A settant’anni dal patto Molotov-Ribbentrop

Le commemorazioni organizzate in occasione del settantesimo anniversario dell’inizio della Seconda guerra mondiale hanno riaperto il dibattito sulle cause di un conflitto che ha messo l’Europa e tante altre parti del pianeta a ferro e fuoco per sei anni.

Stalin aveva ragione?

Com’era del tutto prevedibile, l’intellettualità liberal-democratica si è impegnata a fondo in una polemica veemente contro le gravi responsabilità dei due regimi totalitari che si accordarono, nel 1939, per la spartizione della Polonia e dell’Europa centro-settentrionale: la Germania di Hitler e l’Urss di Stalin. All’opinione pubblica sono state somministrate dosi massicce della minestra che gli storici revisionisti riscaldano ormai da anni: la pace sarebbe stata messa in discussione esclusivamente dagli appetiti delle due dittature in questione; sulla base di questa lettura delle vicende di allora, sarebbero stati il “bolscevismo” e il nazismo ad accordarsi per accendere la miccia di una guerra tanto sconvolgente, e la responsabilità delle democrazie occidentali sarebbe stata soltanto quella di aver esitato di fronte alle mosse convergenti dei due dittatori, accomunati – c’è bisogno di aggiungerlo? – da aspirazioni fondamentalmente condivise.

Uno degli intenti delle riflessioni che proponiamo ai nostri lettori è molto chiaro: cercare di chiarire l’assoluta strumentalità di questa lettura caricaturale del secondo conflitto mondiale. Anche altri ci hanno provato, ne siamo consapevoli: se ci riferiamo solo all’Italia, alcuni intellettuali legati alla tradizione del comunismo italiano del secondo dopoguerra hanno sollevato numerose eccezioni nei confronti della vulgata che ha riempito le pagine della stampa borghese più autorevole. Anche a voler riconoscere la generosità del tentativo, è necessario evidenziarne la clamorosa inconsistenza. Se già nei mesi successivi alla sottoscrizione del patto fra Molotov e Ribbentrop, le argomentazioni che gli stalinisti usavano per difenderlo apparivano fragilissime, il tentativo odierno di rispolverarle – per dimostrare che anche in quell’occasione Stalin dimostrò le sue capacità di «dirigente rivoluzionario» (1)– è semplicemente improponibile.

Non è rimasticando la propaganda del Comintern di allora che i comunisti possono pensare di contestare gli assunti della storiografia liberal-democratica: non è riproponendo il logoro dogma dell’infallibilità di Stalin che possiamo pensare di cavarcela nella polemica con i pensatori borghesi. Si tratta di una polemica assolutamente necessaria, che va condotta a testa alta: essa necessita, tuttavia, di argomentazioni all’altezza; dal nostro punto di vista, essa non può che fondarsi sulle analisi elaborate proprio allora dall’unico grande dirigente rivoluzionario proveniente dall’esperienza dell’Ottobre che era sopravvissuto (fino all’agosto del 1940) alle purghe di Stalin: sono proprio gli scritti di Trotskij sulla guerra che stava iniziando quelli da cui è necessario ripartire per capire veramente quel che è successo nei tormentati mesi del 1939.

A proposito di quegli scritti, lo storico Spriano ha parlato di «estrema lucidità»(2): quella lucidità rappresenta ancora oggi una risorsa imprescindibile per far fronte all’offensiva ideologica della classe dominante, interessata a demolire in ogni occasione – si tratti della più becera trasmissione televisiva o del più raffinato fra i dibattiti storiografici – l’immagine del comunismo e dei comunisti.

Alle origini della Seconda guerra mondiale

Vale la pena di partire dalle cause profonde che scatenarono l’esplosione del conflitto mondiale, se non altro per chiarire preliminarmente che esso iniziò con l’invasione della Polonia, ma che non fu da essa determinato. Lo sconvolgimento dei fragilissimi equilibri che si erano consolidati dopo la guerra conclusa nel 1918 datava quanto meno dal 1935, l’anno in cui Hitler ripristinò la coscrizione generale e decretò la costituzione di un esercito di 500 mila uomini: si trattava di decisioni che demolivano la basi del sistema internazionale di equilibri che era stato creato a Versailles, e che le democrazie occidentali avevano fondato sul drastico ridimensionamento della Germania. Fu il governo britannico il primo ad accettare come dati di fatto le violazioni tedesche del trattato di pace e a fondare su tale accettazione un accordo col governo nazista. D’altra parte, gli obiettivi della politica estera del nazismo erano noti a tutti, grazie alla rilevanza che avevano assunto in quel Mein Kampf che Hitler aveva fatto stampare a milioni di copie: la conquista dello “spazio vitale” passava per l’unificazione di tutte le popolazioni di lingua tedesca e per l’espansione della Germania verso est. Su questo i nazisti erano stati espliciti.

Di fronte all’aggressività dell’imperialismo tedesco, i britannici ritennero di dover reagire con una strategia di contenimento: lungi dall’intraprendere una battaglia per la salvaguardia della pace e della democrazia, la Gran Bretagna fece di tutto per orientare le pretese espansionistiche di Hitler contro l’Unione Sovietica, e tutelare in questo modo il proprio impero coloniale. Che alla democrazia britannica, come d’altra parte a quella francese, interessasse poco la polemica contro il rafforzamento del fascismo in Europa, risulta del tutto evidente anche dall’analisi della politica estera mussoliniana: se non si fosse sentito con le spalle coperte, il duce non avrebbe mai intrapreso la campagna militare in Africa orientale, scatenata sempre nel 1935. Egli sapeva che né la Francia né la Gran Bretagna avrebbero fatto alcunché di significativo per fermarlo, e le sanzioni approvate dalla Società delle Nazioni, infatti, furono sostanzialmente una finzione.

Nulla di significativo fu fatto nemmeno in occasione, l’anno successivo, dell’occupazione militare della Renania decisa da Hitler: la politica estera inglese di allora, infatti, si fondava sulla convinzione che alla Germania sarebbe stato sufficiente allargare verso est la propria libertà di manovra. Da questo punto di vista, la costruzione di linee fortificate in Renania avrebbe semplicemente consentito ai tedeschi di scatenare il proprio potenziale aggressivo dalla parte opposta dell’Europa. La decisione di Hitler, alla fine del 1936, di bandire una crociata antibolscevica grazie allo strumento del “patto anti-Comintern” (sottoscritto col Giappone), confermò i democratici occidentali del ruolo utilmente anti-comunista che la Germania avrebbe potuto avere.

La crociata anti-bolscevica era già iniziata, d’altra parte, nella Spagna dilaniata dalla guerra civile: il governo conservatore britannico accolse di buon grado la proposta francese del “non intervento”, sulla quale formalmente convennero pure Germania e Italia; le potenze fascista, tuttavia, supportarono significativamente Franco, inviando mezzi e uomini pronti a essere utilizzati nel conflitto col governo repubblicano. Gran Bretagna e Francia fecero finta di chiudere gli occhi sul supporto garantito da Hitler e Mussolini ai franchisti: la sconfitta del governo repubblicano sarebbe stata, agli occhi soprattutto dei conservatori britannici, un duro colpo assestato alla credibilità internazionale dell’Urss e del Comintern.

Che si consolidasse, in questo modo, la forza di Hitler sullo scacchiere internazionale, alle democrazie occidentali non sembrava interessare poi molto: l’avversario da battere rimaneva pur sempre l’Urss, e in questo senso la politica estera di Londra non si differenziava significativamente da quella di Berlino. Fu proprio questa la strategia perseguita dalle potenze democratiche: perseguire a tutti i costi una politica di compromesso con la Germania, pur di indebolire l’Unione Sovietica. Fu, in ultima analisi, l’illusione di poter arginare e orientare l’espansionismo tedesco a creare le condizioni migliori per il consolidamento progressivo della forza a disposizione di Hitler, che infatti nel 1937 chiarì i suoi nuovi obiettivi: l’Austria e la Cecoslovacchia.

Nella primavera del 1938 l’Austria venne annessa al terzo Reich senza colpo ferire; nemmeno in quest’occasione la Gran Bretagna mosse obiezioni significative: le concessioni erano determinate dalla convinzione che una Germania finalmente risarcita delle ingiustizie patite a Versailles avrebbe finalmente collaborato al consolidamento di un assetto europeo fondato sull’esigenza di sconfiggere il comunismo, e non avrebbe intralciato la politica coloniale delle altre potenze europee. Le iniziative diplomatiche di Inghilterra e Francia, lungi dal definirsi sulla base di richiami astratti ai valori della democrazia e della libertà, prendevano forma sulla base dei più tradizionali interessi imperialistici; in relazione a questi intrighi, Trotskij si espresse in termini di grande chiarezza:

Solo degli idioti possono pensare che gli antagonismi imperialistici mondiali siano determinati da una contrapposizione inconciliabile tra democrazia e fascismo. Di fatto, le cricche dirigenti di tutti i paesi considerano la democrazia, la dittatura militare, il fascismo ecc., come strumenti e metodi diversi per subordinare i loro popoli ai fini imperialistici. (L.Trotskij, Guerra e rivoluzione, Mondadori, Milano 1973, p.29)

Fu sulla base di calcoli di questo genere che inglesi e britannici si convinsero, poche settimane più tardi, dell’opportunità di accettare le conseguenze dell’offensiva tedesca contro la Cecoslovacchia: fu così che negli ultimi giorni di settembre, quando la guerra provocata dalle minacce di Hitler sembrava inevitabile, il governo inglese, supportato dal fascismo italiano, scelse di riaprire il confronto con la Germania. La conferenza di Monaco si concluse con il riconoscimento della legittimità di tutte le pretese avanzate dai nazisti: ai lavori parteciparono Inghilterra, Francia, Italia e Germania, e quest’ultima uscì dalla conferenza enormemente rafforzata, tanto che nei mesi successivi riuscì ad annientare definitivamente quel che era rimasto dello stato cecoslovacco e ad aprire il contenzioso con quello polacco.

Il britannico Chamberlain, alla testa di un esecutivo conservatore, era apparso – assieme a Mussolini – come il salvatore della pace in Europa: in realtà, la sua arrendevolezza di fronte alle rivendicazioni del nazismo aveva consentito all’espansionismo hitleriano di consolidarsi attraverso una serie clamorosa di affermazioni; il governo britannico aveva voluto evitare a tutti i costi il conflitto con la Germania per garantire l’unità europea nella crociata contro il bolscevismo: in questo modo creò le condizioni che consentirono a Hitler di scatenare, di lì a poco, la Seconda guerra mondiale. Furono proprio le potenze democratiche a permettere al dittatore tedesco di costruirsi la propria fortuna rafforzando il proprio esercito ed espandendo i confini del Reich: s’illusero che tanta potenza di fuoco sarebbe stata scagliata contro l’Urss. Le classi dominanti in Europa temevano la rivoluzione più di ogni altra cosa: di certo la temevano più di quanto temessero Hitler, che speravano di utilizzare come baluardo contro il bolscevismo.

La politica dell’Urss

Il crollo della Cecoslovacchia è il crollo della politica estera di Stalin nel corso degli utlimi cinque anni. L’“alleanza tra le democrazie”, idea lanciata da Mosca per lottare contro il fascismo, non è che una finzione priva di vita. Nessuno vuole combattere per la salvezza di un astratto principio di democrazia: tutti lottano per interessi materiali. L’Inghilterra e la Francia preferiscono soddisfare gli appetiti di Hitler a spese dell’Austria e della Cecoslovacchia, piuttosto che a spese delle loro colonie. (Ivi, p. 22)

Quest’analisi di Trotskij era spietata, e colpiva innanzitutto l’illusoria politica di avvicinamento alle democrazie europee con la quale Stalin aveva cercato di reagire, dopo il 1933, alla minaccia rappresentata dal nazismo. L’assurdo settarismo del Partito comunista tedesco, coerente con la linea estremista che Mosca aveva imposto a tutte le sezioni del Comintern nel 1928, aveva avuto un ruolo di rilevo nell’agevolare l’ascesa di Hitler al potere: nonostante il movimento operaio tedesco fosse all’inizio degli anni Trenta il più forte e organizzato dell’Europa intera, i gravi errori commessi dai comunisti, assieme all’irrimediabile opportunismo dei socialdemocratici, non consentirono che si consolidasse un fronte capace di fronteggiare l’avanzata delle camicie brune. Quando Hitler s’impossessò di tutti i poteri, per la burocrazia del Cremlino si aprì uno scenario da incubo: il dittatore tedesco aveva avuto modo di chiarire in più occasioni che il nazionalsocialismo avrebbe costruito i propri trionfi sull’annientamento delle forze del comunismo internazionale. Hitler presentava se stesso come colui che avrebbe salvato l’Europa dal bolscevismo: per l’Urss si spalancavano le prospettive della guerra.

A quel punto, Stalin impose all’Internazionale un brusco cambiamento di strategia: egli aveva bisogno di dimostrare all’Europa capitalista di non rappresentare un pericolo; in seno ai partiti comunisti, dopo anni di delirio estremista, si diffuse il mito dei fronti popolari che avrebbero dovuto salvare la democrazie dal fascismo; la rivoluzione comunista, che fino a qualche tempo prima era stata considerata imminente, smetteva improvvisamente di essere all’ordine del giorno: le sezioni del Comintern iniziavano a sventolare i vessilli della democrazia e del pacifismo, sottomettendosi in silenzio alle mutate esigenze della diplomazia sovietica. L’insistenza, infatti, con cui i partiti comunisti iniziarono a richiamarsi alla pace altro non era che il riflesso della preoccupazione nutrita dal Cremlino nei confronti dei piani aggressivi del nazionalsocialismo. L’obiettivo di Stalin era cambiato; per ridimensionare il pericolo rappresentato da Hitler, passavano in primo piano le indispensabili intese con le democrazie occidentali: le tanto deprecate (in precedenza) istituzioni liberal-democratiche andavano salvaguardate, mentre la prospettiva della dittatura del proletariato andava accantonata, per non preoccupare quelli che erano nel frattempo diventati i nuovi interlocutori del Cremlino.

La guerra civile spagnola divenne l’occasione per dimostrare alle democrazie occidentali la disponibilità dell’Urss a sacrificare la rivoluzione in nome dell’unità antifascista: la campagna feroce scatenata contro i rivoluzionari spagnoli, la brutalità con cui vennero perseguitati dai sicari al servizio di Mosca, era funzionale alla nuova strategia perseguita da Stalin, e finalizzata ad accreditarlo come interlocutore responsabile agli occhi dei governanti britannici e francesi. La stessa cautela con la quale l’Urss decise di supportare il governo repubblicano era determinata dall’esigenza di non favorire in alcun modo la formazione di un blocco anti-sovietico, cementato dal timore che in Spagna si potesse affermare uno schieramento egemonizzato dai comunisti. Stalin era terrorizzato dalla possibile alleanza delle potenze europee contro l’Urss: per questa ragione, la legittimazione democratica dei partiti comunisti andava perseguita come prioritaria, ed essa passava per il tradimento degli obiettivi rivoluzionari. Gli orientamenti del Comintern, pertanto, dovevano subordinarsi alle esigenze del Cremlino.

Fu, tuttavia, proprio la politica estera voluta da Stalin a mettere l’Unione Sovietica in grave pericolo: il tentativo di evitare a tutti i costi il conflitto con le potenze imperialiste europee provocò il tradimento della rivoluzione spagnola, e fu la sconfitta di quella rivoluzione, paradossalmente, a rendere inevitabile la guerra. I tentativi, infatti, di corteggiare la Gran Bretagna e la Francia fallirono miseramente, e l’affermazione del fascismo in Spagna convinse Hitler dell’opportunità di procedere a tappe forzate con i propri piani. Le parole di Trotskij sono, a questo proposito, estremamente efficaci:

Come era da prevedere, con queste basse manovre Stalin non ha ottenuto né amicizie né fiducia. Gli imperialisti non hanno l’abitudine di giudicare una società sulla base delle dichiarazioni del suo “capo” e del carattere delle sue strutture politiche, ma dalla sua base sociale. Sinchè l’Urss manterrà la proprietà statale dei mezzi di produzione, salvaguardando il monopolio del commercio estero, gli imperialisti, compresi gli imperialisti “democratici”, non nutriranno nei confronti di Stalin più fiducia e più rispetto di quanto l’Europa feudale e monarchica nutrisse per il primo Bonaparte (...) Avendo prostituito il Comintern e avendolo trasformato in un’agenzia dell’imperialismo “democratico”, avendo decapitato e paralizzato la forza militare dei soviet, Stalin ha dato definitivamente via libera a Hitler e ai suoi avversari, e ha spinto l’Europa alla guerra. (Ivi, p. 37.)

Il riferimento alla paralisi della forza militare sovietica merita di essere preso in seria considerazione: il tentativo, infatti, con il quale Stalin cercò di avvicinare – a partire dal 1934 – l’Urss alle democrazie occidentali fu accompagnato, all’interno dell’Unione Sovietica, dallo scatenamento di un repressione feroce contro qualsiasi forma di opposizione o di semplice dissidenza. L’abbandono della prospettiva della rivoluzione presupponeva l’annientamento, anche all’interno dell’Urss, dei rivoluzionari. Fra il 1934 e il 1935 furono epurati dal partito più di un milione di iscritti, ma il regime di terrore che venne instaurato raggiunse il culmine con le purghe del 1936-38, che eliminarono fisicamente tutta la vecchia guardia bolscevica: essa nel 1938 risultava completamente distrutta, e il solo Trotskij era riuscito a sopravvivere, in esilio ormai da anni.

A essere liquidata, tuttavia, non fu solo un’intera generazione di bolscevichi, ma anche lo stato maggiore dell’esercito: il vertice dell’Armata rossa, infatti, era ancora costituito da uomini che si erano fatti valere negli anni della guerra civile; essi avevano consentito il rafforzamento di un esercito che, prima delle purghe scatenate nel 1937, era secondo solo a quello tedesco; furono colpiti migliaia di ufficiali, colonnelli e generali: l’Armata rossa venne decapitata.

Tra l’11 e il 12 giugno [1937] l’Urss e il mondo furono informati con brevi comunicati che un gruppo dei più celebri comandanti rossi – Tuchacevskij, Uborevic, Jakir, Ejdeman, Kork, Fel’dman, Primakov e Putna – erano stati arrestati, giudicati colpevoli di tradimento e fucilati. Tutti erano stati eroi della guerra civile. Jakir e Uborevic comandavano i due distretti più importanti del paese, quello ucraino e quello bielorusso, presidi delle frontiere europee dell’Urss. (…) Il solo elenco dei capi più celebri che così scomparvero è troppo lungo per essere citato: i più noti perirono quasi tutti. Furono fucilati il capo di stato maggiore, maresciallo Egorov, il comandante della marina, Orlov, quello dell’aviazione, Alksins, quello dei servizi segreti, Berzin, quasi tutti i comandanti e quasi tutti i dirigenti politici dei distretti. (…) Si è calcolato che scomparvero tre dei cinque marescialli dell’Urss, tre dei quattro comandanti d’armata di primo rango, tutti e 12 i comandanti di corpo d’armata di secondo rango, 60 dei 67 comandanti di corpo d’armata, 133 dei 199 comandanti di divisione, 221 su397 comandanti di brigata, metà dei comandanti di reggimento, tutti i 10 primi ammiragli, 9 dei 15 secondi ammiragli, tutti i 17 commissari di armata, 25 su 28 commissari di corpo d’armata, 79 su 97 commissari di divisione, 34 su 36 commissari di brigata, e “molte migliaia” di altri ufficiali. Neppure una guerra ha mai provocato una simile decapitazione in un esercito. (Giuseppe Boffa, Storia dell’Unione Sovietica, Vol. 2, L’unità/Mondadori, Roma 1990, pagg. 258-259)

Nel 1938 dunque l’Armata rossa poteva dirsi completamente privata dei suoi quadri più valorosi ed esperti. Non fu affatto casuale che proprio in quell’anno la Germania potè accordarsi con l’Italia, l’Inghilterra e la Francia sul destino della Cecoslovacchia senza che le proteste dell’Urss venissero prese in considerazione; Trotskij commentò amaramente l’esito di quella vicenda:

Il terribile colpo sferrato alla posizione internazionale dell’Urss non è che una cambiale pagata per l’epurazione sanguinosa e prolungata che ha decapitato l’esercito, disorganizzato l’economia e messo a nudo la debolezza del regime staliniano. (Ivi, p. 23)

Quale fu la conclusione che trasse il rivoluzionario russo analizzando le conclusioni della conferenza di Monaco? «Dobbiamo ora sicuramente aspettarci un tentativo della diplomazia sovietica di riavvicinarsi a Hitler al prezzo di nuove ritirate e di nuove capitolazioni» (Ibid.). Nei mesi successivi, infatti, per l’ennesima volta il Cremlino riorientò bruscamente la propria politica estera: dopo l’umiliazione subita in merito alla questione cecoslovacca, nei discorsi di Stalin le democrazie occidentali ripresero a essere delle potenze imperialiste a tutti gli effetti, mentre il silenzio calava sulla funzione esercitata dai regimi fascisti. Se negli anni precedenti era apparsa conveniente la reticenza sulle gravi responsabilità dei governi britannico e francese, ora a Mosca si preferiva tacere sui misfatti di quei dittatori che, fino al 1938, erano stati denunciati come i principali nemici del movimento operaio internazionale. Nel marzo del 1939 Trotskij dimostrava di aver compreso che si stavano preparando le basi per l’accordo con la Germania nazista che sarebbe stato sottoscritto dopo qualche mese:

Nel suo discorso al congresso Stalin fa letteralmente a pezzi l’idea dell’“alleanza delle democrazie per resistere agli aggressori fascisti”. I provocatori di una guerra mondiale ora non sono né Mussolini né Hitler, ma le due principali democrazie europee, la Gran Bretagna e la Francia (...) Il fascismo? Non c’entra per nulla. Non esiste, secondo Stalin, il problema di un attacco di Hitler all’Ucraina e non c’è la benché minima base per un conflitto militare con Hitler. Per completare l’abbandono della politica dell’ “alleanza delle democrazie” striscia immediatamente, in maniera umiliante, di fronte a Hitler, e si affretta a pulirgli le scarpe. Questo è Stalin! (Ivi, p. 44.)

Il patto Ribbentrop – Molotov

La sfiducia nei confronti delle possibilità di collaborazione con le democrazie occidentali era evidentemente fondata: la firma, dopo Monaco, degli accordi di collaborazione e non aggressione anglo-tedesco e franco-tedesco aveva dimostrato che né a Londra né a Parigi c’era alcuna disponibilità a sfidare il nazismo in nome di un richiamo astratto alla salvaguardia della democrazia. Limitandosi a minacciare il ricorso alla forza, Hitler aveva dimostrato di poter ottenere da Chamberlain tutto quel che pretendeva; allo stesso modo, aveva convinto Mussolini dell’opportunità di siglare nel maggio il cosiddetto patto d’acciaio, che vincolava i due paesi al supporto reciproco nel caso di coinvolgimento in conflitti militari: si trattava delle settimane in cui la Germania aveva avviato la preparazione per l’invasione della Polonia.

La diplomazia sovietica avanzò un’ultima offerta di collaborazione a britannici e francesi nell’aprile, ma l’eventuale accordo, per questi ultimi, avrebbe dovuto servire a scaricare interamente sull’Urss il compito di fronteggiare l’aggressività tedesca: su quelle basi, evidentemente, l’intesa appariva ai sovietici impraticabile. Per questa ragione, all’inizio di maggio, il commissario agli esteri Litvinov, energico fautore delle trattative in corso per garantire la cosiddetta sicurezza collettiva, venne sostituito da Vjaceslav Molotov: al nuovo commissario venne affidato il compito di verificare la possibilità di un accordo con la Germania, con l’obiettivo di evitare a tutti i costi che dovesse essere l’Unione Sovietica a fronteggiare l’impegno della guerra che Hitler avrebbe scatenato. Stalin sapeva di non avere la forza per poter affrontare un impegno del genere: la brutalità delle purghe scatenate aveva piegato il paese, indebolendone gravemente le capacità di resistenza nel caso di un attacco militare. Trotskij lo spiegò a chiare lettere:

Se il Cremlino potesse contare sull’appoggio delle masse popolari e avesse fiducia nella potenza dell’Esercito rosso, potrebbe condurre una politica più indipendente nei confronti dei due schieramenti imperialisti contrapposti. Ma la realtà è diversa. L’isolamento in cui la burocrazia totalitaria si è trovata nel proprio paese l’ha gettata nelle braccia dell’imperialismo più vicino, più aggressivo, e quindi più pericoloso. (Ivi, pp. 115-116)

Quanti sostengono ancora oggi che il patto tedesco-sovietico dell’agosto abbia rappresentato una necessità imposta dalle circostanze, dovrebbero pure darsi da fare per spiegare le ragioni che precipitarono l’Urss in tale stato di necessità; non basta sostenere – come fa Alessandro Höbel – che «l’Urss fu costretta all’accordo per rinviare l’evento e guadagnare tempo» (3). Quali le ragioni di tale costrizione? Esse hanno a che fare con lo stato di grave disorganizzazione in cui versavano l’economia sovietica e l’esercito, a seguito del terrore di massa che era stato scatenato negli anni precedenti. Ogni reticenza su questi aspetti rende i tentativi di spiegazione assolutamente inefficaci. Che efficacia può avere, infatti, una rilettura di quelle vicende che lascia da parte alcune delle questioni decisive?

Alberto Burgio ha scritto, per esempio: «Fu lo “scellerato patto” Ribbentrop-Molotov a permettere all’Unione Sovietica di dotarsi della potenza militare che le consentì di rompere l’assedio di Stalingrado» (4). E negli anni precedenti chi aveva impedito all’Urss di procedere in quella direzione? Cos’era successo, in quel paese, di tanto grave dall’aver ostacolato il consolidamento di un sistema di difesa militare all’altezza delle minacce che il Mein Kampf aveva esplicitato tanti anni prima? Aspetteremmo inutilmente risposte a queste domande dagli intellettuali che non riescono a liberarsi della fascinazione che su di loro continua a esercitare la figura di Stalin. Preferiamo procedere con l’analisi di quel che allora scrisse il suo avversario più fiero:

Stalin non può fare la guerra mentre gli operai e i contadini sono malcontenti e l’Esercito rosso è stato decapitato. Lo ho affermato a più riprese negli ultimi anni e lo ribadisco ora. Il patto tedesco-sovietico è una capitolazione di Stalin dinanzi all’imperialismo fascista allo scopo di preservare l’oligarchia sovietica. In tutte le mascherate pacifiste organizzate dal Cremlino Hitler è stato sempre presentato come il più pericoloso, se non unico, aggressore: la Polonia, invece, assumeva la parte di un agnellino innocente. Oggi, che Hitler è passato dalle parole ai fatti e ha sferrato il suo attacco contro la Polonia, anche Mosca è passata ai fatti e... ha aiutato Hitler. Ecco la realtà. Non è possibile eluderla con putridi sofismi. (L. Trotskij, Guerra e rivoluzione cit., p. 70.)

Le trattative fra tedeschi e sovietici si erano svolte a partire dai primi giorni di agosto: Hitler aveva sollecitato una conclusione rapida degli accordi, in considerazione del fatto che era già stato fissato il giorno dell’attacco alla Polonia: il primo settembre. Il 15 agosto il commissario agli esteri sovietico aveva presentato ai propri interlocutori una serie di proposte sulla base delle quali concludere un patto di non aggressione: esso venne sottoscritto da Ribbentrop e Molotov solo otto giorni dopo, il 23 agosto, non senza che Stalin avesse partecipato personalmente alle trattative. Il patto aveva una validità decennale, e vincolava i due paesi a non attaccarsi reciprocamente: esso definiva pure l’impegno per una consultazione costante relativa alle questioni di comune interesse.

Il 24 agosto il testo del patto venne pubblicato dalla Pravda, a differenza del protocollo aggiuntivo firmato dai due paesi, che rimase a lungo segreto: nel protocollo aggiuntivo era contenuto l’accordo relativo alla «delimitazione delle sfere di interessi reciproci in Europa orientale». In vista degli imminenti mutamenti territoriali provocati dall’iniziativa tedesca, tale spartizione collocava l’Estonia, la Lettonia, la Finlandia, la Polonia orientale e la Bessarabia nell’orbita d’influenza sovietica.

Grazie a quest’intesa, se l’Urss si assicurava il controllo dei paesi baltici e di altri territori d’importanza strategica rilevante, Hitler si assicurava il via libera per attaccare la Polonia: poteva contare, infatti, sulla certezza che Stalin non si sarebbe unito alla Gran Bretagna e alla Francia, le quali avevano promesso il proprio sostegno al paese che stava per essere aggredito dalla Germania. La soddisfazione reciproca venne festeggiata amichevolmente da quanti avevano partecipato alle trattative; «Stalin brinda addirittura con champagne alla salute di Hitler, proclamando: “So quanto la nazione tedesca ami il suo Führer. E’ un bravo ragazzo. Per questo desidero bere alla sua salute”» (A. Peregalli, Il patto Hitler-Stalin e la spartizione della Polonia, Erre Emme, Roma 1989, p. 15) La notizia della sottoscrizione del patto colpì l’opinione pubblica internazionale e i commentatori; non sorprese, invece, Trotskij:

Stalin non ha mai avuto la minima fiducia nelle masse, ora ne ha paura. La sua alleanza con Hitler, che ha sorpreso quasi tutti, era la conseguenza inevitabile della paura della guerra. Era possibile prevedere questa alleanza, ma i diplomatici avrebbero dovuto cambiare tempestivamente i loro occhiali. L’alleanza è stata prevista, in particolare dall’autore di queste righe. Ma i signori diplomatici, che sono semplici mortali, preferiscono le previsioni verosimili alle previsioni giuste (...) Per il Cremlino il problema non è di trovare alleati con cui vincere la guerra, bensì evitare la guerra. Questo è stato lo scopo di Stalin dopo la vittoria dei nazisti. (L. Trotskij, Guerra e rivoluzione cit., p. 57).

Le conseguenze del patto

Stalin procedette nella direzione dell’accordo con Hitler sulla base di una solida certezza: la Germania era il più potente fra i possibili nemici dell’Urss, e proprio dalla Germania veniva il pericolo dello scatenamento di una guerra di grandi dimensioni. I vantaggi immediati di un accordo del genere non erano contestabili: dopo aver risolto, infatti, la questione polacca, il Reich avrebbe scatenato la sua offensiva verso occidente, liberando Mosca dalla preoccupazione di dover far fronte in tempi rapidi all’urto delle truppe tedesche. In questo modo Stalin poteva occuparsi del proprio fronte orientale, e del pericolo rappresentato dal Giappone, senza l’assillo della minaccia rappresentata dall’aggressività nazista. Ma le garanzie che Mosca si era procurata grazie al patto, avrebbero rappresentato una barriera permanente all’espansione verso est teorizzata da Hitler? Trotskij chiarì che sarebbe stato assurdo crederlo:

La spinta verso Oriente implica una guerra di grandi dimensioni tra la Germania e l’Urss. Quando giungerà il momento per una simile guerra, la questione del meridiano da cui prenderà l’avvio la battaglia avrà una importanza secondaria.

Il panico che paralizzò Stalin nel giugno del 1941, quando scattò l’operazione Barbarossa contro l’Urss, è stato considerato il segnale inequivocabile dell’incapacità del leader di origini georgiane di prevedere il corso delle operazioni militari tedesche; sta di fatto che, pur di riuscire a schierare le proprie truppe sulla linea che divideva la Polonia lungo il corso dei fiumi Narew, Vistola e San, e pur di impossessarsi dei territori baltici e della Bessarabia, Stalin fece di tutto per agevolare una chiusura rapida delle negoziazioni con il nuovo alleato. Ottenuta la neutralità dell’Urss, la Germania, pochi giorni dopo la sottoscrizione del patto, potè procedere con l’invasione della Polonia: era l’inizio della Seconda guerra mondiale.

Le cause principali della guerra devono essere individuate nelle contraddizioni che l’imperialismo mondiale non si era dimostrato in grado di superare: è chiaro, tuttavia, che l’elemento determinante che consentì a Hitler di iniziare le proprie operazioni militari fu la conclusione del patto con Stalin. Nei primi giorni di settembre l’avanzata delle truppe tedesche fu impetuosa, e costrinse i sovietici a rivedere la tempistica del proprio intervento in Polonia: dopo numerosi contatti fra i diplomatici dei due paesi, il 17 settembre l’Armata rossa sfondò la frontiera polacca, costringendo l’esercito polacco a combattere su due fronti. Gli stati maggiori tedesco e sovietico in quelle settimane collaborarono costantemente, e l’intervento sovietico si configurò a tutti gli effetti come il completamento dell’aggressione tedesca, con buona pace di quanti si ostinano ancora oggi a sostenere che i sovietici intervennero sul suolo polacco per tenere i tedeschi alla larga dai propri confini (5).

L’inevitabile disfatta, arrivata dopo due ulteriori settimane di resistenza, costò ai polacchi quasi 70 mila morti e circa 200 mila feriti; la vittoria venne celebrata congiuntamente da tedeschi e sovietici a Brest-Litovsk, con tanto di sfilata comune dei carriarmati. Stalin, per giustificare l’occupazione del territorio polacco, diede prova del suo consueto cinismo, e sostenne che l’intervento si era reso necessario per salvaguardare le popolazioni ucraine e bielorussa dalla repressione del governo di Varsavia. In quei giorni, i commenti di Trotskij sulle mosse del Cremlino furono estremamente duri:

Oggi, il Cremlino giustifica il suo intervento in Polonia con un’improvvisa sollecitudine per l’“emancipazione” e l’“unificazione” della nazioni ucraina e russa bianca. In realtà, l’Ucraina Sovietica è schiacciata dalla morsa della burocrazia di Mosca più di qualsiasi altra regione dell’Unione Sovietica. L’aspirazione dei diversi strati del popolo ucraino all’unità e all’indipendenza è del tutto legittima e molto viva. Ma questa aspirazione è diretta anche contro il Cremlino. Se l’obiettivo dell’intervento sarà raggiunto, gli Ucraini saranno “unificati” non nella libertà nazionale, ma nell’asservimento alla burocrazia. Per di più, non ci sarà una sola persona onesta ad approvare l’“emancipazione” di otto milioni di Ucraini e Russi bianchi al prezzo dell’asservimento di ventitre milioni di Polacchi! (L. Trotskij, Guerra e rivoluzione cit., p. 81.)

I festeggiamenti per il buon esito delle operazioni militari avvennero nella città presso la quale era stata firmata la pace fra la Russia rivoluzionaria e la Germania nel 1918: non mancarono coloro che cercarono immediatamente di tracciare un’analogia fra la politica estera dei bolscevichi e quella della cricca staliniana al potere nel 1939. Si trattava di un’analogia completamente infondata, in considerazione di alcune diversità di fondo sulle quali è il caso di soffermarsi. Innanzitutto i bolscevichi furono di fatto costretti a firmare la pace, che, infatti, venne definita da Trotskij «la capitolazione di una rivoluzione disarmata di fronte a un temibile saccheggiatore» (Ivi, p. 59.): i tedeschi stavano avanzando in territorio russo e le truppe che avrebbero dovuto fronteggiarli non erano più disposte a combattere. Questa disparità di forze costrinse i bolscevichi ad accettare perdite territoriali significative: grazie al patto del 1939, al contrario, Mosca – capace di muovere un esercito di milioni di soldati – potè assicurarsi un allargamento delle proprie frontiere.

I negoziati del 1918, inoltre, furono condotti dai bolscevichi senza che alcun passaggio delle trattative venisse tenuto segreto: i protocolli conclusivi vennero interamente pubblicati, a conferma dell’intenzione di Lenin di non nascondere nulla di un accordo che si configurava come una vera e propria resa; esso, infatti, non si configurava come un’alleanza con la potenza germanica, e non implicava intese di ordine commerciale, che invece vennero stipulate con la Germania di Hitler. Quest’aspetto fu adeguatamente sottolineato da Trotskij:

Nell’ultima guerra causa principale della sconfitta della Germania fu la mancanza di materie prime e di rifornimenti. Nella guerra attuale, Hitler conta con certezza sulle materie prime dell’Urss. Non è un caso che la conclusione del patto politico è stata preceduta dalla conclusione di un trattato commerciale. Mosca non ha nessuna intenzione di rinunciarvi (...) Il patto di non aggressione, che implica un atteggiamento di passività verso l’aggressione tedesca, è così completato da un trattato di collaborazione economica che favorisce l’aggressione stessa. Il patto assicura a Hitler la possibilità di utilizzare le materie prime sovietiche proprio come l’Italia ha utilizzato il petrolio sovietico in occasione dell’invasione dell’Abissinia. (Ivi, p. 63.)

Lenin si guardò bene, nel 1918, dal promettere la disponibilità di materie prime con le quali la Germania potesse proseguire la guerra contro Francia, Inghilterra e Italia! Grazie all’accordo con Stalin, invece, Hitler si garantì un approvvigionamento di risorse indispensabili per pianificare le campagne militari che il Reich stava iniziando ad affrontare. In questo modo, gli effetti del blocco economico occidentale vennero significativamente ridimensionati, come riconobbe chiaramente il capo delle operazioni navali tedesche nell’ottobre del 1939: «L’aiuto economico russo è di importanza decisiva per noi. L’offerta è stata fatta in forma talmente generosa che il successo del blocco economico appare impossibile» (Citato in A. Peregalli, Il patto Hitler-Stalin cit., p. 75). Le derrate alimentari e il petrolio sovietici avrebbero dovuto essere scambiati con armamenti, ma al momento dell’invasione tedesca dell’Urss, Mosca era in credito con Berlino di più di 200 milioni di marchi, a dimostrazione di quanto tali accordi non si siano nemmeno rivelati vantaggiosi dal punto di vista economico.

In linea di principio, sarebbe stato assurdo negare all’Urss il diritto di manovrare fra le diverse potenze capitaliste per salvaguardare i propri interessi, ma la politica di Stalin fu un’altra cosa: egli tradì tutti i più elementari principi della politica estera che era stata inaugurata da Lenin, e rimase per quasi due anni al traino dell’iniziativa tedesca; la subordinazione di Mosca alla strategia di Berlino fu ben sintetizzata da Trotskij:

Stalin ha una funzione subordinata: si adatta, si aggrappa e non va al di là dei limiti di quello che deve fare, se non vuole rompere con Hitler. La politica di quest’ultimo riveste un carattere offensivo e su scala mondiale. Quella di Stalin ha un carattere difensivo e su scala settoriale. Hitler vuol far scoppiare l’impero britannico e preparare una base militare per incrociare le armi con gli Stati Uniti. Stalin lo sostiene per distogliere il braccio di Hitler dall’Oriente (...) Di qui la fretta di Stalin nell’aiutare Hitler a ottenere dalla Francia e dall’Inghilterra una capitolazione senza combattere. Certo, la firma della pace sul fronte occidentale lascerebbe a Hitler le mani libere contro l’Urss. Se, tuttavia, Stalin si è associato all’“offensiva di pace” di Hitler, è perché svolge una politica “congiunturale”: Stalin è un tattico, non uno stratega. (L. Trotskij, Guerra e rivoluzione cit., pp. 94-95.)

Non fu la pace sul fronte occidentale a lasciare a Hitler le mani libere, fu la sconfitta rovinosa della Francia: la conseguenza, comunque, fu l’attacco scatenato nel 1941 contro l’Urss. Nonostante esso fosse del tutto prevedibile, il Cremlino fu colto dal panico al momento dello scatenamento dell’offensiva: Stalin non riuscì a credere che Hitler potesse comportarsi in quel modo con un proprio fedele intendente...

Il Comintern di fronte al patto

Nel 1939 il Comintern non aveva più niente a che fare con la formidabile organizzazione internazionale che era stata messa in piedi nel 1919 dai bolscevichi per centralizzare l’impegno dei rivoluzionari dei vari paesi; esso si era trasformato nell’agenzia per la tutela degli interessi del Cremlino all’estero, e non era più in grado di esprimere alcuna autonomia di elaborazione: dipendeva in tutto e per tutto dai desiderata di Mosca. Ciò nonostante, le sue sezioni furono scosse dalla clamorosa novità rappresentata dal patto: il cambio di rotta era stato talmente deciso da far vacillare persino alcuni dei dirigenti tradizionalmente più pronti a disciplinarsi ai diktat della cricca staliniana. Ci vollero alcune settimane prima che la linea politica dei partiti comunisti venisse completamente capovolta.

Le organizzazioni ancora collocate, infatti, sulla linea dei fronti popolari fecero fatica a digerire il rapido avvicinamento di Mosca a Berlino, e l’abbandono di tutto il vecchio armamentario propagandistico: la democrazia aveva smesso di rappresentare un sistema per il quale valeva la pena di battersi in funzione anti-fascista, per diventare improvvisamente una maschera con la quale le principali potenze imperialiste nascondevano la propria intenzione di mettere in discussione la pace e gli equilibri internazionali. Soprattutto a seguito degli accordi del settembre, che avevano sancito l’amicizia dell’Urss con il Reich, il nazismo smise di essere il peggior avversario del movimento operaio internazionale; a essere apostrofati in quei termini furono di nuovo i dirigenti delle socialdemocrazie, che ridiventarono – come prima del 1934 - «i più perfidi nemici della classe operaia e del socialismo» (A. Peregalli, Il patto Hitler-Stalin cit., p. 95).. Come ha scritto Aldo Agosti, sulla stampa del Comintern «fu messa la sordina alla propaganda antifascista e scomparve qualsiasi accenno ostile alla Germania» (A. Agosti, Bandiere rosse. Un profilo storico dei comunismi europei, Editori Riuniti, Roma 1999, p. 121).

Ai partiti comunisti Mosca dava un’unica indicazione per la battaglia politica: la lotta per la pace; le masse avrebbero dovuto essere chiamate a mobilitarsi per far cessare la guerra, che era stata scatenata da Francia e Inghilterra, ridiventate i pilastri del sistema imperialistico mondiale. Non una parola, naturalmente, sulle responsabilità del nazismo: le forze del movimento operaio internazionale avrebbero dovuto concentrarsi innanzitutto nella lotta contro l’imperialismo britannico. Effettivamente, dopo qualche esitazione iniziale, i partiti comunisti iniziarono ad attaccare diligentemente le potenze imperialiste “democratiche”(6): in quel contesto, la campagna degli stalinisti per la pace si riduceva nei fatti all’impegno per una pace alle condizioni di Hitler. Trotskij evidenziò il carattere paradossale di questa svolta:

Sino alla fine di agosto il Comintern ha rivendicato la liberazione dell’Austria, della Cecoslovacchia, dell’Albania, dell’Abissinia, e ha taciuto sulle colonie britanniche. Oggi il Comintern tace sulla Cecoslovacchia, appoggia la spartizione della Polonia, mentre esige la liberazione dell’India. La Pravda se la prende con la soppressione di certe libertà nel Canada, ma tace sulle sanguinose esecuzioni dei Cechi e sulle torture inflitte da Hitler agli Ebrei polacchi. Tutto ciò significa che il Cremlino conserva la più alta considerazione per la potenza della Germania. (L. Trotskij, Guerra e rivoluzione cit., p. 109).

Lo storico Paolo Spriano ha parlato, senza mezzi termini, di una linea che si configurava «come copertura dell’amicizia verso i nazisti» (P.Spriano, I comunisti europei, p.111). Il commissario Molotov si spinse a dire che senza una Germania forte non ci sarebbe stata una pace durevole in Europa, ma soprattutto giunse a spiegare che non avrebbe avuto senso usare la forza contro il regime hitleriano: «L’ideologia hitleriana, come ogni altra ideologia, può venire accettata o respinta: questo è un problema che riguarda le idee politiche personali» (Ivi, p. 110). Questa sorta di relativismo non può che suonare paradossale, eppure Mosca si collocò stabilmente, per quasi due anni, su una posizione di benevola neutralità verso il nazismo; l’attenzione a non urtare la suscettibilità degli alti dignitari del Reich spinse gli stalinisti fino all’assurdo di cancellar dal proprio vocabolario ogni richiamo alla parola fascismo, che sparì letteralmente dalla propaganda di un Comintern sempre più supino di fronte ai voleri del Cremlino. Trotskij non poteva tacere:

La politica del Cremlino è semplice: ha venduto a Hitler il Komintern assieme al petrolio e al manganese. Ma la servilità canina con cui costoro si sono venduti è una testimonianza inconfutabile della corruzione interna del Komintern. Agli agenti del Komintern non sono rimasti né i principi, né l’onore, né la coscienza: è rimasta solo una spina dorsale flessibile. (L. Trotskij, Guerra e rivoluzione cit., p. 182).

La capitolazione di fronte a Hitler, tuttavia, raggiunse il suo apice più «infame» (7) nel febbraio del 1940, quando Stalin decise di consegnare ai tedeschi 570 comunisti e antifascisti tedeschi e austriaci che erano emigrati nell’Urss per sfuggire alle persecuzioni che erano state scatenate contro gli oppositori nei loro paesi di provenienza; essi furono affidati alle SS tedesche a Brest-Litovsk, lungo la linea di demarcazione fra i territori controllati dai due paesi alleati: «l’impossibile diventava reale – ha scritto una sopravvissuta – Stalin consegnava gli esuli comunisti a Hitler» (P. Spriano, I comunisti europei cit., p. 116). Si trattava di un segno inequivocabile di fedeltà da parte delle autorità sovietiche al nuovo patto fra i due paesi che era stato sottoscritto il 28 settembre del 1939. Il trattato in questione aveva regolato la suddivisione definitiva del territorio polacco: esso comprendeva pure una clausola relativa all’impegno relativo alla repressione di ogni attività di agitazione contro l’occupazione che si sarebbe svolta nei territori spartiti. La collaborazione fra i due paesi si svolgeva, ormai, a tutti i livelli.

Ai partiti comunisti venne affidato il compito di coprire questa collaborazione con la retorica della lotta per la pace; i compiti affidati alle sezioni del Comintern venivano letteralmente stravolti: i comunisti tedeschi non avrebbero più dovuto battersi per rovesciare il nazismo, mentre quelli austriaci e quelli cecoslovacchi avrebbero dovuto rinunciare alla lotta contro l’occupazione; la parola d’ordine che i comunisti francesi, con il paese occupato dai nazisti, agitarono nella loro propaganda fu «pace subito», e i comunisti norvegesi non esitarono a schierarsi contro ogni tentativo di organizzare la resistenza nei confronti degli invasori tedeschi. Come ha chiarito Aldo Agosti, i partiti comunisti vennero ridotti al ruolo «di semplici pedine di un sottile doppio gioco le cui fila venivano tirate altrove» (A. Agosti, La Terza internazionale cit., p. 1171); nei paesi occupati dai tedeschi, gli stalinisti non evitarono nemmeno di chiedere alle autorità insediate il diritto di continuare la propria attività in forma legale: imploravano i nazisti affinché la loro propaganda pacifista potesse continuare! Trotskij denunciò il grave disorientamento in cui furono gettati i migliori attivisti del movimento comunista internazionale:

La confusione che gli zig-zag del Cremlino provocano nella coscienza degli operai è una delle più importanti premesse delle vittorie fasciste. Bisogna compenetrarsi per un istante della psicologia di un operaio rivoluzionario tedesco, che lotta nella illegalità contro il nazionalsocialismo rischiando la vota e si accorge d’improvviso che il Cremlino, con enormi risorse a sua disposizione, non solo non combatte Hitler, ma, al contrario, conclude con lui un affare vantaggioso sul piano della rapina internazionale. Questo operaio non ha forse il diritto di sputare in faccia ai suoi maestri di ieri? (L. Trotskij, Guerra e rivoluzione cit., p. 71.).

Le inutili manovre del Cremlino

Subito dopo la definizione dei nuovi accordi relativi alla spartizione dei territori polacchi, l’Urss decise di procedere alla soluzione di tutti i problemi aperti con i paesi baltici, che in virtù dell’intesa con Hitler erano finiti nella sfera d’influenza sovietica. Dopo essersi assicurato pure il controllo della Lituania, Stalin decise di affrontare la questione finlandese: propose al governo di Helsinki di accettare una sorta di protettorato sovietico, e di fronte al rifiuto finlandese optò per un attacco militare, che iniziò alla fine di novembre; le operazioni, tuttavia, si dimostrarono meno semplici del previsto, e la guerra si prolungò per tre mesi: l’armata sovietica fu costretta ad affrontare una fiera resistenza da parte del paese aggredito; tale resistenza mise in luce l’impreparazione militare di un esercito ancora provato dalla durezza delle purghe scatenate dal regime staliniano.

Hitler non fece nulla, nonostante gli interessi tedeschi in Scandinavia, per impedire all’Urss di attaccare la Finlandia: al contrario, osservò scrupolosamente gli accordi precedentemente pattuiti sulle sfere d’influenza e fece di tutto per impedire che a Helsinki potessero giungere aiuti militari; a buon diritto Stalin poteva, il 25 dicembre, sostenere che l’amicizia fra l’Urss e la Germania era «suggellata dal sangue» (citato in A. Peregalli, Il patto Hitler-Stalin cit., p. 42). Ciò che interessava a Hitler era di poter continuare a contare sull’aiuto economico che Mosca stava garantendo, e nessun attrito diplomatico avrebbe dovuto mettere in discussione la collaborazione in corso, la quale ridimensionava di parecchio l’efficacia del blocco commerciale deciso contro la Germania dalle potenze occidentali. La resistenza dei finlandesi, tuttavia, mise a nudo le difficoltà dell’Urss: nel corso di undici settimane le sconfitte subite dall’Armata rossa furono parecchie; esse riflettevano le difficoltà più generali del paese, in particolare i problemi dell’industria. Il giudizio di Trotskij fu spietato:

La “passeggiata militare” progettata in Finlandia si è trasformata in una spietata condanna di tutti gli aspetti del regime totalitario. Ha messo completamente in luce la bancarotta del comando e l’insufficienza dello stato maggiore, prescelto per il suo servilismo più che per le sue qualità e le sue conoscenze. Nello stesso tempo, la guerra ha fatto emergere carenze estreme nei diversi settori dell’industria sovietica, in particolare la penosa situazione dei trasporti e dei vari tipi di rifornimenti militari, soprattutto per quanto riguarda il vitto e il vestiario. Il Cremlino ha costruito non senza successo carri armati e aerei, ma ha trascurato i servizi sanitari, i guanti e gli stivali. (L. Trotskij, Guerra e rivoluzione cit., pp. 121-122)

Dopo circa tre mesi di combattimenti, l’esercito sovietico riuscì ad aver ragione della Finlandia: il prestigio dell’Urss, tuttavia, era stata gravemente messo in discussione; Mosca era riuscita ad assicurarsi il controllo delle coste del Baltico, ma il prezzo da pagare era stato altissimo, soprattutto in termini di credibilità internazionale. Grazie alla guerra finno-sovietica, oltretutto, Hitler riuscì a vincolare ulteriormente Stalin alle intese sottoscritte: infatti, solo un mese più tardi (nell’aprile), i nazisti invasero la Danimarca e la Norvegia, e a maggio avvenne lo sfondamento sul fronte occidentale; Mosca reagì alle offensive tedesche con lo stesso contegno con il quale Berlino aveva accettato l’aggressione sovietica alla Finlandia. Rassicurato dall’atteggiamento di Stalin, Hitler potè schierare in maggio contro la Francia quasi tutte le divisioni dell’esercito del Reich.

Quando, il 18 giugno, la Francia sconfitta chiese alla Germania l’armistizio, Molotov espresse all’ambasciatore tedesco «le più calorose congratulazioni del governo sovietico per gli splendidi successi degli eserciti tedeschi» (citato in A. Peregalli, Il patto Hitler-Stalin cit., p. 49). Nelle settimane precedenti la cricca del Cremlino si era illusa di essere al riparo dal divampare del conflitto e di poter assistere da lontano alla guerra della Germania contro la Francia e l’Inghilterra; si trattava, tuttavia, di una colpevole illusione: la facilità, infatti, con la quale i nazisti avevano sbaragliato l’esercito francese, gettava una luce sinistra sulle prospettive di un ulteriore allargamento del conflitto, tanto più che Hitler era perfettamente consapevole della debolezza militare palesata dall’Urss in Finlandia. Nel giorno precedente alla resa francese, Trotskij aveva scritto:

Nessuno ha fornito a Hitler l’aiuto che gli ha fornito Stalin. Nessuno ha contribuito più di Stalin a creare una situazione così pericolosa per l’Urss (...) Nonostante le conquiste territoriali del Cremlino, la posizione internazionale dell’Urss è estremamente peggiorata. Il cuscinetto polacco è scomparso. Domani scomparirà il cuscinetto rumeno. La potente Germania, padrona dell’Europa, dispone di una frontiera comune con l’Urss. In Scandinavia, la Germania occupa il posto di paesi deboli e soprattutto disarmati. Le sue vittorie a Occidente costituiscono la preparazione di un gigantesco movimento verso Oriente. Nella sua offensiva contro la Finlandia, l’Esercito rosso, decapitato e demoralizzato ancora una volta da Stalin, ha rivelato la propria debolezza agli occhi del mondo intero. Nella sua prossima marcia contro l’Urss, Hitler otterrà l’appoggio del Giappone. Gli agenti del Cremlino ricominceranno a parlare di alleanza delle democrazie contro gli aggressori fascisti. E’ possibile che Stalin, imbroglione imbrogliato, sia costretto a un altro voltafaccia nella sua politica estera. Ma guai ai popoli che avranno di nuovo fiducia nei disonesti agenti del Cremlino! (L. Trotskij, Guerra e rivoluzione cit., pp. 211-212).

Già nel settembre del 1939 Trotskij aveva previsto che un Hitler vittorioso sul fronte occidentale non avrebbe che potuto volgere i proprio cannoni contro l’Urss (8): d’altra parte, il segretario del Comintern Dimitrov aveva delineato già dopo la conferenza di Monaco il programma possibile delle conquiste programmate da Hitler; grazie ai servizi segreti sovietici, infatti, a Mosca era stata fatta chiarezza sulle intenzioni dei nazisti: prima la Polonia, poi la Jugoslavia, la Bulgaria, la Francia, il Belgio, e infine l’Unione Sovietica, che avrebbe dovuto essere attaccata entro gli ultimi mesi del 1941.

Lo sviluppo degli avvenimenti non aveva ricalcato alla lettera la previsione, ma non avrebbero dovuto esserci dubbi sul fatto che l’Urss sarebbe rimasta nel mirino di Hitler; il dittatore tedesco, infatti, alla fine del luglio del 1940 annunciò ai propri generali l’intenzione di procedere con l’invasione dell’Unione Sovietica nella primavera dell’anno successivo. Proprio nell’estate del 1940, d’altra parte, si era creata una situazione di tensione diplomatica fra i due paesi per il controllo dell’Europa sud-orientale: l’oggetto della contesa era la Romania, in particolare il petrolio che si produceva in quel paese. Ciò nonostante, all’inizio di agosto Molotov non perse l’occasione di sottolineare che alla base dell’accordo fra i due paesi non c’erano «delle considerazioni casuali di carattere transitorio, ma i fondamentali interessi statali sia dell’Urss che della Germania» (citato in A. Peregalli, Il patto Hitler-Stalin cit., p. 55).

Fu questo il motivo ricorrente delle prese di posizione del Cremlino nei mesi successivi, anche a seguito della firma, da parte della Germania, del cosiddetto Patto tripartito con il Giappone e l’Italia: ottenute le garanzie formali che esso non era rivolto contro l’Urss, i sovietici proseguirono gli incontri con i diplomatici tedeschi per procedere nelle trattative riguardanti gli Stretti, il Golfo persico, i Balcani e il Mar Baltico. Esse non produssero risultati, e Hitler emanò nel dicembre la circolare con cui annunciava ai suoi collaboratori la decisione definitiva di invadere l’Urss nel maggio successivo; il 6 aprile 1941 ci fu la dimostrazione che a Berlino non c’era alcuna disponibilità a concedere qualcosa a Mosca: l’esercito del Reich attaccò la Jugoslavia e la Grecia, che vennero sconfitte nelle settimane successive.

La cricca del Cremlino non poteva che preoccuparsi per lo sviluppo degli eventi, ma quale fu l’atteggiamento con il quale Stalin pensò di reagire? All’inizio di maggio fece espellere da Mosca i diplomatici di Belgio, Norvegia, Grecia e Jugoslavia, con la motivazione che, in seguito all’occupazione tedesca, i governi dei loro paesi non esistevano più. All’ostilità sempre più evidente dei nazisti, Stalin reagiva con manifestazioni di incondizionato lealismo: egli, inoltre, si dichiarò «pronto a fare nuove concessioni» (Ivi, p. 63); sul terreno degli accordi economici, infatti, fece in modo che venisse intensificata la consegna delle forniture di merci prevista dalle intese sottoscritte. Nelle settimane precedenti, paradossalmente, il Cremlino aveva potuto raccogliere segnali numerosi delle intenzioni di Hitler: lo stesso Churchill, primo ministro britannico dal maggio del 1940, aveva ripetutamente avvertito Stalin dei preparativi con i quali l’esercito tedesco si stava attrezzando per l’attacco all’Urss. Egli, tuttavia, si rifiutò di fare i conti con il pericolo ormai incombente, come ebbe modo di scrivere Kruscev nel 1956:

Stalin non tenne conto di questi avvertimenti. Non solo, ma ordinò che non si accordasse alcun credito a informazioni di questo genere, per non provocare l’inizio di operazioni militari. Va precisato che tali informazioni riguardanti la minaccia di un’invasione armata del territorio sovietico da parte tedesca venivano anche dalle nostre fonti diplomatiche e militari; senonchè, dato che il capo supremo era prevenuto contro tali informazioni, le notizie venivano trasmesse con timore e valutate con riserva (...) Nonostante questi avvertimenti di particolare gravità, non furono compiuti i passi necessari per preparare adeguatamente il paese alla difesa e impedire che venisse colpito alla sprovvista (citato inT. Grant, Russia. Dalla rivoluzione alla controrivoluzione, AC Editoriale, Milano 1998, p. 233).

Spaventato dalle dimostrazioni di forza di Hitler, ancora una volta Stalin stava palesando di non essere in grado di pensare agli inevitabili sviluppi che si stavano preparando: si aggrappò fiducioso alle manovre che lo avevano collocato al fianco del dittatore tedesco, e volle ignorare persino i rapporti che i suoi servizi segreti gli mettevano a disposizione. Come atto estremo di fiducia nei confronti del suo alleato, Stalin fece demolire una potente linea di fortificazioni che era stata costruita prima della guerra sul confine occidentale, nei pressi di Minsk, in previsione di un possibile attacco tedesco; l’ex generale Grigorenko scrisse nelle sue memorie: «Il piano Barbarossa di Hitler non poteva ricevere regalo migliore» (Ivi, p. 230). Quali sarebbero le evidenze della «diffidenza reciproca tra Unione Sovietica e Terzo Reich» (D. Losurdo, Stalin, il nazismo e la guerra, in www.lernesto.it) che, secondo il professor Domenico Losurdo, (9) non si sarebbe dileguata nemmeno in quei mesi? Tale diffidenza non fu affatto reciproca, ma unilaterale, tanto che le truppe dell’Armata rossa non vennero allertate nemmeno di fronte alle incursioni sempre più frequenti dell’aviazione tedesca nello spazio aereo sovietico.

L’invasione dell’Urss

Quando l’operazione Barbarossa ebbe inizio, lo stato confusionale in cui si trovava Stalin lo mise nelle condizioni di impartire l’ordine di non rispondere al fuoco degli ex alleati: egli fece fatica a liberarsi della convinzione che si trattasse di provocazioni dei militari, non ordinate da Hitler. In questo modo, le forze armate sovietiche rimasero paralizzate nelle prime ore, cruciali, dei combattimenti scatenati il 22 giugno: nei venti giorni successivi i tedeschi penetrarono in profondità nel territorio sovietico, avanzando rapidamente per centinaia di chilometri; a metà settembre posero d’assedio Kiev e Leningrado, mentre a metà ottobre si trovavano a 60 chilometri da Mosca.

Come aveva spiegato Trotskij nel dicembre del 1939, la questione del meridiano da cui prese avvio la battaglia non ebbe alcuna importanza. L’aviazione sovietica, infatti, fu distrutta a terra, e centinaia di migliaia di soldati furono catturati quasi senza resistenza nei primi giorni della guerra. Non si trattò dei risultati drammatici di una debolezza oggettiva, ma degli esiti inevitabili di una pessima direzione: Stalin, negli anni precedenti, si era circondato di personale tanto ossequiente quanto incapace, e di fonte all’evidenza ormai innegabile dell’attacco tedesco fu letteralmente colto dal panico.

La tragedia vissuta in quei mesi dai popoli dell’Urss fu la diretta conseguenza della politica irresponsabile di Stalin e della sua cricca. Eppure c’è ancora chi, oggi, per polemizzare contro la retorica delle commemorazioni ufficiali, inneggia all’“autonomia dell’elaborazione politico-teorica del gruppo dirigente sovietico» (10). Ci pare di aver spiegato a sufficienza le ragioni per cui una posizione del genere risulta semplicemente ridicola. D’altra parte, di fronte alla prospettiva di una catastrofe che appariva sempre più imminente, Stalin, ripresosi dalla condizione di «obnubilamento» (11) in cui era sprofondato, fu costretto a procedere rapidamente con la riorganizzazione dello Stato maggiore dell’esercito: vennero rimossi i graduati più incompetenti, e vennero sostituiti da militari che erano stati arrestati durante le purghe e che vennero scarcerati proprio per subentrare nella direzione dell’Armata rossa.

Si trattò dell’ammissione implicita delle ragioni del disastro in cui era stato condotto il paese; l’esercito seppe, nel periodo successivo, riprendersi: esso si riorganizzò e riuscì a passare successivamente al contrattacco, avviando la più spettacolare avanzata militare della storia. Se l’Urss reagì, fu anche grazie alla straordinaria determinazione dimostrata dalla classe operaia sovietica: essa seppe affrontare sacrifici enormi pur di difendere le conquiste della rivoluzione dal terrore scatenato dai nazisti; il sentimento che si diffuse fra le masse, infatti, era quello di cui aveva già parlato Trotskij:

La sconfitta dell’Urss nel corso della guerra mondiale implicherebbe non solo il rovesciamento della burocrazia totalitaria, ma anche la liquidazione delle nuove forme di proprietà, il crollo della prima esperienza di economia pianificata e la trasformazione in colonia dell’intero paese, cioè il trasferimento all’imperialismo di colossali risorse naturali che gli permetterebbero di sopravvivere sino alla terza guerra mondiale. Né i popoli dell’Urss né la classe operaia nel suo complesso vogliono un risultato del genere. (L. Trotskij, Guerra e rivoluzione cit., p. 167.)

Fu proprio in territorio sovietico che si combatterono gli scontri decisivi della Seconda guerra mondiale: mentre i popoli dell’Urss, infatti, si battevano per liberarsi della presenza degli invasori nazisti, Inghilterra e Stati Uniti non si risolvevano ad aprire il secondo fronte, nell’attesa che Unione Sovietica e Germania si scannassero a vicenda (12). L’attacco nazista all’Urss aveva rassicurato, infatti, le potenze occidentali: esse iniziarono a sperare nella possibilità che i combattimenti sul fronte orientale avrebbero esaurito le forze di entrambi i contendenti; Inghilterra e Stati Uniti avrebbero poi potuto schierare le proprie truppe e far piazza pulita degli avversari. Ma si sbagliarono: non avevano fatto i conti con le potenzialità dell’economia pianificata dell’Urss, la quale, nonostante i danni provocati dagli errori della burocrazia, consentì al paese di incrementare la propria produzione e di affrontare il peso della guerra nei momenti più difficili. La superiorità della pianificazione, combinata con l’odio nutrito nei confronti dell’hitlerismo da parte delle masse sovietiche, mise a disposizione dell’Urss la potenza di fuoco necessaria per sconfiggere l’esercito nazista, e per costringerlo a ritirarsi fino a Berlino, prima di arrendersi. La bandiera rossa che sventolò sul Reichstag il primo maggio del 1945 dimostrò che le potenze occidentali avevano sbagliato i propri calcoli: la resistenza sovietica non solo non era stata spezzata, ma si era tramutata in un’avanzata impetuosa; essa aveva dimostrato che, nonostante le terribili deformazioni del regime staliniano, i nuovi rapporti di produzione stabiliti dalla Rivoluzione d’ottobre continuavano a rappresentare «una conquista colossale» per la quale valeva la pena di battersi.

20 ottobre 2009


Note

1)Si tratta dell’“impegnativa” espressione utilizzata da Alessandro Leoni nel suo Sul patto Molotov-Ribbentrop, articolo disponibile su www.lernesto.it.
2)P. Spriano, I comunisti europei e Stalin, Einaudi, Torino 1983, p. 137.
3)A. Höbel, Replica ad Ambrosino, in www.lernesto.it.
4)A.Burgio, Patto Ribbentrop-Molotov. Le colpe dell’Europa, “Liberazione”, 5 settembre 2009.
5)Si veda l’articolo citato di A. Burgio.
6)Per un approfondimento relativo agli esiti paradossali di tale riorientamento in Gran Bretagna, si veda T. Grant, Il lungo filo rosso. Scritti scelti 1942-2002, AC Editoriale, Milano 2007, pp. 93-95.
7)Questo termine è stato utilizzato da Aldo Agosti nel suo La Terza internazionale. Storia documentaria, vol. III, tomo II, Editori Riuniti, Roma, 1979, p. 1171.
8)Pierre Brouè ha scritto: «Trockij è profeta nelle analisi che riguardano la durata della guerra e della dominazione nazista, l’inevitabilità dell’attacco tedesco contro l’Urss e dell’intervento degli Stati Uniti, che suoneranno le campane a morto per l’Europa tedesca. Ma né l’una né le altre hanno trovato riconoscimento nella letteratura storica sulla Seconda guerra mondiale» (P. Brouè, La rivoluzione perduta. Vita di Trockij 1879-1940, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 891).
9)Per un’analisi critica delle tesi proposte da Domenico Losurdo nel suo ultimo libro, Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, si veda C. Bellotti, Domenico Losurdo, ovvero della concezione poliziesca della storia, in www.marxismo.net).
10)Si veda l’articolo citato di A. Leoni.
11)Termine utilizzato da Paolo Spriano, nel suo I comunisti europei cit., p. 144.
12)Per un’analisi sintetica delle vicende della Seconda guerra mondiale, si veda A. Woods, Sixtieth anniversari of D-Day. The truth about the Second World War, in www.marxist.com.