quello di chi ha una visione troppo rigida e ortodossa del marxismo, ma quello di chi, come Treves, ha fatto delle dottrine di Marx “la teoria dell’inerzia del proletariato”.

A riprova di questo, quando a distanza di mesi scriverà ancora diversi articoli sul significato della rivoluzione russa, Gramsci si sofferma soprattutto su un aspetto decisivo: i soviet. Al netto di un linguaggio che ancora risente dell’influenza crociana, Gramsci vede nei soviet una genuina espressione del protagonismo del lavoratori, è colpito dal loro carattere democratico di rappresentanza diretta e auto-governo dei ceti proletari, li considera la sintesi perfetta dei concetti di socialismo e libertà. Scrive il 25 luglio 1918 sull’Avanti!:

“I Soviet e il partito bolscevico non sono organismi chiusi: si integrano continuamente. Ecco il dominio della libertà, ecco le garanzie della libertà. Non sono caste, sono organismi in continuo sviluppo. Rappresentano la progressione della consapevolezza, rappresentano l’organizzabilità della società russa. Tutti i lavoratori possono far parte dei Soviet, tutti i lavoratori possono influire nel modificarli e renderli meglio espressivi delle loro volontà e dei loro desideri. La vita politica russa è indirizzata in modo che tende a coincidere con la vita morale, con lo spirito universale della umanità russa. Avviene uno scambio continuo tra queste tappe gerarchiche: un individuo grezzo si affina nella discussione per la elezione del suo rappresentante al Soviet, egli stesso può essere il rappresentante; egli controlla questi organismi perché li ha sempre sotto gli occhi, vicini nel territorio.” [6]

È da qui che parte il processo di maturazione politica di Gramsci, che inizia a interrogarsi su come applicare in Italia gli insegnamenti della rivoluzione russa e soprattutto su quale possa essere l’equivalente dei soviet russi nella società italiana.

Il Grido del Popolo

Mentre Gramsci svolge le sue riflessioni sulla rivoluzione russa, anche Torino è attraversata da sconvolgimenti rivoluzionari. Il 22 agosto 1917 una rivolta scoppiata per la mancanza di pane in città, si trasforma in una vera e propria insurrezione contro la guerra, che si protrae per vari giorni con scioperi, barricate e sanguinosi combattimenti di strada. La repressione sarà pesante con più di 50 operai uccisi, 200 feriti e centinaia di arresti. Ancora una volta, la classe operaia di Torino si è mossa spontaneamente e il partito socialista non è stato in grado di svolgere un ruolo dirigente, mentre i dirigenti sindacali si adoperano soprattutto per porre fine ai moti e far rientrare gli operai al lavoro.

È a seguito della massiccia ondata di arresti successiva all’insurrezione, che colpisce soprattutto i principali militanti socialisti, che Gramsci, rimasto l’unico membro della redazione de Il Grido del Popolo a piede libero, diventa il direttore de facto del giornale. Uno dei primi passi che compie in questa nuova veste, è una polemica contro Critica Sociale, la rivista dei riformisti, che ha pubblicato un articolo di Claudio Treves di condanna dei fatti di Torino: secondo Treves, gli operai torinesi hanno commesso un errore a sollevarsi e denuncia come sterile qualsiasi tentativo di moto popolare durante la guerra, insistendo sulla tradizionale strategia temporeggiatrice. Gramsci risponde, con il suo consueto stile, schierandosi vigorosamente dalla parte degli operai insorti:

“Noi ci sentiamo solidali con questo nuovo immenso pullulare di forze giovanili, e non ne rinneghiamo quelli che i filistei chiamano errori e gioiamo del senso gagliardo della vita che ne promana. E per tanto compatiamo la vecchia mentalità astratta che, tutta in ghingheri, sciorina le vecchie prediche e si pavoneggia sui trampoli delle sottili analogie e delle metafore viete. Il proletariato non vuole predicatori di esteriorità, freddi alchimisti di parolette: vuole comprensione, intelligenza e simpatia piena d’amore.” [7]

Lo scontro all’interno del PSI è destinato ad accentuarsi ulteriormente. Alla fine di ottobre del 1917 l’esercito italiano va incontro ad una pesante disfatta militare nella battaglia di Caporetto. A novembre Turati e Treves pubblicano su Critica Sociale un articolo intitolato Proletariato e resistenza, in cui sostengono che, essendo in gioco l’indipendenza nazionale dell’Italia, è dovere della classe operaia difendere la patria. Contro questa deriva patriottica, si consolida all’interno del PSI la cosiddetta frazione “intransigente”, guidata da Giacinto Menotti Serrati, che vuole riaffermare la contrarietà alla guerra.

A novembre Gramsci, in qualità di rappresentante della sezione di Torino, partecipa ad una riunione nazionale della frazione intransigente, che si tiene a Firenze. In questa sede viene riaffermata la fedeltà al “programma massimo”, all’obiettivo dell’instaurazione del socialismo per via rivoluzionaria (da qui il nome che prenderà la frazione di “massimalista”), ma senza delineare alcuna tattica concreta per arrivare a questo obiettivo. Tutto si limita ribadire la linea tenuta dal PSI fino a quel momento: il movimento operaio deve mantenere un rigoroso isolamento, senza sporcarsi le mani nella partecipazione alla guerra borghese.

Questo limite di impostazione non passa del tutto inosservato. Alla riunione Amadeo Bordiga, il futuro leader del Partito Comunista d’Italia, chiede che il partito passi risolutamente all’azione. Gramsci, probabilmente influenzato dai moti di Torino, esprime la stessa opinione. Serrati, invece, vuole solo proseguire con la vecchia parola d’ordine socialista sulla guerra – “non aderire, né sabotare” – e anzi, sulle orme di Treves, critica Gramsci per il suo “volontarismo”.

Nonostante questo dissidio, Gramsci si considera per il momento come parte della frazione massimalista e manterrà questa collocazione per tutto un periodo. Nel settembre del 1918, al XV Congresso del PSI, i massimalisti conquisteranno la maggioranza del partito. Gramsci, che pure non è delegato al congresso, la considererà una vittoria della “sua” frazione.

Nel frattempo Il Grido del Popolo continua ad uscire regolarmente fino alla fine della guerra e, sotto la direzione di Gramsci, acquisisce una fisionomia del tutto particolare. Da una parte Gramsci pubblica tutto il materiale sulla rivoluzione russa su cui riesce a mettere le mani, dall’altra porta avanti una campagna liberista contro il protezionismo sulla scia delle posizioni meridionaliste di Salvemini (è Togliatti a scrivere i principali articoli su questo argomento). Da una parte prosegue l’attività di “approfondimento culturale” e dall’altra dà spazio alla polemica teorica contro i riformisti.

Da più parti viene rimproverato al giornale il suo linguaggio astruso, difficile da comprendere per gli operai e su questo punto vale la pena soffermarsi. Bisogna ammettere che spesso il modo di scrivere di Gramsci risulta ostico, complesso e intricato; anche i concetti più semplici appaiono difficili e si ha l’impressione di dover dipanare una matassa per arrivare al nocciolo delle questioni trattate. Su questo per decenni sono andati a nozze gli studiosi dell’accademia, che si sono lasciati andare alle analisi, le esegesi e le interpretazioni più elaborate e fantasiose. Gramsci tuttavia non scriveva per gli accademici, ma per orientare i militanti e i lavoratori nella loro battaglia politica. Se teniamo conto di questo, è innegabile che le espressioni fumose – e la mancanza di quel minimo di chiarezza necessaria a fornire indicazioni politiche precise – rappresentano un limite evidente degli scritti gramsciani.

C’è però anche un altro lato della medaglia. In quegli anni il partito socialista, e soprattutto la sua corrente massimalista, era fin troppo pieno di tromboni che propinavano alla classe operaia slogan semplicistici, formulette astratte, una propaganda approssimativa e un’oratoria vuota. Nella sua elaborazione (e anche nel suo linguaggio) Gramsci vuole prendere le distanze da questa faciloneria, da questa mancanza di un’analisi seria. Per questo nei sui testi rifugge sempre dalle semplificazioni, dalle banalizzazioni, dalle caricature; per questo si sforza di andare a fondo degli argomenti che tratta, di sviscerarli in tutte le loro implicazioni e di elevare il livello politico del dibattito, al costo di sembrare talvolta criptico. Ed è proprio grazie questo approccio scrupoloso che Gramsci svetta nel panorama politico del movimento operaio italiano dell’epoca.

L’Ordine Nuovo e i consigli di fabbrica

Dopo la fine della prima guerra mondiale l’Italia viene attraversata da un’ondata rivoluzionaria, che passerà alla storia come il Biennio Rosso del 1919-1920. A febbraio del 1919 i metalmeccanici conquistano la giornata lavorativa di 8 ore a parità di salario. Il 20-21 luglio si tiene uno sciopero generale di 48 ore, concordato con le organizzazioni sindacali britanniche e francesi, contro la politica di intervento militare delle potenze dell’Intesa in Russia e Ungheria (dove poco prima si è formata una repubblica di tipo sovietico, che avrà però vita breve). [8] Nelle campagne i contadini e i soldati reduci dalla guerra danno vita ad un movimento di occupazione delle terre. In una città dopo l’altra scoppiano tumulti contro il carovita, che sfociano in assalti ai negozi: i commercianti sono costretti ad affidare le chiavi dei loro magazzini alle Camere del Lavoro, che impongono una riduzione drastica dei prezzi delle derrate alimentari. C’è un afflusso di massa in tutte le organizzazioni operaie, che vedono moltiplicare il proprio numero di iscritti.

Ed è proprio in questo periodo che troviamo Gramsci probabilmente nel punto più alto di tutta la sua attività politica, grazie al lavoro portato avanti attraverso il giornale L’Ordine Nuovo. Il primo numero del giornale esce il 1 maggio del 1919 e della redazione fanno parte Gramsci, Tasca, Togliatti e Terracini. È lo stesso Gramsci a fornirci un resoconto degli esordi non esattamente felici del giornale:

“Chi eravamo? Chi rappresentavamo? Di quale nuova parola eravamo i portatori? Ahimè! L’unico sentimento che ci unisse, in quelle nostre riunioni, era quello suscitato da una vaga passione di una vaga cultura proletaria […] Quale fu l’idea dei primi numeri dell’Ordine Nuovo? Nessuna idea centrale, nessuna organizzazione intima del materiale letterario pubblicato. […] fu una rassegna di cultura astratta, di informazione astratta, con la tendenza a pubblicare novelline orripilanti e xilografie bene intenzionate; ecco cosa fu l’Ordine Nuovo nei suoi primi numeri, un disorganismo, il prodotto di un mediocre intellettualismo…” [9]

Nello stesso articolo, Gramsci spiega che per cambiare pelle al giornale, ha dovuto effettuare “un colpo di Stato redazionale”, in combutta con Togliatti e Terracini, contro Angelo Tasca, il quale voleva mantenere L’Ordine Nuovo entro gli angusti limiti di una rassegna “culturale”. Da dove prende le mosse il nuovo corso proposto da Gramsci?

“Esiste in Italia, come istituzione della classe operaia, qualcosa che possa essere paragonato al Soviet, che partecipi della sua natura? Qualcosa che ci autorizzi ad affermare: il Soviet è una forma universale, non è un istituto russo, solamente russo; il Soviet è la forma in cui, da per tutto ove esistono proletari in lotta per conquistare l’autonomia industriale, la classe operaia manifesta questa volontà di emanciparsi; il Soviet è la forma di autogoverno delle masse operaie; esiste un germe, una velleità, una timidezza di governo dei Soviet in Italia, a Torino? […] Sì, esiste in Italia, a Torino, un germe di governo operaio, un germe di Soviet; è la commissione interna…” [10]

Le commissioni interne sono gli organismi di rappresentanza dei lavoratori nelle fabbriche dell’epoca, che però vengono elette soltanto dagli operai iscritti al sindacato e godono di poteri molto limitati. Gramsci intende partire proprio dalle commissioni interne per svilupparle, potenziarle e allargarle in consigli di fabbrica, eletti da tutti i lavoratori, sindacalizzati o meno, che non si limitino all’attività sindacale, ma costituiscano un vero e proprio contro-potere all’interno delle fabbriche. Per Gramsci L’Ordine Nuovo deve diventare lo strumento per portare avanti questa idea tra le masse operaie di Torino.

L’articolo che sancisce la svolta de L’Ordine Nuovo viene pubblicato il 19 giugno 1919 e si intitola Democrazia operaia:

“Lo Stato socialista esiste già potenzialmente negli istituti della vita sociale caratteristici della classe lavoratrice sfruttata. Collegare tra di loro questi istituti, coordinarli e subordinarli in una gerarchia di competenze e di poteri, accentrarli fortemente, pur rispettando le necessarie autonomie e articolazioni, significa creare già fin d’ora una vera e propria democrazia operaia, in contrapposizione efficiente ed attiva con lo Stato borghese, preparata già fin d’ora a sostituire lo Stato borghese in tutte le sue funzioni essenziali di gestione e di dominio del patrimonio nazionale. […]

Le commissioni interne sono organi di democrazia operaia che occorre liberare dalle limitazioni imposte dagli imprenditori, e ai quali occorre infondere vita nuova ed energia. Oggi le commissioni interne limitano il potere del capitalista nella fabbrica e svolgono funzioni di arbitrato e di disciplina. Sviluppate ed arricchite dovranno essere domani gli organi di potere proletario che sostituiscono il capitalista in tutte le sue funzioni utili di direzione e di amministrazione. Già fin d’ora gli operai dovrebbero procedere alla elezione di vaste assemblee di delegati scelti fra i migliori e più consapevoli compagni, sulla parola d’ordine ‘Tutto il potere dell’officina ai comitati d’officina’, coordinata all’altra: ‘Tutto il potere dello Stato ai Consigli operai e contadini’.” [11]

L’articolo riscuote un grande successo tra gli operai torinesi:

“…fummo io, Togliatti, Terracini, invitati a tenere conversazioni nei circoli educativi, nelle assemblee di fabbrica, fummo invitati dalle commissioni interne a discutere in ristrette riunioni di fiduciari e collettori. Continuammo; il problema dello sviluppo della commissione interna divenne problema centrale, divenne l’idea dell’Ordine Nuovo; era esso posto come problema fondamentale della rivoluzione operaia, era il problema della ‘libertà proletaria’. L’Ordine Nuovo divenne, per noi e per quanti ci seguivano, ‘il giornale dei Consigli di fabbrica’…” [12]

È degna di nota, rispetto a quanto detto in precedenza sulla “cultura socialista”, la contraddizione tra tutte le ricostruzioni dei gramsciologhi che cercano di confinare Gramsci entro l’orizzonte della battaglia “culturale”, e il Gramsci “reale” che combatte l’approccio prettamente “culturale” di Tasca per trasformare L’Ordine Nuovo nel “giornale dei consigli di fabbrica”.

Nella Torino del 1919, la “Pietrogrado d’Italia”, l’idea di Gramsci trova terreno fertile e si sposa con un’esigenza concreta dei lavoratori: le commissioni interne, troppo legate all’apparato sindacale e troppo limitate nella loro azione, non sono più sufficientemente rappresentative del clima combattivo che si respira nelle officine. Il primo consiglio di fabbrica nasce alla Fiat: gli operai eleggono un delegato per ogni reparto, per un totale di 42 commissari di reparto; per la prima volta votano tutti assieme, iscritti e non iscritti al sindacato. Dopo la Fiat, i consigli di fabbrica vengono eletti in uno stabilimento dopo l’altro in tutta Torino. A ottobre, su iniziativa de L’Ordine Nuovo, si tengono due riunioni dei Comitati esecutivi dei Consigli di fabbrica: i delegati presenti rappresentano più di 50mila lavoratori.

L’Ordine Nuovo riesce a riportare una serie di successi anche nelle organizzazioni del movimento operaio. Già nel mese di agosto, il congresso della gioventù socialista del Piemonte approva all’unanimità un ordine del giorno che impegna i giovani socialisti a diffondere L’Ordine Nuovo tra le masse operaie e contadine di tutta la regione. Ai primi di novembre gli ordinovisti intervengono nell’assemblea torinese dei commissari di reparto, dove sconfiggono il leader riformista della FIOM Bruno Buozzi e conquistano la maggioranza. A dicembre si affermano anche in occasione del congresso della Camera del Lavoro di Torino, della quale Tasca diventa segretario.

Questi risultati, che dimostrano il radicamento nelle fabbriche degli ordinovisti, restano però confinati alla sola Torino e dintorni. L’Ordine Nuovo non diventerà mai una forza organizzata a livello nazionale. Questo si rivelerà un grave limite nelle lotte decisive del 1920 e dunque è importante comprenderne fin d’ora le cause.

L’Ordine Nuovo e il partito socialista

Da più parti la concezione di Gramsci del movimento consigliare è stata presentata come “operaista” o “spontaneista”, con la conseguente negazione (o sottovalutazione) del ruolo del partito rivoluzionario. Una concezione che sarebbe antitetica a quella “partitista” di Lenin. È nostra opinione che questa critica non c’entri il bersaglio. In primo luogo perché l’importanza che Lenin attribuiva alla costruzione del partito rivoluzionario, era tutt’altro che in contraddizione con il protagonismo delle masse: anzi, una delle essenze del leninismo è proprio una fiducia incrollabile nella classe lavoratrice. In secondo luogo e soprattutto perché Gramsci, che traeva la sua aspirazione proprio dalla tattica adottata da Lenin verso i soviet, nei suoi articoli su L’Ordine Nuovo riconosce pienamente a livello teorico il ruolo del partito. Il problema è semmai un altro e cioè che Gramsci ritiene che il ruolo del partito rivoluzionario, in Italia e nel 1919, possa ancora essere svolto dal PSI, o per lo meno dalla sua corrente maggioritaria massimalista.

Questo emerge in maniera evidente in occasione del XVI congresso del PSI, che si svolge nell’ottobre 1919 a Bologna. Al

congresso gli schieramenti principali sono sostanzialmente tre: il centro massimalista guidato da Serrati, che conquista la maggioranza dei voti; l’ala destra riformista, che è in minoranza nel partito, ma controlla i sindacati e il gruppo parlamentare; una nuova minoranza di sinistra, staccatasi dal massimalismo e guidata da Bordiga, che porta avanti una posizione “astensionista” e cioè contraria di principio alla partecipazione dei socialisti alle elezioni nelle istituzioni “borghesi”. È significativo che al congresso, in cui viene votata l’adesione del PSI alla Terza Internazionale, gli ordinovisti sono ancora inquadrati nel centro massimalista (Terracini verrà addirittura cooptato nella direzione del partito).

Quali sono le ragioni di questa scelta di campo? Certamente gli ordinovisti non condividono la linea astensionista di Bordiga e questo gioca indubbiamente un ruolo, ma c’è un altro aspetto, ancora più importante. Pur rendendosi conto, almeno parzialmente, dei mali che affliggevano il massimalismo italiano, Gramsci è convinto che, per curarli, l’unica medicina necessaria sia quella del lavoro nei consigli di fabbrica. È convinto che sia sufficiente un energico orientamento del PSI verso il movimento consigliare per riportare con i piedi per terra le formulazioni astratte dei dirigenti massimalisti, corrette sul piano formale ma prive di un collegamento con la realtà concreta delle fabbriche.

Gramsci non si rende ancora conto di come la direzione massimalista del PSI, con le sue politiche inconcludenti, stia dilapidando un’occasione rivoluzionaria eccezionale. Più che nel partito guidato dai massimalisti, Gramsci vede il problema nel sindacato egemonizzato dai riformisti e vede nei consigli di fabbrica l’unico strumento possibile con cui scalzare l’apparato moderato della CGL. È questa la ragione per cui dedica le sue energie alla costruzione e all’estensione del movimento consigliare, piuttosto che alla battaglia interna al partito. È questa la ragione per cui non concepisce l’esperienza de L’Ordine Nuovo a Torino come la base per costruire un’alternativa complessiva al gruppo dirigente del PSI, ma come un esempio che le altre sezioni socialiste possano seguire.

Si tratta di un grave abbaglio, come emerge ben presto. Le istanze de L’Ordine Nuovo vengono sistematicamente respinte da tutte le tendenze all’interno del PSI. I riformisti attaccano i consigli di fabbrica come una forma di anarco-sindacalismo e li vedono come una minaccia al controllo esercitato dalla burocrazia della CGL sui lavoratori. Serrati ritiene inaccettabile che, all’interno dei consigli, i lavoratori sindacalizzati si frammischino con gli operai “disorganizzati”, con i settori più arretrati della classe. Il dirigente massimalista Nicola Bombacci si contrappone alla politica de L’Ordine Nuovo, elaborando un proprio progetto sui soviet, completamente scollegato dalla realtà: secondo Bombacci i consigli operai dovevano essere istituiti solo in vista della presa del potere, come semplice articolazione della dittatura del partito.

Anche Bordiga non ne vuole sapere di immischiarsi nei consigli di fabbrica e accusa L’Ordine Nuovo di tralasciare l’elemento centrale, la conquista del potere politico. Bordiga sostiene che si possa parlare di consigli operai e controllo operaio sulla produzione solo dopo la presa del potere, all’interno di un’economia socialista; diversamente i consigli di fabbrica, da organismo di conflitto operaio, si trasformeranno in organizzazioni della collaborazione di classe. Scrive Bordiga:

“Sostenere, come i compagni de ‘L’Ordine Nuovo ’ di Torino, che i Consigli operai, prima ancora della caduta della borghesia, sono già organi non solo della lotta politica, ma di allestimento economico-tecnico del sistema comunista è poi un puro e semplice ritorno al gradualismo socialista… definito dall’errore che il proletariato possa emanciparsi guadagnando terreno nei rapporti economici, mentre ancora il capitalismo detiene, con lo Stato, il potere politico.” [13]

Poco dopo Bordiga sarà ancora più esplicito: “il controllo operaio sulla produzione non è concepibile che quando il potere è passato nelle mani del proletariato.” [14]

In questa polemica tra Gramsci e Bordiga, è impossibile non prendere la parti di Gramsci. La concezione della “presa del potere” di Bordiga è davvero schematica, priva di alcun aggancio con il movimento reale delle masse, e non si capisce proprio da dove possa mai arrivare la “rottura rivoluzionaria”. Da parte sua Gramsci non crede che col continuo rafforzamento dei consigli si possa arrivare a costituire la nuova società senza strappi rivoluzionari, tanto meno pensa che i consigli possano organizzare la produzione a favore dei lavoratori in un contesto di economia capitalista. Vede invece correttamente nei consigli il carattere di dualismo di potere, di conflitto tra i padroni e le loro istituzioni da una parte e gli organismi operai dall’altra. Dunque Gramsci è più concreto rispetto a Bordiga: si basa sull’esperienza reale della classe operai per cercare di capire come potrà verificarsi la rivoluzione in Italia, attraverso quali canali la classe operaia italiana potrà arrivare a prendere il potere.

Va detto che gli astensionisti torinesi, a partire dal segretario della sezione Giovanni Boero, dimostreranno un atteggiamento molto meno settario verso i consigli, collaborando attivamente con L’Ordine Nuovo e attirandosi le critiche di Bordiga. Di fatto in quei mesi la federazione socialista di Torino è controllata da una coalizione di astensionisti e ordinovisti.

Se Bordiga ha torto sulla questione dei consigli di fabbrica, è invece molto più lungimirante di Gramsci sulla questione del partito: è il primo a rendersi conto dei limiti del massimalismo e della necessità di costruire una frazione politica autonoma. Gramsci invece comincia ad aprire gli occhi su questo punto e ad allontanarsi dai massimalisti solo a seguito del dibattito sui consigli. Ma oramai gli eventi rivoluzionari incombono ed è troppo tardi per recuperare il tempo perduto.

Sarà lo stesso Gramsci ad ammettere successivamente il suo errore:

“Nel 1919-20 noi abbiamo commesso errori gravissimi che in fondo adesso scontiamo. Non abbiamo, per paura di essere chiamati arrivisti e carrieristi, costituito una frazione e cercato di organizzarla in tutta Italia. Non abbiamo voluto dare ai Consigli di fabbrica di Torino un centro direttivo autonomo che avrebbe potuto esercitare un’immensa influenza in tutto il paese, per paura della scissione nei sindacati e di essere troppo prematuramente espulsi dal partito socialista.” [15]

Lo sciopero di aprile

I consigli di fabbrica si sono diffusi in tutti gli stabilimenti di Torino, creando una tale situazione di conflittualità nelle fabbriche che, alla fine di marzo del 1920, il padronato ricorre ad una serrata per riprendere il controllo della situazione.

“Al primo caso di indisciplina operaia – la Commissione interna della Industrie Metallurgiche ha arrestato motu proprio d’un ora le lancette dell’orologio dello stabilimento per protestare contro il ripristino dell’ora legale, eredità della guerra – è comminato il licenziamento di tre membri della stessa Commissione. Gli operai entrano in sciopero in quell’officina. Il 29 marzo l’AMMA (l’associazione degli industriali metalmeccanici) proclama la serrata, la forza pubblica presidia le fabbriche. ‘Per imporre la fine dello stato caotico delle officine’, gli imprenditori presentano uno schema di procedura per gli organismi operai che ne limita rigorosamente le funzioni. La posta in gioco diventa lo stesso riconoscimento delle Commissioni interne, dei modi della loro elezione, del loro effettivo potere nell’officina. Gli uomini dell’Ordine Nuovo, i dirigenti sindacali a loro uniti, che guidano la FIOM a Torino, non possono rifiutare questa battaglia di principio.” [16]

Comincia uno sciopero dei metalmeccanici che durerà venti giorni. A partire dalla metà di aprile la lotta viene estesa a tutte le altre categorie di lavoratori – chimici, tipografi, ferrovieri, lavoratori dell’edilizia, dipendenti comunali, braccianti agricoli – e dilaga in tutto il Piemonte, trasformandosi in un vero e proprio sciopero generale, che nella sua punta massima arriva a coinvolgere 500.000 lavoratori piemontesi.

Il 20 aprile il “Comitato di studi dei Consigli di fabbrica torinesi” pubblica un accorato appello ai lavoratori e ai contadini di tutto il paese per unirsi alla lotta:

“Oggi tutto il Piemonte è in movimento, ma perché la battaglia sia vinta ciò non basta. La classe operaia torinese non si è impegnata nella lotta per una questione di orario o di salario: è in gioco un istituto rivoluzionario, quello dei Commissari di reparto e dei Consigli di fabbrica, che non interessa soltanto una categoria locale ma interessa tutto il proletariato comunista italiano. La lotta non può risolversi favorevolmente alla classe operaia e contadina, se tutta la classe operaia e contadina non si impegna nella lotta, non afferma la sua potenza di controllo alla classe proprietaria, al potere di Stato borghese.” [17]

Tuttavia, mentre lo Stato concentra tutte le sue forze a livello nazionale per sostenere lo scontro con la classe operaia, facendo affluire a Torino 50.000 soldati provenienti da tutta la penisola, la mobilitazione dei lavoratori non va oltre i confini regionali del Piemonte. Emerge chiaramente il limite già discusso de L’Ordine Nuovo, come forza esclusivamente locale. Sia ben chiaro, Gramsci e i suoi compagni non lesinano gli sforzi per cercare di estendere lo sciopero a livello nazionale. Inviano propri emissari in tutto il Piemonte, in Liguria e in Lombardia; addirittura si rivolgono agli anarchici e in particolare al loro leader storico, Errico Malatesta, da poco rientrato in Italia dopo un lungo esilio. Sono tuttavia tentativi estemporanei, che ottengono risultati assai limitati. La realtà è che, privi di collegamenti politici stabili con il resto del paese, gli ordinovisti si trovano a dover dipendere dalla CGL e dal PSI per allargare il fronte di lotta. Ed è proprio qui che cominciano tutti i problemi.

La CGL è apertamente contraria allo sciopero e lo boicotta apertamente, impedendo alle proprie strutture locali di unirsi alla lotta degli operai torinesi. Il PSI non si comporta affatto meglio: decide di trasferire la sede del proprio convegno nazionale del 20-21 aprile (che per ironia della sorte, doveva discutere proprio del progetto sui soviet immaginari di Bombacci) da Torino a Milano. Di fronte a questa decisione Gramsci reagisce in maniera indignata ed è impossibile non condividere la sua indignazione:

“Una città in preda allo sciopero generale sembrava poco adatta come teatro di discussioni socialiste… mentre la massa operaia difendeva a Torino coraggiosamente i Consigli di fabbrica, la prima organizzazione basata sulla democrazia operaia, a Milano si chiacchierava intorno a progetti e metodi teorici per la formazione di Consigli come forma di potere politico da conquistare del proletariato; si discuteva sul modo di sistemare le conquiste non avvenute e si abbandonava il proletariato torinese al suo destino.” [18]

A Milano si recano Tasca e Terracini, che richiedono la convocazione di uno sciopero generale nazionale e fanno appello perché il partito prenda l’iniziativa, mobiliti le sue forze e si ponga alla testa della lotta. L’appello cade completamente nel vuoto. I riformisti sono apertamente ostili. I massimalisti danno la solita risposta: non siamo ancora pronti, tutto deve essere rimandato ad un momento più propizio. Bordiga critica ancora una volta i consigli come una forma di compartecipazione dei lavoratori alla gestione capitalista dell’azienda.

Bisogna aggiungere che i due torinesi, anche in questo frangente, rinunciano a portare avanti fino in fondo una battaglia all’interno del partito: Tasca e Terracini infatti ritirano il loro ordine del giorno e votano a favore di quello presentato dalla direzione massimalista, che invita a prendere tempo e a rafforzare i preparativi per una “forza militare proletaria” (preparativi che, come di consueto, rimarranno lettera morta).

A causa del rifiuto della direzione del PSI, la lotta a Torino rimane isolata e va così incontro ad una sconfitta. Lo sciopero si chiude e viene raggiunto un accordo tra la CGL e il padronato, in base al quale i consigli vengono formalmente riconosciuti, ma le loro funzioni all’interno delle fabbriche vengono fortemente ridimensionate.

La spaccatura ne L’Ordine Nuovo

L’andamento e l’esito dello sciopero di aprile rappresentano uno spartiacque per Gramsci. È proprio a questo punto che rompe definitivamente con il massimalismo e cambia le sue priorità politiche. Da questo momento in poi si rende conto che i consigli di fabbrica non possono essere la panacea per tutti i mali e si concentra soprattutto sulla battaglia all’interno del partito socialista.

A dimostrazione di questo nuovo orientamento, già ai primi di maggio Gramsci partecipa come “osservatore” ad una riunione nazionale della frazione astensionista, a Firenze. In quest’occasione propone “la creazione e la costituzione di una frazione comunista nazionale”.

“Bisogna – dirà Gramsci dalla tribuna del convegno – abbandonare la ristretta base dell’astensionismo e raggruppare tutte le forze rivoluzionarie, comuniste, del partito e della classe.” [19]

Bordiga però non ne vuole sapere di rinunciare all’astensionismo, che è il suo principale cavallo di battaglia e ritiene un punto dirimente. Gramsci torna quindi a Torino con un nulla di fatto. Subito dopo espone in un articolo su L’Ordine Nuovo dell’8 maggio 1920, Per un rinnovamento del partito socialista, i punti politici sui quali ritiene necessario fondare una nuova frazione. Si tratta di uno dei testi più lucidi, precisi e chiari mai scritti da Gramsci, che rivela quanto fosse maturato politicamente sulla base delle esperienze del dopoguerra. Ne riportiamo qui alcuni ampi passaggi, che sono sufficientemente espliciti da non richiedere un commento, e invitiamo i nostri lettori a leggere la versione integrale dell’articolo:

“La fase attuale della lotta di classe in Italia è la fase che precede: o la conquista del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario per il passaggio a nuovi modi di produzione e di distribuzione che permettano una ripresa della produttività; o una tremenda reazione da parte da parte della classe proprietaria e della casta governativa. […]

Il Partito socialista è rimasto, anche dopo il Congresso di Bologna, un mero partito parlamentare, che si mantiene immobile entro i limiti angusti della democrazia borghese, che si preoccupa solo delle superficiali affermazioni politiche della casta governativa; esso non ha acquistato una sua figura autonoma di partito caratteristico del proletariato rivoluzionario e solo del proletariato rivoluzionario. […]

La polemica coi riformisti e cogli opportunisti non fu neppure iniziata; né la direzione del Partito né l’‘Avanti’ contrapposero una propria concezione rivoluzionaria alla propaganda incessante che i riformisti e gli opportunisti andavano svolgendo in Parlamento e negli organismi sindacali. […]

“Il Partito deve acquistare una sua figura precisa e distinta; da partito parlamentare piccolo-borghese deve diventare il partito del proletariato rivoluzionario che lotta per l’avvenire della società comunista attraverso lo Stato operaio, un partito omogeneo, coeso, con una sua propria dottrina, una sua tattica, una sua disciplina rigida e implacabile. I non comunisti rivoluzionari devono essere eliminati dal partito e la direzione, liberata dalla preoccupazione di conservare l’unità e l’equilibrio tra le diverse tendenze e tra i diversi leaders, deve rivolgere tutta la sua energia per organizzare le forze operaie sul piede di guerra. […]

La sezione deve promuovere in tutte le fabbriche, nei sindacati, nelle caserme la costituzione di gruppi comunisti che diffondano incessantemente in seno alle masse le concezioni e la tattica del Partito, che organizzino la creazione di Consigli di fabbrica per l’esercizio del controllo sulla produzione industriale e agricola, che svolgano la propaganda necessaria per conquistare in modo organico i sindacati, le Camere del Lavoro e la Confederazione Generale del Lavoro, per diventare gli elementi di fiducia che la massa delegherà per la formazione dei soviet politici e per l’esercizio della dittatura proletaria.” [20]

L’articolo è talmente significativo che riceverà la piena approvazione di Lenin e della direzione dell’Internazionale comunista. Tra luglio e agosto si svolge infatti in URSS il II Congresso del Comintern: il dibattito sull’Italia vede l’Internazionale in polemica sia con i massimalisti di Serrati, che si rifiutano di rompere una volta per tutte con l’ala riformista di Turati; sia con gli astensionisti di Bordiga, che sono contrari alla partecipazione alle elezioni parlamentari. Sebbene né Gramsci né nessun altro esponente de L’Ordine Nuovo facciano parte della delegazione italiana al congresso, nel corso del dibattito Lenin esprime il proprio accordo con il programma contenuto in Per il rinnovamento del partito socialista. Il che suscita la reazione piccata tanto dei massimalisti che dei bordighisti, entrambi ugualmente ostili al gruppo torinese.

Le tesi finali del congresso, a proposito dell’Italia, recitano:

“Per quanto riguarda il Partito socialista italiano, il II Congresso della III Internazionale ritiene sostanzialmente giuste la critica del partito e le proposte pratiche, pubblicate come proposte al Consiglio nazionale del Partito socialista italiano, a nome delle sezione torinese del partito stesso, nella rivista L’Ordine Nuovo dell’8 maggio 1920, le quali corrispondono pienamente a tutti i principi fondamentali della III Internazionale.” [21]

Ma proprio mentre Gramsci segna un importante passo avanti nella sua elaborazione e ottiene un importante riconoscimento internazionale, il resto del gruppo originario de L’Ordine Nuovo non è disposto a seguirlo sulla nuova strada che ha imboccato. L’Ordine Nuovo si rivela un gruppo tutt’altro che politicamente omogeneo e privo di solide basi politiche condivise.

Lo scontro più duro Gramsci ce l’ha con Tasca, a proposito del ruolo dei consigli di fabbrica. Mentre Gramsci vede nei consigli uno strumento per sottrarre i lavoratori all’influenza dei dirigenti sindacali riformisti, Tasca vorrebbe inquadrarli all’interno delle strutture sindacali tradizionali, trasformarli di fatto in un’appendice delle Camere del lavoro. Lo scontro non è esclusivamente di carattere teorico, ma ha conseguenze pratiche molto importanti: sarà proprio grazie ad un accordo con Tasca, che la destra riformista riprenderà il controllo della Camera del Lavoro di Torino.

Togliatti e Terracini, invece, si avvicinano ai massimalisti e nel mese di agosto impongono una nuova maggioranza nella direzione della sezione torinese del PSI: Togliatti viene eletto segretario con i voti dei massimalisti e in contrapposizione sia agli astensionisti, sia allo stesso Gramsci.

Gramsci si ritrova quindi politicamente del tutto isolato alla vigilia della battaglia più decisiva di tutto il Biennio Rosso: l’occupazione delle fabbriche. Una circostanza che dimostra una volta di più come un’organizzazione rivoluzionaria all’altezza della situazione non possa essere improvvisata nel fuoco degli avvenimenti rivoluzionari, ma debba essere costruita pazientemente nel periodo precedente, in un processo costante di chiarificazione politica, formazione dei quadri e accumulazione di esperienza.

L’occupazione delle fabbriche

Incoraggiati dal successo riportato in primavera, nel mese di agosto del 1920 i padroni adottano una linea dura sul rinnovo del contratto dei metalmeccanici e fanno saltare le trattative con i sindacati. Di fronte all’arroganza padronale, la FIOM, che subisce una forte pressione dalla base, non può fare a meno di accettare lo scontro. La lotta sindacale ben presto si radicalizza e, tra la fine di agosto e i primi di settembre, gli operai cominciano ad occupare una fabbrica dopo l’altra, in tutta Italia. La lotta si estende anche alle aziende non metalmeccaniche e gode della solidarietà popolare. La maggioranza degli stabilimenti in tutto il paese vengono occupati e il movimento arriva a coinvolgere mezzo milione di lavoratori. Gli operai non solo occupano le fabbriche, ma organizzano delle milizie armate (le cosiddette guardie rosse) per presidiarle e in molti casi fanno proseguire la produzione sotto il controllo dei consigli di fabbrica. Il governo di Giolitti adotta una politica di neutralità, rifiutandosi di fare intervenire l’esercito contro le officine occupate: quella che a posteriori verrà fatta passare come una strategia molto raffinata, volta a far stancare e sfogare gli operai, è in realtà una manifestazione di impotenza: il movimento è così diffuso che il governo non ha la forza per schiacciarlo con le armi. Sembra che l’ora della rivoluzione sia finalmente arrivata.

Sull’onda della lotta operaia, il gruppo de L’Ordine Nuovo si ricompatta un poco e, come sempre, interviene generosamente nella mobilitazione: a Gramsci si riavvicinano, se non Tasca, per lo meno Togliatti e Terracini. Ancora una volta, però, l’influenza degli ordinovisti non va oltre Torino e i consigli di fabbrica non sono coordinati tra loro a livello nazionale: la direzione della lotta rimane quindi nelle mani dei sindacati tradizionali e dei loro apparati.

Il destino dell’occupazione delle fabbriche viene così deciso il 9-10 settembre a Milano, in una riunione congiunta del Consiglio Generale della CGL assieme alla direzione del PSI. Quest’ultima presenta, in perfetto stile massimalista, un ordine del giorno per trasformare l’occupazione delle fabbriche in una vera e propria insurrezione nazionale, senza però aver fatto il minimo preparativo in tal senso. La CGL è però apertamente contraria a qualsiasi ipotesi rivoluzionaria e vuole mantenere l’azione dei lavoratori entro i limiti di un normale scontro economico-sindacale. Senza l’appoggio della CGL, i dirigenti socialisti rifiutano di assumersi la responsabilità di guidare una rivoluzione e battono vergognosamente in ritirata, rimandando tutto ad un domani migliore.

Il movimento rimane così senza sbocchi e il 19 settembre si conclude con un accordo tra padroni e CGL, che riconosce ai lavoratori alcuni aumenti salariali e promette una forma di controllo dei lavoratori sulla gestione delle aziende (che rimarrà solo sulla carta). L’accordo è ratificato con un referendum il 25: mancando qualsiasi alternativa, solo una minoranza degli operai vota e passa il Sì. Entro l’ultima settimana di settembre anche gli ultimi stabilimenti vengono sgomberati. Per la classe operaia, che poche settimane prima sembrava alla vigilia della presa del potere, la delusione è enorme. Il Biennio Rosso è concluso e inizia un lungo periodo di riflusso.

Qual è il ruolo de L’Ordine Nuovo in questi sviluppi? Gramsci non è presente alla riunione di Milano del 9-10 settembre, ma ci sono Togliatti, Tasca e Terracini. In quell’occasione i dirigenti della CGL chiedono a Togliatti se a Torino sono in grado di passare all’attacco, di dare il via ad un moto armato insurrezionale. La risposta di Togliatti è categoricamente negativa:

“Se vi fosse un attacco contro le officine la difesa è pronta e sarebbe efficace, non così l’attacco. La città è circondata da una zona non socialista e per trovare delle forze proletarie che aiutassero la città dovrebbero arrivare fino a Vercelli e Saluzzo. Vogliamo sapere se si arriva ad un attacco violento e insurrezionale; vogliamo sapere quali sono i fini che si vuole raggiungere. Non dovrete contare su un’azione svolta a Torino sola. Noi non attaccheremo da soli: per farlo occorrerebbe un’azione simultanea delle campagne e soprattutto un’azione nazionale.” [22]

In pratica: se il PSI non si muove senza la CGL, Torino non si muove senza tutto il PSI. È evidente la preoccupazione che Torino venga abbandonata da sola a combattere, come già successo ad aprile. Questo rifiuto ha però delle conseguenze ben precise e fa esattamente il gioco dei dirigenti sindacali riformisti. Come ricorderà D’Aragona, il segretario della CGL:

“Abbiamo interrogato i compagni di Torino perché ritenevamo che Torino fosse la città più preparata ad un’azione di questo genere e abbiamo chiesto loro: siete voi in condizione di fare la lotta se la trasferiamo nel campo politico? E ci hanno risposto: se si tratta di difendere gli stabilimenti possiamo anche difenderli; se si tratta di uscire dagli stabilimenti per fare la lotta nelle strade, dopo dieci minuti noi siamo finiti. Ma la lotta che si doveva fare era proprio la lotta per le strade…” [23]

La valutazione di Togliatti sui rapporti di forza è condivisa anche dagli altri esponenti de L’Ordine Nuovo. Per esempio Tasca scriverà:

“L’insurrezione armata è impossibile perché non vi è niente di pronto. Le masse si sentono sicure dietro i muri dell’officina, non tanto per il loro armamento, spesso primordiale e insufficiente, quanto perché esse considerano le officine come pegni che il governo esiterà a distruggere a colpi di cannone per sloggiarne gli occupanti. Da questo atteggiamento ‘difensivo’ alla lotta aperta nella strada, la differenza è grande, e gli operai lo sentono, più o meno confusamente. A Torino stessa, dove pure è un’avanguardia audace e meglio armata che altrove, i capi comunisti si astengono da ogni iniziativa in questo senso e frenano i gruppi che hanno preparato, alla Fiat, dei camion per una sortita.” [24]

Si resta perplessi a leggere queste righe che lamentano del basso livello di coscienza di quegli operai che si “limitano” ad occupare in armi le loro fabbriche e a cercare di farle funzionare senza padrone! Da dove emergerebbe questo “atteggiamento difensivo” delle masse? Forse qualcuno ha proposto loro di uscire dalle fabbriche con le armi in pugno e si sono dimostrate riluttanti? Nient’affatto. O forse ci si aspetta che facciano la sortita per le strade senza alcuna indicazione dai loro dirigenti, anzi contro la volontà dei loro dirigenti che li “frenano”? In realtà l’“atteggiamento difensivo” più che ai lavoratori, sembra appartenere ai dirigenti torinesi.

Tasca del resto trae un bilancio negativo di tutta l’esperienza dell’occupazione delle fabbriche, che vede come una sorta di sussulto in un contesto di declino delle mobilitazioni:

“L’occupazione delle fabbriche che si è spesso rappresentata come una specie di punto culminante di una febbre rivoluzionaria, è, alla sua origine, un semplice ersatz [surrogato] dello sciopero, divenuto troppo difficile, un mezzo economico per imporre il nuovo contratto collettivo di lavoro. I dirigenti della FIOM hanno scelto la via del minimo sforzo, pensano che l’occupazione delle fabbriche provocherà l’intervento del governo e alcuni di essi carezzano anche – senza osar confessarla – la speranza che l’occupazione abbia uno sbocco politico con la partecipazione dei socialisti al potere.” [25]

Non abbiamo nulla da eccepire a quanto scritto sulle intenzioni dei dirigenti della FIOM, ma è una tesi davvero curiosa quella che presenta l’occupazione delle fabbriche come un metodo di lotta più “facile”, “di minor sforzo”, rispetto ad un semplice sciopero.

Anche Gramsci non è estraneo a questo tipo di valutazioni. In una lettera del 1924 a Zino Zini scriverà:

“…con un partito come era il socialista, con una classe operaia che in generale vedeva tutto roseo e amava le canzoni e le fanfare più dei sacrifici, avremmo avuto dei tentativi controrivoluzionari che [in caso di presa del potere] ci avrebbero spazzato via inesorabilmente.” [26]

Anche tenendo conto del linguaggio più disinvolto che si può utilizzare in una lettera personale piuttosto che in un articolo pubblico, il giudizio di Gramsci appare incredibilmente ingeneroso nei confronti di quella stessa classe lavoratrice cui era stato a contatto per anni: cosa avrebbero dovuto fare di più gli operai di Torino rispetto a quello che hanno effettivamente fatto tra il 1917 e il 1920, dimostrando una tenacia, un eroismo e un combattività con pochissimi uguali nella storia? Scioperi generali, moti spontanei, barricate, insurrezioni… altro che canzoni e fanfare! Non siamo affatto in presenza di una classe operaia immatura che ha i gruppi dirigenti che si merita, semmai è il contrario: sono i gruppi dirigenti italiani che non riescono a stare al passo con una classe operaia che è più avanti di loro.

È evidente che non è certo colpa de L’Ordine Nuovo se l’occupazione delle fabbriche si conclude in un fallimento: le responsabilità della dirigenza della CGL e del PSI sono già state esposte. Ma bisogna dire che in quelle giornate cruciali gli ordinovisti non si distaccano particolarmente per audacia e risolutezza rispetto al panorama desolante del massimalismo. Anche loro sembrano più preoccupati di evitare una sanguinosa disfatta, piuttosto che di assestare un colpo decisivo. I preparativi concreti per un’insurrezione non sembrano molto più avanzati a Torino che nel resto d’Italia.

Alla base di questo atteggiamento prudente, esitante, oltre ad una sottovalutazione della forza della classe lavoratrice, c’è una sopravvalutazione della forza della controrivoluzione. In realtà le truppe dell’esercito non sono così affidabili per il governo e ci basti qui citare un solo episodio: nonostante il partito socialista non avesse sviluppato una propaganda ad hoc tra i soldati, nel mese di giugno un reggimento di bersaglieri si era ammutinato ad Ancona, dando vita ad una vera e propria sommossa in città con una ventina di morti e decine di feriti. E se durante tutta la crisi Giolitti ostenta sicurezza, è perché basa la sua strategia di “neutralità” non sulla presunta debolezza – o sulla volubilità – del movimento, ma sulla convinzione di poter sempre fare affidamento sulla collaborazione dei dirigenti della CGL e dei riformisti come Turati. La forza della classe operaia è tale che nel 1920, sia in occasione dello sciopero generale di aprile che dell’occupazione delle fabbriche di settembre, i padroni riescono ad ottenere la loro vittoria non con la forza militare, ma attraverso un accordo con il sindacato.

I giudizi pessimisti di Gramsci e degli altri “torinesi”, spesso espressi a posteriori, sono influenzati dal fatto che, subito dopo l’occupazione delle fabbriche, si assiste all’ascesa del movimento fascista. Ma l’occupazione delle fabbriche non rappresenta affatto l’ultimo colpo di coda di un movimento operaio in declino, è piuttosto il momento culminante di un processo rivoluzionario durato due anni. Non fallisce perché è un ultimo tentativo disperato in un contesto di reazione avanzante, ma è invece il suo fallimento a spianare la strada alla reazione fascista.

La scissione di Livorno

La conclusione dell’occupazione delle fabbriche intensifica e inasprisce il dibattito all’interno del PSI. Già nel mese di ottobre viene costituita una “frazione comunista” in vista del prossimo congresso. La frazione è il frutto della confluenza del gruppo astensionista di Bordiga, de L’Ordine Nuovo e di un settore di massimalisti di sinistra staccatisi da Serrati. Per favorire il processo di unificazione, Bordiga ha formalmente messo da parte la questione dell’astensionismo, anche in ossequio alle indicazioni ricevute dall’Internazionale comunista, ma non ha affatto rinunciato alle sue posizioni e anzi è proprio lui a trovarsi in posizione egemonica all’interno della nuova frazione.

È stato il primo a muoversi e a formare una corrente nazionale all’interno del PSI, ben organizzata e politicamente omogena. Questo pone Bordiga in netto vantaggio rispetto a Gramsci, che invece nella battaglia interna al partito si è mosso tardi e fa parte di un gruppo tutt’altro che coeso. Non è un caso che nel primo manifesto della frazione, pubblicato il 15 ottobre, non si fa il minimo cenno ai consigli di fabbrica.

È dunque Bordiga a dare il tono alla battaglia pre-congressuale della frazione comunista. Sentendosi forte dell’appoggio dell’Internazionale, ha fretta di rompere e di costituire un nuovo partito comunista. Adotta nei confronti del resto del partito un atteggiamento settario, fatto di ultimatum categorici. Non gli interessa conquistare politicamente tutti gli elementi migliori della corrente massimalista, sembra anzi fare apposta a tener lontani quanti più massimalisti gli riesce, in modo da spostare il più a sinistra possibile l’asse della scissione.

La prima conferenza nazionale della frazione, che si svolge a Imola il 28 novembre, è sintomatica di quali sono i rapporti di forza al suo interno. In quest’occasione una parte dei massimalisti di sinistra cerca di mettere in discussione l’impostazione troppo rigida di Bordiga. Questi reagisce prontamente, convocando una riunione separata dei soli astensionisti, facendo così capire a tutti che è pronto ad andare avanti da solo con i suoi. La frazione comunista rischia di andare in frantumi ancora prima di arrivare al congresso. Gramsci si vede costretto ad intervenire a sostegno della linea di Bordiga, non tanto perché la condivide, ma perché è l’unico modo per evitare una spaccatura.

“…la condotta che Gramsci tiene in questo momento resta ispirata alla assoluta necessità di subordinare tutto alla confluenza con Bordiga (che significa anche, per molte ragioni, la supremazia di quest’ultimo). […] il segreto del contegno di Gramsci ad Imola, un contegno che contribuisce in modo decisivo a salvare il convegno, è qui: di Bordiga non si può fare a meno.” [27]

La subalternità di Gramsci a Bordiga in questo periodo si evince anche nelle vicende de L’Ordine Nuovo, che chiude i battenti alla fine del 1920 per riprendere le sue pubblicazioni a gennaio del 1921, sempre sotto la direzione di Gramsci, nella nuova veste di organo della frazione comunista (e successivamente del Partito comunista d’Italia). In questa nuova versione del giornale non saranno più rintracciabili quelle tematiche e quelle concezioni che lo avevano caratterizzato nel suo periodo originario: di fatto non sarà diverso dalle altre pubblicazioni del partito comunista.

Il XVII Congresso del partito socialista si tiene tra il 15 e il 21 gennaio 1921, a Livorno. I giochi sono abbondantemente già fatti. La destra riformista di Turati, con la denominazione di “concentrazione socialista”, ha raccolto 14.695 voti. La frazione comunista ne ha presi 58.783 e può contare sul sostegno dell’organizzazione giovanile. Ma ad avere la maggioranza del partito è il “centro” di Serrati con 98.028 voti. L’Internazionale ha chiesto più volte a Serrati di rompere con Turati, di espellere i riformisti dal partito. Serrati invece, pur continuando a professare la propria fedeltà alla Terza Internazionale, non vuole spezzare l’unità del partito. Bordiga da parte sua è deciso più che mai ad attuare quella scissione che prepara da tempo.

Quanto ai rappresentanti del Comintern al congresso, nessuno dei principali dirigenti bolscevichi ha la possibilità di partire per l’Italia e così vengono inviate a Livorno due figure di secondo piano, l’ungherese Rakosi e il bulgaro Kabakciev, che si dimostrano privi delle capacità politiche necessarie al contesto. Invece di sforzarsi di convincere politicamente i delegati sulla base delle loro argomentazioni, Rakosi e Kabakciev riducono tutta la discussione a una questione di disciplina, di obbedienza alle direttive dell’Internazionale: chi non sostiene la mozione comunista è fuori dal Comintern. Un modo di fare che risulta quanto mai gradito a Bordiga, ma che certamente contribuisce a compattare la maggioranza attorno alla linea di “autonomia del partito” di Serrati.

L’esito del congresso è noto. Il 21 gennaio i delegati della frazione comunista abbandonano i lavori (che si svolgono presso il teatro Goldoni di Livorno), escono cantando L’Internazionale e si riuniscono al teatro San Marco, dove viene formalmente fondato il “Partito Comunista d’Italia (PCd’I) – Sezione italiana dell’Internazionale comunista”.

Il ruolo di Gramsci al Congresso di Livorno è marginale. Non prende nemmeno la parola e subisce una serie di attacchi, compresi colpi bassi contro il suo “interventismo” giovanile. Al momento dell’elezione degli organismi dirigenti del nuovo partito comunista, nel Comitato centrale di 15 membri entrano solo due esponenti de L’Ordine Nuovo, Gramsci e Terracini. Quest’ultimo peraltro evolverà molto rapidamente su posizioni sempre più vicine a quelle di Bordiga. Gramsci viene escluso dal massimo organismo del partito, il Comitato esecutivo composto da 5 membri.

Inizialmente convinto che i comunisti potessero conquistare la maggioranza del PSI, Gramsci rimane deluso dall’esito del congresso e, a distanza di anni, avrà modo di evidenziare i limiti con cui è stata portata avanti la “scissione di Livorno”.

“Fummo sconfitti perché la maggioranza del proletariato organizzato politicamente ci diede torto, non venne con noi, quantunque avessimo dalla nostra parte l’autorità e il prestigio dell’Internazionale, che erano grandissimi e sui quali ci eravamo fidati. Non avevamo saputo condurre una campagna sistematica, tale da essere in grado di raggiungere e di costringere alla riflessione tutti i nuclei e gli elementi costitutivi del Partito socialista, non avevamo saputo tradurre in linguaggio comprensibile a ogni operaio e contadino italiano il significato di ognuno degli avvenimenti italiani del 1919-20.” [28]

Queste considerazioni sono certamente condivisibili, ma Gramsci nelle sue analisi retrospettive si spingerà oltre:

“La scissione di Livorno (il distacco della maggioranza del proletariato dalla Internazionale Comunista) è stata senza dubbio il più grande trionfo della reazione.” [29]

Questa affermazione, citata molto spesso, è un’esagerazione bella e buona, che peraltro riprende un argomento usato a suo tempo dai massimalisti, che si opponevano alla rottura con Turati e Treves per tenere unite le forze contro l’avanzata della reazione. In verità, per quanti errori Bordiga possa aver commesso, il carattere “minoritario” della scissione comunista è soprattutto riconducibile alle scelte errate di Serrati e degli altri dirigenti del “centro” massimalista, come Lenin avrà modo di commentare:

“Voi disponevate di 98.000 voti, ma avete preferito restare con i 14.000 riformisti piuttosto di andare con 58.000 comunisti.” [30]

Al di là delle esagerazioni che contiene, il bilancio di Gramsci sulla scissione di Livorno mette in evidenza i due principali problemi che il giovane partito comunista italiano si trova di fronte, subito dopo la sua nascita: il fatto che la maggioranza della classe operaia organizzata rimane ancora legata al PSI e l’ascesa della reazione fascista. Va sottolineato che la soluzione a queste problematiche non viene avanzata da Gramsci, ma dall’Internazionale comunista con la politica del fronte unico: una politica volta a promuovere un fronte di lotta unitario tra tutte le organizzazioni del movimento operaio, in particolare tra socialisti e comunisti, allo scopo di conquistare quei lavoratori che hanno ancora illusioni nel PSI e di contrastare in maniera più efficiente le bande fasciste.

La direzione del PCd’I rimane inizialmente del tutto sorda di fronte alle proposte dell’Internazionale e Bordiga continua imperterrito nella sua linea estremista. E anche Gramsci, nei primi anni di vita del partito comunista, resta schiacciato sulle posizioni di Bordiga. L’unico che in quegli anni sviluppa una posizione critica tra le fila del PCd’I, è Angelo Tasca, che assieme ad altri darà vita ad una vera e propria corrente “di destra”, di stampo socialdemocratico. Uno dei motivi che spinge Gramsci a rimanere inizialmente subordinato a Bordiga, a non rompere la “maggioranza di Livorno”, è proprio la preoccupazione di non lasciare spazio a Tasca, con il quale i rapporti non si sono mai ricuciti dopo le polemiche del 1920: Gramsci teme infatti che Tasca, con i suoi legami con la burocrazia della CGL, possa ricondurre il giovane partito comunista nell’alveo del massimalismo.

E quando finalmente, dopo anni di tormenti, di dubbi e di ripensamenti, Gramsci si porrà risolutamente come un’alternativa all’interno del PCd’I contro la linea settaria di Bordiga, non lo farà sulla base di una propria evoluzione, di un’elaborazione originale, ma sulla base delle indicazioni e delle sollecitazioni provenienti dall’Internazionale comunista a proposito del fronte unico.

Anche in quest’occasione, però, il suo percorso politico sarà tutt’altro che lineare. Il problema è che quando Gramsci rompe definitivamente gli indugi, tra la fine del 1923 e il 1924, l’Internazionale è già cambiata, non è più quella dei suoi primi quattro congressi, quella guidata politicamente da Lenin e Trotskij, che aveva elaborato la tattica del fronte unico. La figura centrale è diventata quella di Zinoviev e i metodi non sono più gli stessi: al dibattito democratico, articolato su posizioni differenti, sono state sostituite le imposizioni organizzative e le manovre burocratiche. Drammaticamente Gramsci si convince della correttezza della linea dell’Internazionale, quando questa ha già cominciato il suo processo di degenerazione politica. Sarà proprio questa contraddizione tra idee politiche corrette e ricette organizzative zinovieviste a segnare indelebilmente la sua battaglia all’interno del PCd’I.

Note

  1. in P. Spriano, Storia di Torino operaia e socialista, Einaudi 1958, n. 4 p. 241.
  2. Ibidem, p. 373.
  3. Gramsci, Scritti Politici, Editori Riuniti 1971, pp. 59-60.
  4. Ibidem, p. 66.
  5. Ibidem, pp. 80-81.
  6. in P. Spriano, Storia di Torino operaia e socialista, Einaudi 1958, p. 490.
  7. in P. Spriano, “L’Ordine Nuovo” e i Consigli di fabbrica, p. 23.
  8. l'argomento è trattato nell'articolo di Alan Woods "La repubblica sovietica ungherese del 1919 - La rivoluzione dimenticata"
  9. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1929, Einaudi 1955, p. 148.
  10. Ibidem, p. 147.
  11. Ibidem, pp. 10-13.
  12. Ibidem, p. 149.
  13. in G. Galli, Storia del Pci, Kaos Edizioni 1993, p. 22.
  14. Ibidem, p. 23.
  15. Lettera di A. Gramsci ad A. Leonetti del 28 gennaio 1924, in P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del partito comunista italiano nel 1923-1924, Editori Riuniti 1974, p. 183.
  16. Spriano, Storia del partito comunista italiano, l’Unità Einaudi 1967, vol. 1, p. 52.
  17. Ibidem, p. 55.
  18. Ibidem, p. 53.
  19. Ibidem, p. 59.
  20. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1929, Einaudi 1955, pp. 122 e ss.
  21. Lenin, Sul movimento operaio italiano, Editori Riuniti 1970, p. 194.
  22. Spriano, L’occupazione delle fabbriche, Einaudi 1964, p. 103.
  23. Ibidem, p. 104-105.
  24. Tasca, Nascita e avvento del fascismo, Universale Laterza 1965, vol. 1, p. 127.
  25. Ibidem, p. 125.
  26. Spriano, L’occupazione delle fabbriche, Einaudi 1964, p. 173.
  27. Spriano, Storia del partito comunista italiano, l’Unità Einaudi 1967, vol. 1, p. 103.
  28. Gramsci, Scritti politici, Editori Riuniti 1971, vol. 2, pp. 545-546.
  29. in P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del partito comunista italiano nel 1923-1924, Editori Riuniti 1974, p. 102.
  30. Lenin, Sul movimento operaio italiano, Editori Riuniti 1970, p. 223.

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