Afghanistan: Gli scontri di Kabul evidenziano le contraddizioni dell'imperialismo Usa

Italian translation of Rioting in Afghanistan highlights contradictions facing US imperialism by Fred Weston (May 31, 2006)

La scintilla che ha scatenato gli scontri è stato un incidente stradale, alla periferia di Kabul, tra un veicolo militare americano ed alcune automobili di civili. Nei servizi della tv afgana si è parlato di trenta persone uccise ed oltre sessanta ferite; altre fonti riportano come gli americani, a seguito dell’incidente, abbiano sparato sulla folla disarmata.Questa è stata la più grossa esplosione di violenza da quando il regime dei talebani è stato rovesciato, cinque anni fa. Nel tentativo di placare, in qualche modo, il crescente sentimento antiamericano tra la popolazione afgana, l’ambasciata USA ha promesso risarcimenti alle famiglie degli uccisi, ma è molto probabile che questo non abbia alcun effetto, dal momento che il problema va ben oltre la questione dell’incidente.

Una tale esplosione di violenza non si spiega certo con un incidente, infatti. Piuttosto è un segnale estremamente importante dello stato delle cose in Afghanistan e sottolinea come anche questo paese, proprio come l’Iraq, è un paese occupato da truppe straniere. Tutta la propaganda del mondo, da parte del governo americano e dei suoi alleati, non può nascondere il fatto che il popolo afgano non vuole truppe straniere nel proprio paese.

Gli USA ed i loro alleati hanno sempre sostenuto che sarebbero andati in Afghanistan per assicurare democrazia e progresso a quel popolo, ma fino ad oggi il popolo afgano di democrazia e progresso ne hanno visti ben poco. Il “parlamento” afgano è composto da 240 deputati dei quali, secondo alcune fonti, 200 dispongono di milizie private. Dunque, ben lungi dall’essere una istituzione democratica e rappresentativa, si direbbe piuttosto l’insieme degli uomini che detengono il potere reale sul campo, ossia quelli che comandano le milizie locali mentre, al contrario, il presidente Karzai resta al potere solo grazie alla protezione garantitagli dalle truppe americane, senza le quali, molto probabilmente, sarebbe un uomo morto.

Anche il comportamento dei soldati americani è un fattore che contribuisce al crescente malcontento popolare contro di loro. Parrebbe che incidenti tipo quello del 29 non siano infrequenti, anzi, nei racconti degli autisti afgani abbondano le storie di veicoli militari americani (ma gli altri militari stranieri pare non siano da meno) guidati senza alcuna attenzione per le persone in strada.

Un tassista, intervistato, diceva: “Se l’oppressione americana sulla gente comune continua così ci toccherà unirci ai talebani per liberarcene”. Basterebbe solo questo amaro commento a svelare quanto radicato sia il risentimento nei confronti degli occupanti. Il regime dei talebani è stato drammaticamente brutale, tuttavia il comportamento dei soldati dell’imperialismo è tale che perfino i talebani cominciano ad apparire un’alternativa tutto sommato migliore.Il “governo” non ha fatto quasi nulla per migliorare le condizioni di vita del popolo afgano negli ultimi quattro anni. La sensazione che le cose stiano peggiorando invece di migliorare è grandemente diffuso tra la popolazione, ed è proprio questo il motivo di fondo della recente esplosione di rabbia popolare. Il numero dei disoccupati è in crescita e non si vede all’orizzonte alcuna possibilità di nuovi posti di lavoro. Dunque, a partire dalla rabbia contro il comportamento delle truppe statunitensi, il malcontento popolare si è allargato ad esprimere tutta la pt contrarietà all’attuale governo.

Il ruolo giocato dalla “polizia” afgana in questa faccenda mostra chiaramente la debolezza del regime, rilevando come senza le truppe straniere il governo non starebbe in piedi un solo giorno. Gran parte dei poliziotti, infatti, ha solidarizzato con i rivoltosi, rifiutandosi di andare contro di loro e, in qualche caso, si sono tolti la divisa ed hanno fraternizzato nella rivolta, negli slogan e negli insulti contro il presidente Hamed Karzai.
Gli analisti più favorevoli al regime si lambiccano ora a ricostruire teorie complottiste, secondo le quali i moti non sono stati spontanei, ma accuratamente predisposti da alcune forze politiche, quali ad esempio Jamiat-e-Islami. Se questo sia vero o meno non possiamo dirlo con certezza, ma certo è che se pure ci fosse premeditazione, come fanno a spiegare l’ampiezza e la portata della rivolta? Se pure fosse stata pianificata a tavolino sarebbe comunque evidente che gli organizzatori hanno potuto contare su un senso di diffusa ostilità da parte della popolazione contro gli occupanti. Via via che la manifestazione cresceva e s’ingrossava, dirigendosi verso l’ambasciata USA, sempre più forti salivano gli slogan “Morte a Karzai” e “Morte all’America”.

La risposta del governo è stata la dichiarazione del coprifuoco a Kabul (dalle dieci di sera alle quattro del mattino), indetto per la prima volta dalla caduta dei talebani. Al mattino successivo, su Kabul regnava uno stato di calma apparente, con i carri armati a presidio delle zone della città dove maggiori sono stati gli scontri. Questa calma, tuttavia, non inganna nessuno e molti si chiedono quando sarà la prossima esplosione. Se questa è la situazione a Kabul, fuori dalla città le azioni dei talebani si fanno sempre più frequenti. Nel sud del paese, gli attacchi talebani ai militari occupanti, americani e non, sono in costante crescita per numero e portata.

L’anno appena trascorso è stato pessimo per i soldati americani ma, oggi, gli attacchi talebani sono al massimo livello da quando il loro regime fu abbattuto nel 2001. Dall’inizio dell’anno 25 soldati americani sono morti in Afghanistan. Pochi rispetto all’Iraq, ma il dato è comunque in crescita.

Il numero dei combattenti talebani è in crescita e, in alcune aree, riescono anche ad avere sostegno crescente da parte della popolazione. Quanto sta accadendo a sud della città di Ghazni, nella provincia di Andar, è sintomatico: in quell’area, rurale, i talebani detengono il potere reale, controllando il territorio senza opposizione alcuna, nella misura in cui sono riusciti, negli ultimi due anni, a ricostruirsi delle posizioni dalle quali possono facilmente trovare rifugio nel paesi della zona.

E tutto questo avviene nonostante i bombardamenti e la presenza di 20000 soldati USA che, insieme alle forze britanniche, canadesi, italiane, australiane e di altri paesi alleati, non bastano all’imperialismo per tenere sotto controllo il paese. Questa è la conferma più evidente che non si può dominare un popolo con la sola forza delle armi. L’esercito USA è senz’altro il più potente del mondo, possiede le armi più distruttive mai viste nella storia dell’umanità, eppure non riesce a pacificare e “normalizzare” nemmeno un paese piccolo e terribilmente arretrato come l’Afghanistan.

Nel 2001, dopo la caduta di Kabul, i media parlavano diffusamente della fine dei talebani, raccontando di un Afghanistan che sarebbe presto diventata una democrazia stabile sostenuta dagli USA e dalle truppe degli loro alleati presenti nel paese. Si trattava, ovviamente, di becera propaganda, che ignorava completamente la situazione reale. In un articolo, (Afghanistan after the fall of Kabul: Is the war over?) Alan Woods, invece, scriveva:

"La rapidità con cui sono crollate le difese dei talebani, e la facilità con la quale l’Alleanza del Nord è entrata a Kabul, hanno condotto molti a ritenere che la guerra, ed i talebani, siano finiti. Questo è un grave errore di lettura della situazione… "

E continua:  "I talebani hanno perso il potere, non la possibilità di combattere. Essi sono ben abituati alla guerriglia sulle montagne: lo hanno fatto in passato e possono continuare a farlo oggi. Se nel nord del paese combattevano in un territorio a loro poco conosciuto e ostile, nelle montagne e nei paesi delle zone pashtun sono a casa loro. Questo apre la prospettiva di una guerriglia prolungata che può andare avanti per anni."

Le ultime notizie dall’Afghanistan confermano la correttezza di quest’analisi. Dunque i “nuovi” problemi che gli americani si trovano ad affrontare oggi in Afghanistan si sommano a quelli, già ben noti, dell’Iraq. Tutto questo comincia ad avere un certo impatto sull’“opinione pubblica” in patria: negli Usa, oggi, la maggioranza delle persone sono contro la guerra e vorrebbero il ritiro delle truppe. Le vere ragioni per le quali si combatte in Afghanistan ed in Iraq sono sempre più chiare, a tutti, giorno dopo giorno. Questo conferma quanto Trotsky diceva a proposito degli USA quando vi faceva riferimento come “un gigante dai piedi d’argilla”. Quei piedi possono creparsi da un momento all’altro, svelando le contraddizioni di classe che si sono sviluppate a livello internazionale, ma anche all’interno degli Stati Uniti stessi.

31 maggio 2006